Ex-Italia
 
0) Letture raccomandate
1) La balcanizzazione dell'Italia (di Renato Caputo, 7 luglio 2019)
2) Altro che “prima gli italiani”! (di Massimo Villone, 13 giugno 2019)
 

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LETTURE RACCOMANDATE:
 
La sporca alleanza tra Lega e Pd sull’autonomia differenziata (di Giorgio Cremaschi / Potere Al Popolo, 22 Luglio 2019)
 
Carla Nespolo (presidente nazionale ANPI): "Regionalismo differenziato, riduzione del numero dei parlamentari, referendum concorrenziale col Parlamento: non è questa l'Italia della Costituzione" 
 
Il vero “contratto”? Si chiama Costituzione (Gianfranco Pagliarulo, 12 luglio 2019)
 
Ecco il dossier di Palazzo Chigi che smonta la “secessione dei ricchi” (Redazione ROARS - 27 Giugno 2019)
 
Autonomia differenziata: quali effetti su università e ricerca? (di Noi Restiamo, 16 Marzo 2019)
 
Regioni, il “buco nero” del sistema istituzionale italiano (di Franco Astengo, 18 Febbraio 2019)
 
La secessione reale e il “Cigno nero” (di Sergio Cararo, 14 Febbraio 2019)
 
L’ autonomia differenziata: come sempre, prima il Nord! (di Giovanni Pagano, 28 Gennaio 2019)
 
“Il regionalismo è la fine del sistema sanitario nazionale” (di Ivan Cavicchi, 6 Febbraio 2019)
http://contropiano..org/news/politica-news/2019/02/06/il-regionalismo-e-la-fine-del-sistema-sanitario-nazionale-0112140
Fonte: Regionalismo differenziato/1. Grillo sta avallando la fine del Ssn (Ivan Cavicchi, 24 gennaio 2019)
 
Cos’è che va minando l’unità del paese? (di Giuseppe Masala, 31 Dicembre 2018)
 
Impedire l’abolizione del valore legale del titolo di studio (di Usb - Scuola, 28 novembre 2018)
 
Regionalizzazione dell’istruzione, quarta rivoluzione industriale, Università italiana a doppia velocità (di Guglielmo Forges Davanzati, dal “Nuovo Quotidiano di Puglia“, 18 novembre 2018)
 
Perché il valore legale della laurea va difeso (Senza Tregua, 18/11/2018)
http://www.senzatregua.it/2018/11/18/perche-il-valore-legale-della-laurea-va-difeso/
https://www.resistenze.org/sito/te/pr/sc/prscim19-020912.htm
 
“L’Italia sta finendo”? Previsioni su un terremoto politico (di S.C., 17 novembre 2018)
 
Selezionati, titolati, ma senza valore. Allarme rosso per università e scuole (di Sergio Cararo, 14 novembre 2018)
 
La secessione attraverso la scuola (Domenico Gallo, 6 novembre 2018)
 
Scuola, laboratorio di secessione (di Giorgio Lonardi / Rete dei Comunisti, 6/11/2018)
 
Autonomia regionale del Veneto: cosa succederà a Scuole e Università? (di Giovanni Ordanini  20/10/2018)
 
... d'altronde di "Ex-Italia" noi parliamo già da un quarto di secolo: 
 
 
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La balcanizzazione dell’Italia 

Il pensiero unico neoliberista mira a indebolire la sovranità popolare e a tal fine, per dare il colpo definitivo alla Costituzione italiana “troppo democratica”, favorisce la balcanizzazione del paese

di Renato Caputo  07/07/2019
 

La netta vittoria nelle ultime elezioni politiche del qualunquista – programmaticamente né di destra, né di sinistra – Movimento 5 stelle rischiava di mettere in discussione un elemento chiave della Seconda repubblica, ovvero della restaurazione liberista, il bipolarismo fra due diverse fazioni dello stesso partito: i liberali progressisti e i liberali conservatori.

Tale bipolarismo faceva particolarmente comodo ai dirigenti del centro-destra e del centro-sinistra che potevano godere di una notevole rendita di posizione assicurata dal voto utile. Era anche la soluzione più confacente al pensiero unico neoliberista che voleva togliere la possibilità alle classi non possidenti di ottenere una parziale redistribuzione a loro favore di rendite e profitti mediante il suffragio universale. Non potendo eliminare quest’ultimo, se non mettendo a serio rischio la loro capacità di egemonia sui subalterni, il modo migliore per renderlo inoffensivo era svuotarlo dall’interno, riproducendo il modello dello Stato liberale italiano dalla nascita alla Prima guerra mondiale dove appunto si confrontavano due diverse tendenze dello stesso partito e, a scanso di equivoci, dominava permanentemente il trasformismo, visto che non essendoci differenze essenziali e contendendo essenzialmente per la conquista del centro i politicanti erano pronti a tutto pur di mantenere le loro poltrone nelle istituzioni.

Bisogna anche riconoscere che fra i principali responsabili della politica politicante della messa in discussione di tale modello troviamo il Pd, con i governi Letta, Renzi e Gentiloni che si sono spostati talmente a destra da far perdere qualsiasi significato al termine centro-sinistra. In particolare Renzi ha fatto di tutto per coinvolgere nel proprio governo il centro-destra e mirava apertamente alla costruzione di un Partito della nazione, in grado di ricomprendere nel proprio trasformismo centrista tanto il centro-sinistra che il centro-destra. Tale politica non poteva che mettere in allarme i sacerdoti del pensiero unico neoliberista, in quanto veniva meno la finzione del bipolarismo e il ricatto del voto utile e questo finiva per lasciare spazio al risorgere della sinistra. Inoltre, in tal modo, con un Partito della nazione potentissimo, avrebbe riconquistato una relativa indipendenza la classe dirigente politica rispetto alla classe dominante economica, facendo venire meno un altro dei capisaldi del neoliberismo e della Seconda repubblica.

Proprio per questo i poteri forti dopo aver caldeggiato contro Renzi e i 5 stelle – che avevano ormai capitalizzato a proprio vantaggio l’opposizione alle politiche antipopolari del governo fondato sul patto del Nazareno – un nuovo governo tecnico, vista la completa impopolarità di tale opzione, essendo ancora troppo fresco il ricordo del massacro sociale perpetuato dal governo Monti, si sono inventati dal nulla un nuovo leader di destra in grado di catalizzare intorno a sé il “popolo” del centro-destra. Si tratta, ovviamente, di Matteo Salvini, completamente sconosciuto leader di un partito, la Lega nord, in una fase di crisi spaventosa tanto che pochi erano disposti a scommettere sulla sua stessa sopravvivenza.

Mediante il controllo sostanzialmente monopolistico degli strumenti d’egemonia sulla società civile, le classi dominanti sono riuscite a fare di un politicante di quart’ordine, tanto noioso quanto privo di carisma, pedissequo e monocorde, l’astro nascente della politica italiana e addirittura del sovranismo europeo. Tale “miracolo” è pienamente riuscito anche perché l’unica forza in grado di contendere l’egemonia della classe dominante, il Pd, si è al solito accodato, mostrandosi come di consueto più realista del re. Anche perché, una volta che Renzi si è reso conto che il suo progetto di modifica ultra maggioritaria della legge elettorale avrebbe favorito i Cinque stelle, ha cambiato completamente la legge elettorale per impedire al M5s di poter avere la maggioranza necessaria a governare e per favorire un “grande” successo elettorale di Salvini. In tal modo, Renzi ha potuto di nuovo giocare la carta del voto utile, ricattando gli elettori, in quanto se non avessero votato lui avrebbero favorito il governo del paese da parte di forze populiste e apparentemente antitetiche all’Unione europea.

Tale ricatto non è andato del tutto a buon fine in quanto Renzi, perdendo l’appoggio dei poteri forti e del suo blocco sociale di riferimento, ha disperso una grande quantità di voti che oltre a far crescere ulteriormente l’astensione ha premiato, il voto di protesta al M5s e lo scontato successo di Salvini favorito non solo dall’appoggio degli strumenti di egemonia sulla società civile, ma dalla stessa legge elettorale. Non contento il Pd, capitanato da Gentiloni e Renzi, ha chiuso immediatamente le porte a qualsiasi accordo con il M5s, costringendo nei fatti quest’ultimo a formare un governo con la Lega.

Da allora il Pd, in perfetto accordo con i poteri forti e l’opposizione conservatrice e reazionaria ha sistematicamente attaccato il M5s sulle questioni strutturali, socio-economiche, da destra favorendo così la costante ascesa di Salvini, forte del completo appoggio bipartisan di chi controlla gli strumenti volti a garantire l’egemonia sulla società civile. In tal modo i rapporti di forza fra i due alleati di governo si sono completamente rovesciati nelle recenti elezioni per il parlamento europeo a favore della Lega. Anche perché tutta la campagna è stata costruita sulla presunta contrapposizione fra i tecnici ultra liberisti apologeti dell’Unione europea e della globalizzazione, il cui prototipo è stato rappresentato da Macron e i populisti sovranisti, in grado di rappresentare l’opposizione di sua maestà, ovvero un’opposizione tutta interna alle logiche neoliberiste dell’Ue, il cui prototipo ha finito per essere proprio Salvini.

Tale operazione è stata senza dubbio utile per ricostruire nelle elezioni locali il bipolarismo tanto caro ai poteri forti neoliberisti, con un centrodestra riorganizzato intorno a Salvini (e Meloni) e un sedicente centro-sinistra costruito intorno a Zingaretti (e Calenda). Ciò ha garantito l’operazione gattopardesca di ricostruire il centro-sinistra intorno a un politicante che non ha mai, neanche sulle decisioni più reazionarie, votato contro Renzi e ha fatto di tutto per presentarsi come alternativa non di “sinistra” a quest’ultimo, mettendo definitivamente a tacere anche quel minimo di opposizione interna di sinistra nel partito. In tal modo il Pd ha potuto recuperare una parte della rendita di posizione del voto utile a tutto discapito della sinistra e dei Cinque stelle.

Anche nel nuovo scenario politico che si è aperto dopo l’ultima tornata elettorale i poteri forti, le forze conservatrici e reazionarie hanno continuato ad attaccare, prevalentemente, da destra il governo, concentrando così i proprio strali sul M5s, dando ormai per definitivamente morta la sinistra, con la componente apertamente revisionista che ha già rilanciato l’alleanza in funzione subalterna con il Pd. A stringere definitivamente il cappio al collo ai politicanti apolitici e qualunquisti grillini ci ha pensato Casaleggio, confermando il limite dei due mandati per i suoi istituzionali. Condannando definitivamente questi ultimi a fare qualsiasi cosa e a ingoiare qualsiasi rospo pur di difendere la poltrona istituzionale.

Del resto ad assicurare il pieno controllo dei poteri di governo a Salvini ci ha pensato ancora una volta il Pd, dal momento che anche quando Di Maio, per cercare di non rimanere del tutto subalterno alla Lega, ha provato a cercare qualche sponda in Zingaretti, si è ritrovato una volta di più la porta sbattuta in faccia, con il Pd pronto ancora una volta ad assicurare i poteri forti che il primo nemico nel governo restano gli uomini qualunque a Cinque stelle. In tal modo il neo sedicente centro-sinistra può assumersi di nuovo di fronte ai poteri forti la piena corresponsabilità nelle politiche più devastanti, portate in particolare avanti dalla componente più reazionaria del governo, con la quale resta l’interesse comune a rilanciare il tradizionale bipolarismo caro al neoliberismo.

Quindi il Pd è rimasto a godersi lo spettacolo – mangiando pop-corn – del governo repubblicano più marcatamente spostato a destra, anche per la totale assenza di una qualche opposizione credibile di centro o di sinistra. Nell’attesa che sulla base del principio neoliberista dell’alternanza le misure populiste e demagogiche promesse dai leader dei partiti al governo non potranno essere realizzate – vista l’opposizione dei poteri forti transnazionali, in primis la troika, e di chi controlla il debito, sempre pronti a usare l’arma di ricatto dello spread, ovvero minacciando di scatenare il grande capitale speculativo transnazionale contro il nostro paese, facendogli pagare una parte ancora più significativa della crisi di sovrapproduzione.

Per altro, visto il ricatto sempre più aperto dell’Unione europea e delle opposizioni parlamentari che intendono imporre al governo la fine di qualsiasi forma di rivoluzione passiva e qualsiasi ribellione alle regole dell’austerità, anche quando si tratta di realizzare uno degli obiettivi più ambiti dei neoliberisti come la Flat-Tax, pur di riaffermare il dogma del pareggio di bilancio, è molto probabile che il governo per rimanere in piedi punterà principalmente a realizzare la secessione dei ricchi. Anche perché si tratta di una prospettiva che si sposa in pieno con il pensiero unico dominante neoliberista, visto che mira a indebolire sempre di più le istituzioni nazionali poste sotto il controllo almeno teorico della sovranità popolare e del suffragio universale, a tutto vantaggio delle istituzioni oligarchiche transnazionali.

Inoltre, tale misura mira a dare il colpo di grazia alla Costituzione, ovvero a quel compromesso ottenuto grazie alla Resistenza egemonizzata dai comunisti al nazi-fascismo che i neoliberali non hanno mai potuto digerire. Del resto, proprio per questo tale misura non incontra l’opposizione delle sedicenti opposizioni di centro-destra e centro-sinistra, dal momento che mirano a presentarsi come i più rigorosi cultori del pensiero unico.

Il progetto mira infatti a distaccare sempre di più le ricche regioni del centro-nord dal peso morto che sarebbe costituito dal centro-sud, per farle entrare a pieno titolo nel nocciolo duro che guida l’Europa a doppia velocità, costituito dalla Germania, Olanda, Danimarca etc. Si tratta, in effetti, del vecchio progetto reazionario della Lega, che mira a ripetere, senza nemmeno dover affrontare una guerra civile, la scissione della Federazione di Jugoslavia, con le regioni più ricche del nord inserite a pieno titolo nell’indotto dell’imperialismo tedesco e le disastrate regioni del sud poste sempre più sotto il controllo della malavita organizzata, utile perché sempre disponibile a svolgere il lavoro sporco per le oligarchie.

Non a caso come il secessionismo leghista ha sempre incontrato le simpatie, se non le aperte complicità, delle oligarchie del nord Europa e della malavita organizzata del sud, anche ora tali politiche non trovano nessuna forma di opposizione né nei tecnocrati dei centri di potere transnazionali, né nei politicanti del sud, da quelli più di destra a quelli più radical di sinistra, che credono di poter approfittare della situazione per accentrare ancora di più nelle loro mani il potere e il controllo delle risorse. Per motivi analoghi tali tendenze trovano il favore anche dei governatori di regioni storicamente governate dal centro-sinistra.

Tali tendenze, inoltre, indeboliscono ancora di più le classi subalterne, a partire dai contratti nazionali di lavoro, favorendo ulteriori divisioni che procedono nella direzione opposta alla parola d’ordine con cui si chiude il Manifesto del partito comunista, ovvero: “proletari di tutti i paesi, unitevi!”.

 
 
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Altro che “prima gli italiani”!
Massimo Villone
giovedì 13 giugno 2019
 
Il regionalismo differenziato e la Costituzione tradita: l’inizio; il disegno separatista nel pre-accordo del governo Gentiloni; la secessione dei ricchi e lo Stato che si dissolve; l’effetto domino e l’irreversibilità del disegno separatista; contro i segreti un’operazione verità; spezzare il muro dell’inemendabilità; conclusioni
 
L’inizio
La madre di tutte le riforme messe in campo dalla maggioranza gialloverde è il cd regionalismo differenziato. Non si attua attraverso riforme formalmente costituzionali, ma con lo speciale procedimento previsto dall’art. 116, comma 3, della Costituzione, per cui “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Va detto, in proposito, che la norma costituzionale permette una lettura coerente con la architettura costituzionale, se mantenuta nei limiti testuali di “forme e condizioni particolari di autonomia”. Rimanendo quindi volta a modifiche complessivamente limitate e puntuali del rapporto stato-regioni legate a specificità locali, senza toccare l’assetto generale di quei rapporti. È accaduto invece il contrario.
Le spinte secessioniste o para-secessioniste sono ricorrenti nel nostro Paese da un trentennio, e passano anche attraverso la riforma nel 2001 del Titolo V della parte II della Costituzione. La fase ultima della storia si avvia con due referendum voluti dalla Lega e svolti in Lombardia e Veneto il 23 ottobre 2017. Soprattutto è emblematico quello del Veneto, che nell’idea originaria, esplicitata in legge regionale, comprende quesiti quali: “vuoi che la Regione del Veneto diventi una regione a statuto speciale?; vuoi che una percentuale non inferiore all’ottanta per cento dei tributi pagati annualmente dai cittadini veneti all’amministrazione centrale venga utilizzata nel territorio regionale in termini di beni e servizi?; vuoi che la Regione mantenga almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale?; vuoi che il gettito derivante dalle fonti di finanziamento della Regione non sia soggetto a vincoli di destinazione?”. Quesiti considerati costituzionalmente illegittimi dalla Corte costituzionale nella sentenza 118/2015.
La Corte lascia passare solo il quesito apparentemente più innocuo: “vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”.
 
È simile il quesito nel referendum lombardo. È dunque una lettura restrittiva dell’art. 116, comma 3. Ma il danno è fatto ugualmente. I governatori leghisti di Veneto e Lombardia richiameranno all’infinito l’attuazione della volontà popolare manifestata dai circa 5 milioni di sì. E nessuno obietterà mai con pari forza che non si è mai chiesto il parere delle decine di milioni di aventi diritto al voto che saranno comunque direttamente toccati dalla riforma. Inoltre, i comportamenti successivi eludono completamente la pronuncia della Corte.
“Mantenere i soldi del Nord al Nord”, antico mantra della prima Lega secessionista, risuona in Veneto per tutta la campagna referendaria, e rimane tra gli obiettivi primari esplicitamente perseguiti. L’aspirazione di ottenere un regime paragonabile allo statusdelle regioni speciali viene parimenti ribadita, e si traduce nell’estendere la richiesta di più ampia autonomia e di maggiori risorse a tutte le materie comprese nel dettato dell’art. 116, nessuna esclusa. La Lombardia si accoda. E si aggiunge al gruppetto di testa, senza consultazione popolare, e con sorpresa di alcuni, anche l’Emilia-Romagna, le cui richieste sono in qualche misura ridotte – ma non di molto – rispetto a quelle del lombardo-veneto.
Il disegno separatista nel pre-accordo del governo Gentiloni
La legislatura sta andando alla sua conclusione quando arrivano a Palazzo Chigi le proposte delle tre regioni per attivare l’art. 116, comma 3. Sulle proposte il governo è chiamato, per l’art. 1, co.. 571, della legge 147/2013, ad avviare il procedimento entro 60 giorni. Ma il termine è meramente ordinatorio, e dunque nessun cogente obbligo giuridico vincola il governo a fare alcunché. Invece, il governo si attiva, e con il sottosegretario Bressa avvia il confronto con le tre regioni. Giunge persino, il 28 febbraio 2018, alla firma di un pre-accordo.
Qui troviamo una prima chiave di lettura fondamentale per il costituzionalista. Il governo Gentiloni, a quattro giorni dal voto, a Camere sciolte, è un governo in carica per il solo “disbrigo degli affari correnti”. Un governo strettamente limitato alla ordinaria amministrazione. Una formula certamente elastica, che non impedirebbe di affrontare questioni assolutamente urgenti e indifferibili, come ad esempio le misure rese immediatamente necessarie da una calamità naturale. Ma tale ovviamente non è il tema dell’autonomia differenziata. Il governo Gentiloni, che già non era insuperabilmente vincolato ad aprire il procedimento, ancor meno lo era a chiuderlo. Anzi, mai avrebbe dovuto chiuderlo. La via costituzionalmente corretta sarebbe stata un rinvio al parlamento e al governo nati dopo il voto. Allora, perché si stipula il pre-accordo?
È da escludere che ci sia stata disattenzione sul tema. Una firma inconsapevole dei limiti che si andavano a superare è ipotesi insostenibile. Come non basta una lettura in termini di captatio benevolentiae pre-elettorale. A parte la considerazione che si stava concedendo una importante vittoria di immagine, poi ampiamente sfruttata nella politica locale, a un avversario politico – la Lega – l’ipotesi reggerebbe se l’accordo fosse stato firmato ad pompam: per la forma, ma senza contenuti reali. Invece, i contenuti ci sono, e pesanti.
Oltre a un primo elenco di materie da regionalizzare, che si concorda possa essere ampliato successivamente, il pre-accordo si estende a comprendere un privilegio nella distribuzione delle risorse alle tre regioni, con l’aggancio del fabbisogno ai proventi tributari riferibili al territorio. Inoltre, si stabilisce che all’approvazione con legge delle intese si giungerà secondo la prassi seguita per i culti acattolici. Intendendosi questo come approvazione in aula di un testo inemendabile: al parlamento è consentito solo dire sì o no, senza poter modificare il merito delle intese. Con il primo punto, si rompe l’architettura solidaristica della Costituzione, e si manda in soffitta il principio che i cittadini della Repubblica siano uguali, a prescindere dal luogo di residenza. Con il secondo punto un governo sul letto di morte decide di vincolare il parlamento e il governo che verranno. Una incostituzionalità palese, e una assurdità politica.
 
Dunque, perché la stipula? L’unica ragione plausibile è che ci sia al fondo un disegno politico condiviso dalle parti contraenti, e quindi sostanzialmente dal centrodestra e specificamente dalla Lega da un lato, e dal PD dall’altro. Un disegno volto a sovvertire radicalmente l’architettura costituzionale, abbandonando l’obiettivo di una riduzione del divario strutturale Nord-Sud, e sostituendolo con quello di consolidare il divario abbandonando al suo destino la parte debole del paese. Liberare la locomotiva del Nord dal peso dei vagoni più lenti, per favorirne l’aggancio all’Europa e la competitività nel mondo globalizzato. Un disegno radicalmente incostituzionale, per tutto ciò che comporta in danno dei principi di solidarietà, perequazione, eguaglianza dei diritti.
A distanza di molti mesi, lo troviamo confermato ed esplicitato in due articoli, pubblicati sul Foglio del 4 e del 7 maggio 2019. Nel primo Guido Tabellini scrive: «Le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli, tra aree avanzate e arretrate del Paese”. Tabellini non è un quivis de populo. Ex rettore della Bocconi, studi e insegnamento all’estero, tra i 35 saggi di Letta per le riforme istituzionali, ministro dell’economia in pectore nel mai nato governo Cottarelli – in cui avrebbe preso il posto di Savona – e altro ancora. Una perfetta espressione dell’establishment.
Il 7 maggio sullo stesso giornale Pier Carlo Padoan, predecessore di Tria per 4 anni nei governi Renzi e Gentiloni, commenta Tabellini e la legge di bilancio gialloverde. Padoan accetta in premessa che «la crescita del Paese è trainata dalla crescita del nord, ma questa avviene a scapito della crescita del sud». L’effetto negativo si può evitare, ma è molto difficile, e dipenderà dalla disponibilità da parte delle regioni periferiche «delle risorse, capitale umano, immateriale, istituzionale e sociale, necessarie per tradurre l’assorbimento delle nuove tecnologie generate nelle regioni centrali. Se la diffusione sarà efficace la distanza tra Milano e Napoli tenderà a ridursi invece che ad aumentare e così tutto il Paese e non solo Milano potrà avvicinarsi all’Europa».
In sostanza, Tabellini e Padoan dicono la stessa cosa: in ogni caso, avanti i più forti. Leggendo Padoan capiamo che il famigerato pre-accordo del 28 febbraio 2018 tra il governo Gentiloni e Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna non era un errore, una captatio benevolentiae pre-elettorale, o la distrazione collettiva di un governo sul letto di morte. Stupiscono meno l’Emilia-Romagna tra le regioni richiedenti, e il perdurante silenzio del Pd, anche nell’era Zingaretti. Traspare un consapevole obiettivo di chi faceva e fa parte dei processi decisionali reali che orientano il Paese e le scelte di chiunque governi. Un disegno politico condiviso dall’Italia che conta e decide. In questa luce il regionalismo differenziato è molto più di un miserabile e banale egoismo leghista.
La secessione dei ricchi e lo Stato che si dissolve
Il disegno che traspare nella stipula del pre-accordo viene recepito tal quale nel “contratto di governo”. Che non assume il regionalismo differenziato solo come generale priorità, ma specificamente richiama il sollecito completamento del percorso avviato con le tre regioni. Quindi, il riferimento è all’accordo e ai suoi contenuti.
Può destare meraviglia che tale formulazione sia firmata da M5S, che nel voto del 4 marzo aveva trovato nella cassaforte elettorale del Sud la chiave per Palazzo Chigi. L’ipotesi più probabile è che non vi sia stata una adeguata comprensione della portata e delle implicazioni di quel che si andava a firmare. Ipotesi confermata dalle scelte sulla composizione del governo. Il pacchetto autonomia non è compreso nelle riforme affidate al ministro Fraccaro, pur essendo con ogni evidenza il punto di maggior peso, in principio e di fatto. Viene invece affidato a una ministra veneta e leghista – la Stefani – e un sottosegretario M5S lombardo (Buffagni).
La questione autonomia è quindi rimessa totalmente in mani lombardo-venete. Viene meno il contraddittorio che sarebbe stato necessario tra le regioni e un rappresentante della dimensione nazionale degli interessi. La ministra infatti interpreta il proprio ruolo essenzialmente nella chiave di accettare le richieste provenienti dalle regioni. Il ministero si riduce a succursale di un assessorato della regione Veneto. Il tutto è aggravato dal segreto che immediatamente copre le trattative tra le delegazioni del ministero e quelle delle singole regioni. Decine di incontri di cui nessuno conosce l’oggetto, e tanto meno i risultati. Come non si conoscono, se non per scarne notizie di stampa, le posizioni assunte dagli altri ministeri. Fino a quando, l’11 febbraio 2019, il sito ROARS pubblica le intese elaborate: decine di pagine dettagliate per ogni regione.
Non ricevono mai un riconoscimento ufficiale, e conclusivamente il sito del ministero per le autonomie ne espone solo una versione parziale e addomesticata, denominata “parte generale concordata”, che si limita all’elencazione delle materie oggetto del trasferimento, e all’enunciazione di qualche principio generale sull’assegnazione delle risorse. Tuttavia le decine di pagine esistono, e sono implicitamente richiamate autorevolmente quando in audizioni parlamentari gli stessi esponenti governativi fanno riferimento alla ampia documentazione ormai accumulata. I testi ROARS mantengono dunque credibilità.
 
Da quella documentazione, e dal poco reso disponibile dal ministero delle autonomie, si evidenziano in specie due punti.
Il primo: sono confermati i meccanismi di privilegio nell’accesso alle risorse per le regioni richiedenti. Le forme sono varie, e vanno da quote riservate sui fondi per le infrastrutture al diritto di trattenere eventuali aumenti del gettito tributario, mentre lo Stato si accolla il differenziale in caso di diminuzione; dalla previsione di partire con la spesa storica e quindi di mantenere comunque lo stato attuale, alla garanzia dopo un transitorio di trasferimenti non inferiori alla media nazionale per i servizi. Il principio di invarianza di spesa imposto dal MEF comporta che a qualunque privilegio accordato alle tre regioni segue una parallela riduzione delle risorse assegnate alle altre regioni. Si afferma dunque che chi ha di più ha diritto a mantenere quello che ha, ed è garantito sul punto che il livello di benessere, la qualità e quantità di servizi resi ai cittadini possa solo aumentare. È la “secessione dei ricchi”. Ed è il primo pilastro del disegno volto a staccare il Nord dal resto del Paese.
Il secondo. Non si trasferiscono alle regioni solo marginali funzioni in chiave di amministrazione di prossimità, più vicina ai cittadini. Si trasferiscono invece potestà legislative, per di più in materie – quelle di legislazione concorrente di cui all’art. 117, comma 3 – in cui la regione già usufruisce di potestà legislativa di dettaglio. Quindi la sola potestà trasferibile è quella statale di stabilire leggi di principio. L’intera operazione punta a ridurre il ruolo dello Stato, ritagliandone la potestà in modo tale da evitare interferenze con la piena regionalizzazione delle materie. In ultima analisi, si vuole trasformare in ampia misura le materie di potestà concorrente in materie affidate alla potestà residuale della regione, di cui al comma 4 dell’art. 117.. Siamo al sovvertimento dell’architettura costituzionale del rapporto Stato-regione. Una conferma si trova in quel che si fa con le potestà richiamate nell’art. 116 con riferimento all’art. 117, comma 2, cioè tra le competenze esclusive dello Stato. Per le norme generali dell’istruzione, ad esempio, l’intesa con il Veneto prevede che alla regione sia trasferito un lungo elenco di potestà, che va dalla lettera a) alla lettera p). Cosa potrà mai rimanere della competenza formalmente esclusiva dello Stato?
È così che si procede a una regionalizzazione che è contestualmente dissolvimento dello Stato centrale. Come giudicare diversamente trasferimenti che si estendono a comprendere non solo la scuola e la sanità – gli esempi più noti e discussi – ma anche strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie e infrastrutture in genere, ambiente, territorio, sovrintendenze ai beni culturali, tutela del lavoro, retribuzioni, previdenza integrativa, incentivi alle imprese, e persino la dichiarazione di equivalenza dei farmaci?
È qui il secondo pilastro del disegno separatista. Perché con esso si smantellano da un lato presidi storicamente essenziali per l’unità e l’identità del Paese, come la scuola. E dall’altro – dopo aver tolto le risorse – si tolgono allo Stato centrale gli strumenti normativi necessari per le politiche di riequilibrio che potrebbero riavvicinare il Sud al Nord.
L’effetto domino e l’irreversibilità del disegno separatista
La lettura messa in atto e tradotta nelle cd “intese” tra lo Stato e le regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ha tale portata ed estensione da perdere il riferimento, che rimane fermo in una lettura corretta dell’art. 116, comma 3, alla dimensione regionale e locale dell’interesse perseguito, regionalizzando materie geneticamente funzionali alla unità della Repubblica, principio cardine e non superabile sancito dall’art. 5 della Costituzione. Quindi non si tratta di attuazione di un principio costituzionale in armonia e in chiave di sistema con tutti gli altri previsti dalla Costituzione, ma di un vero e proprio sovvertimento. Un disegno politico che attraverso una riforma incostituzionale scrive surrettiziamente per gli italiani una nuova carta fondamentale. La gravità di quanto accade si coglie ancor meglio considerando due punti.
Il primo è l’effetto domino che verrebbe dall’approvazione delle intese oggi in discussione per tre regioni. Se il trasferimento fosse limitato a marginali funzioni in chiave di amministrazione di prossimità, nulla quaestio. Ma quel che accade è cosa del tutto diversa. Il presidente o l’assessore di una regione che avesse potestà legislative e amministrative sulla scuola, sull’assunzione e la carriera degli insegnanti, o su autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, o su sovrintendenze ai beni culturali, si troverebbe in posizione ben diversa rispetto all’omologo esponente di una regione che ne fosse priva. Non potrebbero mai sedere a uno stesso tavolo per una qualsivoglia trattativa in condizioni di almeno tendenziale par condicio. La rispettiva capacità di gestire consensi politici ed elettorali sarebbe incomparabile, e così parallelamente il peso specifico nel sistema politico generale e nei soggetti politici di appartenenza.
 
Se il disegno passerà nelle tre regioni capofila, sarà inevitabile una pressione da parte di tutte le altre regioni per ottenere un regime analogo. È questo il motivo per cui alcuni governatori del Sud, pur essendo certo consapevoli che il privilegio sulle risorse accordato ad alcune regioni non potrà mai essere esteso a tutti, tuttavia chiedono di aprire una trattativa. Barattano in realtà le risorse per gli amministrati con il proprio potere personale. Un calcolo miserabile, ma politicamente razionale.
Il secondo punto è la tendenziale irreversibilità degli esiti. L’art. 116 consegna alle regioni il potere esclusivo di iniziare il procedimento con la proposta, e di chiuderlo con l’intesa alla base della legge statale di approvazione. Un vantaggio indebitamente attribuito a una regione in danno di altre potrebbe essere corretto solo con l’accordo della regione interessata. E sarebbe anche sottratto a una correzione per via di voto popolare, essendo la legge rinforzata – come è quella ex art. 116 – per una antica giurisprudenza della Corte costituzionale sottratta al referendum abrogativo ex art. 75 della Costituzione. Probabilmente non per caso, anche il referendum propositivo che si vorrebbe introdurre è esplicitamente escluso per siffatte leggi.
Ancora conferma la irreversibilità il fatto che una ampia regionalizzazione, soprattutto se estesa a molte regioni, comporterebbe il trasferimento di centinaia di migliaia di dipendenti non più statali, e una radicale destrutturazione delle amministrazioni centrali. È un percorso sul quale sarebbe di fatto difficile o impossibile tornare indietro. Una volta smantellate, le amministrazioni statali non si ricostruirebbero con un tratto di penna, per intesa o legge che sia. Questo ci dice come siano vuoti di significato i punti delle intese che, a quanto si sa, prevedono verifiche a tempo del rendimento e dei risultati raggiunti. La via sarebbe comunque a senso unico.
Contro i segreti un’operazione verità
L’ampiezza, la profondità e la natura dell’innovazione proposta confermano in pieno il disegno politico separatista. E spiegano anche perché l’operazione sia stata e rimanga tuttora avvolta nel più stretto segreto, pur essendo invece tale da toccare l’intero Paese, meritando in principio la più ampia pubblicità è il più approfondito dibattito politico e dottrinario. Il segreto è indispensabile perché la visibilità renderebbe evidente il colpo di mano che si cerca di perpetrare.
I sostenitori dell’autonomia, e in specie i governatori di Lombardia e Veneto, hanno sempre affiancato all’argomento del rispetto della volontà popolare – di cui si è già detto – quello dell’“efficientamento” del sistema Paese. In breve: è giusto, e conviene, investire risorse là dove possono essere meglio utilizzate, e cioè nel Nord virtuoso ed efficiente, e non nel Sud incapace e sprecone. Una riedizione nemmeno troppo ripulita del lessico della prima Lega secessionista degli anni ‘90. Il regionalismo differenziato viene venduto dal mantra leghista come misura a spesa invariata di efficientamento, anche nell’interesse del Mezzogiorno e della responsabilizzazione delle sue classi dirigenti.
 
Ma la pressione lombardo-veneta e la evidente esagerazione nelle richieste di maggiore autonomia hanno aperto sul merito e sul metodo un dibattito che non si può ora ignorare. Quanto al metodo, non solo i meridionalisti ultras sostengono la necessità di stabilire preliminarmente i Lep (livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali) previsti dall’art. 117 Cost., e a seguire costi e fabbisogni standard, e criteri della perequazione. Lo dicono i ministri Tria e Lezzi in sede parlamentare, lo dice la Sose (società strumentale del MEF) e da ultimo un documento della Ragioneria dello Stato, segreto come tutti gli altri, e tuttavia filtrato alla stampa. Il dibattito ha messo in chiaro che dalla mancata attuazione del complessivo meccanismo del federalismo fiscale come disegnato dall’art. 119 Cost e dalla legge 42/2009 è passata per anni la sottrazione al Mezzogiorno di miliardi di euro che avrebbero dovuto essere assegnati secondo principio.
Il punto cruciale è dunque che qualunque ipotesi di regionalismo differenziato presuppone un riequilibrio in attuazione dei dettati costituzionali e legislativi. Lo dimostrano ormai cifre inoppugnabili. Al tempo stesso, rimangono del tutto apodittiche e indimostrate le affermazioni della maggiore efficienza di un sistema Paese regionalmente segmentato. Ancora cifre ufficiali e di fonte non sospetta provano che gli enti locali del Sud sono ampiamente paragonabili nell’efficienza della spesa a quelli del Nord. Il problema viene dalla penuria di risorse, e non dall’incapacità di spendere le poche che si hanno. La maggiore virtuosità delle amministrazioni del Nord è quotidianamente smentita anche dalle cronache giudiziarie. Ad ogni buon conto, le amministrazioni meridionali non virtuose certo non meritano alcuna assoluzione. Ma non si può presentare il conto alla gente del Sud in termini di minori diritti e qualità di vita.
Viene in chiaro che per anni ha avuto luogo una falsa rappresentazione della realtà che anticipava il disegno separatista. Lo dicono e lo documentano analisti e studiosi autorevoli come Viesti, Giannola, Esposito, e istituti prestigiosi e di antica tradizione come la SVIMEZ. Si evidenzia la menzogna, il colpo di mano con esiti irreversibili che si vorrebbe perpetrare approfittando dell’inerte politica meridionale, con numeri taroccati, e nell’oscurità di un dibattito parlamentare addomesticato.
Spezzare il muro della inemendabilità
Alla falsa narrazione si affianca infatti il tentativo di garantire alle intese stipulate dalle tre regioni un passaggio parlamentare sottratto a qualsiasi modifica. Il tema, già posto nei pre-accordi tra il governo Gentiloni e le tre regioni, è tuttora dibattuto, per la resistenza soprattutto della Lega verso qualsiasi ipotesi diversa. Nella specie, si vuole trasferire la prassi ex articolo 8 della Costituzione per i culti acattolici al regionalismo differenziato ex articolo 116, perché in entrambi i casi si giunge alla legge «sulla base di» intesa.
Ma la formulazione testuale non è di per sé decisiva. L’intesa ex articolo 8 definisce la diversità e la conseguente separatezza che una minoranza protetta – il culto acattolico e la sua fede – vuole garantirsi nei confronti della maggioranza che si traduce nella legge. Da qui l’inemendabilità. Tra l’altro, nemmeno tali intese sono ritenute in principio assolutamente inemendabili, e quindi la prassi richiamata andrebbe più correttamente definita come un self-restraint parlamentare generalmente adottato verso le intese.
Nell’articolo 116, invece, e nel complesso di regole costituzionali sul regionalismo, è garantita l’eguaglianza prima della diversità. Veneti e lombardi sono pur sempre cittadini italiani, titolari dei medesimi diritti e doveri di tutti gli altri. Quale diversità e separatezza potrebbe o dovrebbe difendere una inemendabilità dell’intesa? Con l’aberrante conseguenza di impedire il concorso dell’assemblea rappresentativa alla formulazione di scelte che toccano la vita di tutti? Nell’articolo 116 la formula «sulla base di» può e deve essere letta diversamente rispetto all’articolo 8. Questo è possibile perché una prassi non è imposta da regole cogenti, ma è costruita sull’esperienza e sui precedenti. È sempre modificabile, in base alle esigenze, e può a tal fine bastare anche una diversa lettura delle norme applicabili.
Come? L’articolo 116 dice solo che l’intesa precede l’approvazione della legge. Ma non prescrive come e dove si collochi nel procedimento di formazione della legge, né che intervenga tra regione e governo, e tanto meno che si traduca in un disegno di legge inemendabile. Basta allora qualificare come pre-accordo l’intesa trasfusa nel disegno di legge che il governo presenta in parlamento, sul quale vanno applicate le regole generali per la discussione e l’approvazione, inclusa l’emendabilità. Nel lavoro parlamentare il testo non è più modificabile quando si arriva alla «doppia conforme», cioè quando le due Camere hanno approvato un’identica formulazione testuale. Nel momento precedente il voto finale sull’intero testo – ormai consolidato – si può verificare che sussista l’intesa, nuovamente da parte dell’esecutivo, o in alternativa da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali, cui comunque già compete di esprimere un parere sul disegno di legge. Se l’intesa c’è, si procede con il voto e la promulgazione. Diversamente, si riapre la trattativa e si ripete il procedimento.
 
Avrebbe bisogno il presidente di assemblea dell’assenso del governo per innovare la prassi? No. Tutto rientra nel quadro dei poteri del presidente e delle norme vigenti e applicabili alla formazione della legge, anche per quanto riguarda l’ipotesi di coinvolgere la Commissione parlamentare per le questioni regionali. Si può fare senza alcun ritocco delle regole. Diversamente, il rischio di incostituzionalità è alto.
Sappiamo (cfr. Corte cost., ord. 17/2019) che è legittimato al ricorso per conflitto tra poteri il singolo parlamentare nel caso di «una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita al ricorrente». Tale innegabilmente è il caso se al parlamentare è precluso ogni emendamento su una proposta che tocca la nazione – tutta – che egli rappresenta. Per di più, mancando le situazioni eccezionali che hanno contribuito alla inammissibilità del ricorso per la legge di stabilità.
Si sente da ultimo parlare di ipotesi diverse. Ad esempio, portare alla discussione parlamentare non il testo delle intese, ma generici documenti di indirizzo cui il governo si atterrebbe nella definizione dei contenuti di dettaglio, rimanendo la legge di approvazione inemendabile. Oppure, limitare la legge di approvazione ai principi generali, lasciando la successiva attuazione a sedi extra-legislative, definendo il dettaglio dei trasferimenti di potestà e risorse in commissioni paritetiche Stato-regione, i cui esiti verrebbero tradotti in decreti del presidente del consiglio.
I vari modelli procedimentali ipotizzati sono accomunati da alcune caratteristiche. La prima è impedire al parlamento di entrare nel merito delle intese da stipulare. La seconda, è indebolire le garanzie di costituzionalità apprestate dall’intervento del Capo dello Stato e da quello della Corte costituzionale, attraverso l’attuazione con atti – i dpcm – non emanati dal Capo dello Stato, e non suscettibili di impugnativa davanti alla Corte Costituzionale se non forse attraverso il conflitto di attribuzione tra Stato e regione, ovviamente da parte di regioni che non volessero salire sul carro della maggiore autonomia.
Segretezza e inemendabilità camminano di pari passo. Da un lato si impedisce al Paese di conoscere, capire, dibattere. Dall’altro si impedisce ai rappresentanti di discutere e decidere liberamente. Su entrambi i versanti non potrebbe essere più chiara la violazione della Costituzione..
Conclusioni
È un paradosso solo apparente che gli occupanti pro tempore di Palazzo Chigi da un lato – almeno nella componente M5S – innalzino in ogni momento la bandiera della partecipazione democratica e della trasparenza, e dall’altro coprano con il segreto i processi in atto attraverso i quali si vuole cambiare faccia al paese.
La Lega non ha mai nascosto i propri interessi e obiettivi politici, che sono stati abilmente solo dissimulati da Salvini nella conquista del voto meridionale. Ma ovvio sarebbe stato l’interesse contrario di M5S, e ancor più del Pd come maggior forza di opposizione. Ma il Movimento sconta la difficoltà di aver firmato un contratto capestro cui non riesce a sottrarsi, ed al quale si aggiungono dichiarazioni del suo leader che riconosce il diritto del popolo veneto o lombardo ad avere l’autonomia richiesta, senza porsi il problema della compatibilità con gli interessi di altri “popoli”, i cui voti lo hanno portato a Palazzo Chigi. Il Pd sconta il peccato originale di avere firmato il pre-accordo con il governo Gentiloni, e di vedere nella pattuglia di testa delle regioni richiedenti l’Emilia-Romagna, avendo evidentemente creduto di poter utilmente inseguire la Lega sul terreno di un disegno essenzialmente separatista.
 
Questo offre una chiave di lettura complessiva dell’operato in materia di riforme della maggioranza gialloverde. L’indifferenza, quando non l’ostilità, verso la Costituzione vigente è indiscutibile. Cosa conta investire tanto nella riduzione dei costi della politica, nella trasparenza, negli strumenti della democrazia diretta, quando non si tiene in alcuna considerazione il quadro dei conti reali del Paese, della distribuzione della ricchezza, della giusta ripartizione di costi e benefici tra i territori? Quando si vuole procedere stroncando il dibattito a modificare gli assetti fondamentali del Paese? Che importanza si riconosce al principio personalistico che pervade la Costituzione, affermando una fondamentale eguaglianza nei diritti?
Il fatto nuovo del recente dibattito è che il silenzio delle forze politiche è stato spezzato dalla iniziativa della società civile, di studiosi ed esperti che hanno alzato il velo del segreto. A questa spontanea discesa in campo rimane al momento affidata la difesa della Costituzione per quanto riguarda la unità del Paese. Ad essa si aggiunge da ultimo una mobilitazione del sindacato, al momento in specie della scuola. Ma sarà bene che faccia di più e meglio, perché il sindacato nazionale è la prima e immediata vittima sacrificale in un Paese che andasse a frammentarsi in una lasca confederazione di staterelli..
Per l’unità della Repubblica rimarrà invece poco rilevante il numero dei parlamentari, e del tutto irrilevante la possibilità di avanzare referendum propositivi. È l’eguaglianza il terreno di battaglia. Perché un Paese che vuole rimanere unito non può tollerare qualsiasi diseguaglianza, soprattutto se costruita su false rappresentazioni. E non può accettare non tanto le diseguaglianze oggi indubbiamente esistenti, ma gli argini giuridici che si vogliono alzare contro la possibilità di superarle. Che è esattamente l’obiettivo del disegno separatista in atto.
Massimo Villone, costituzionalista, già parlamentare, professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Il presente lavoro è tratto con modifiche non sostanziali da un saggio più ampio, di prossima pubblicazione sul numero 54/2019 della rivista “Alternative per il socialismo” con il titolo “Riforme e controriforme in gialloverde”.

Bibliografia
Sui temi trattati vedi in specie per una lettura di base G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, www.laterza.it, 2019 (download gratuito); M. Esposito, Zero al Sud, Rubbettino, 2018; M. Villone, Italia, divisa e diseguale, www.editorialescientifica.com, 2019 (download gratuito), ed ivi ampi riferimenti storici, oltre che bibliografici e di documentazione anche parlamentare, con un elenco di miei articoli, in alcune parti ripresi nel presente testo; A. Giannola, G. Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul «federalismo differenziato», in Rivista economica del Mezzogiorno, 1-2/2018; C. Iannello, Regionalismo differenziato: disarticolazione dello Stato e lesione del principio di uguaglianza, in www.economiaepolitica.it30 gennaio 2019S. Marotta, Regionalismo differenziato: cos’è e quali rischi comporta, in www.economiaepolitica.it, 17 gennaio 2019; M. Cammelli, Il regionalismo differenziato. Risultati incerti e rischi sicuri dell’autonomia regionale, in www.rivistailMulino.it, 20 luglio 2018 e Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art.116.3 Cost., Astrid-online.it, maggio 2019.