Majdan vista dal Donbass
Molti compagni, molti amici del Donbass, conoscono da anni Andrej Vladimirovič Kočetov, Presidente del Sindacato delle piccole imprese innovative della Repubblica Popolare di Lugansk. Andrej Kočetov partecipa spesso a conferenze internazionali, non solo di carattere sindacale, per dar voce al Donbass, ignorato dall’informazione ufficiale. E’ stato a più riprese anche in Italia, per parlare della situazione delle Repubbliche Popolari, aggredite dalle forze armate ucraine e dai reparti neonazisti al loro seguito, che terrorizzano la popolazione civile, distruggono case, scuole, asili, ospedali, in una guerra che dura ormai da oltre cinque anni e che ha provocato, secondo le cifre ufficiali, oltre tredicimila vittime, soprattutto civili.
Andrej Kočetov accompagna spesso le delegazioni straniere che arrivano in Donbass per portare la solidarietà, anche materiale, di coloro che vedono nella resistenza delle Repubbliche popolari all’aggressione nazista un insegnamento e uno stimolo nella lotta quotidiana contro l’oppressione di classe. Un’oppressione che non esita a ricorrere alla violenza fascista e nazista, ogni qualvolta e in qualsiasi parte del mondo lo impongano gli interessi del capitale.
Per molti lettori, alcuni paragrafi dell’articolo non appariranno certamente nuovi; ma, nel suo insieme, l’intervento di Andrej costituisce la testimonianza umana di un compagno che, da anni, è testimone della costante involuzione dell’Ucraina «indipendente», dal 1991 fino ai giorni della reazione più nera. Il caso dell’Ucraina, e, in generale, di alcune delle ex Repubbliche sovietiche, descritto da Andrej Kočetov, aiuta a comprendere le origini del cosiddetto «majdan» e della sua successiva spirale di guerra. Come dice lo stesso Andrej: «La storia dell’articolo è questa: moltissimi amici occidentali pongono spesso la domanda sul perché e come si sia giunti al majdan a Kiev. Così, ho deciso di condividere le informazioni al riguardo».
Una sola notazione generale. Come naturale, nel testo ricorre spesso la parola majdan. L’espressione «majdan» è ormai divenuta sinonimo della situazione creatasi in Ucraina immediatamente prima e dopo il golpe neonazista del febbraio 2014; viene quindi usata in svariate forme e contesti. Di per sè, la parola «majdan» significa piazza; dato che le manifestazioni del 2014 a Kiev si svolsero principalmente in majdan Nezaležnosti, ossia in piazza dell’Indipendenza (ovviamente, dall’URSS…), ecco che «il majdan» raffigura a pieno l’odierna Ucraina «democratica».
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Per come si è venuta strutturando storicamente, l’Ucraina è composta di regioni diverse, che si distinguono l’una dall’altra per religione, lingua, cultura e, ciò che è più importante, per mentalità. Si può dire a grandi linee che della compagine ucraina fanno parte: Donbass (Lugansk, Donetsk, Dnepropetrovsk, Zaporož’e), Ucraina centrale (Khar’kov, Poltava, Kiev, Černigov, Sumy, Čerkassy, Kirovograd, Žitomir, Vinnitsa), Ucraina meridionale (Kherson, Nikolaev, Odessa; anche se, sinceramente, Odessa è sempre stata una città particolare, con una propria, unica atmosfera), Ucraina occidentale (Khmel’nitskij, Ternopol’, Ivano-Frankovsk, Černovtsy, L’vov, Volyn’, Rovno), Transcarpazia (Užgorod). Una regione assolutamente separata dall’Ucraina è sempre stata la Crimea, con una mentalità esclusivamente russa.
La maggior parte dei territori si sono uniti alla moderna Ucraina nel corso della formazione dello Stato sovietico. Ad esempio, le regioni occidentali entrarono nella compagine della Repubblica socialista sovietica ucraina solo nel settembre del 1939. Nello stesso anno, entrò a far parte dell’Ucraina anche il più moderno centro della rinascita del nazionalismo ucraino, L’vov. Gli anni del potere sovietico sono contrassegnati da una forte crescita industriale in tutta l’Ucraina, con la nascita di grandi centri industriali nell’est-sudest del paese.
Gli abitanti dell’Ucraina centrale e orientale si integrarono positivamente in tutte le sfere della vita dello Stato sovietico. Al contrario, gli abitanti dell’Ucraina occidentale rimasero, per la maggior parte, del tutto isolati. Anche negli anni del potere sovietico, i rappresentanti della Galizia (regione di L’vov) si sono sempre distinti per un’accesa retorica anti-russa e un’aggressività – a quel tempo ancora tacita – verso tutto quanto fosse russo; consideravano gli abitanti dell’Ucraina centrale e orientale non del tutto ucraini o semplicemente “moscolej” (termine dispregiativo in uso nell’Ucraina occidentale per indicare i russi). Ed è andata avanti così fino al crollo dell’URSS.
Ora, vari politici e cosiddetti attivisti nazionalisti parlano molto dell’indipendenza ucraina da essi conquistata. E lo fanno, ignorando completamente il fatto che l’Unione Sovietica è stata distrutta da Gorbačëv e dalla sua squadra. L’Ucraina, i Paesi baltici, al pari delle altre repubbliche dell’URSS, conseguirono l’indipendenza non in seguito a una lunga lotta, ma, di fatto, dalle mani di Gorbačëv, che credeva ciecamente nelle promesse dell’Occidente. Il crollo definitivo dell’URSS, nel dicembre 1991, fu poi sanzionato dai leader delle tre più grandi repubbliche dell’URSS: Federazione Russa, Ucraina e Bielorussia.
Dopo il crollo dell’URSS, le élite politiche dell’Ucraina indipendente non tardarono a far propria l’economia di mercato. Cominciò un’accanita divisione dei resti dell’eredità sovietica. L’epoca degli anni ’90 diede vita a una nuova struttura sociale: gli oligarchi. Privatizzando le proprietà statali e brigando per ingannare il popolo, che non capiva nulla di mercato, i nuovi padroni della vita sociale in breve tempo si arricchirono favolosamente. Contemporaneamente, facevano la loro comparsa nel paese i nuovi “amici”, dai paesi occidentali e dagli USA..
Naturalmente, questi “amici” occidentali, come il Serpente nel Giardino dell’Eden, insinuavano una mela dopo l’altra, che i politici ucraini, insieme alle élite del business, erano contenti di mordere. In maniera particolarmente attiva, veniva propagandata l’affidabilità del sistema bancario occidentale e, per meglio mettere al sicuro e nascondere i soldi rubati, questi scorrevano a fiumi dall’Ucraina verso conti bancari esteri in tutto il mondo, principalmente negli USA.
Fu così che le nuove élite si saldarono rapidamente e sicuramente, dando vita a occulte “cordate-vincoli”, attraverso cui i “partner” li avrebbero trascinati ad adottare decisioni su tutte le questioni politiche di importanza vitale per l’Occidente. Quindi, in un periodo di tempo abbastanza breve, l’Occidente aveva raggiunto l’obiettivo: l’anima dell’Ucraina (la sua sovranità) era stata venduta. Peccato che, anni dopo, toccasse all’intero paese dipanare i risultati dell’avidità dei politici ucraini.
Nei Paesi baltici, dove non esisteva un’industria così sviluppata e le élite locali avevano più facilmente troncato i legami con la Russia, i “partner” occidentali agirono in modo ancora più semplice. Sulle Repubbliche si riversò un flusso di benefici della “civiltà occidentale”, sotto forma delle merci più disparate: dai prodotti alimentari alle automobili. E, naturalmente, insieme a queste, arrivarono le banche occidentali, per concedere facili prestiti a destra e a manca, a una sola piccola condizione: garanzie immobiliari.
Da parte loro, le Repubbliche baltiche, su ordine dell’Occidente, privatizzarono la terra. E le banche, con grande soddisfazione, iniziarono a concedere prestiti dietro cauzione della terra privatizzata. Lentamente, ma risolutamente, cittadini di paesi occidentali cominciarono a diventare proprietari di beni immobili e terreni, acquisendo tranquillamente le proprietà confiscate dalle banche per crediti inesigibili. Vale a dire: non era qui necessario spendersi in guerre di conquista. Tutto avveniva in silenzio, tranquillamente e pacificamente.
Vero è che, come risultato di tale politica, ci imbattiamo in una situazione assolutamente unica, che non si osserva in nessun’altra parte del mondo. In presenza di condizioni di stabilità politica, crescita economica e assenza di conflitti armati sul proprio territorio, gli abitanti dei Paesi baltici rinunciano in massa a vivere nel proprio paese e se ne vanno, ancor più in fretta dei rifugiati dei paesi d’Asia e Africa, sconvolti da rivoluzioni e guerre civili.
Mai prima d’ora la popolazione autoctona di questa regione era fuggita come fa oggi: semplicemente, i gruppi etnici titolari dei Paesi baltici non vogliono più vivere nei loro paesi. Secondo uno studio dell’Università della Lettonia, il 62,7% di coloro che se ne sono andati, ha dichiarato di non voler tornare perché deluso, tanto dal paese, quanto dallo Stato. Tra coloro che erano tornati, il 40% ha cambiato idea e se ne è andato di nuovo. Le ricerche dimostrano che oltre un quarto della popolazione in età lavorativa pensa di emigrare; e si tratta principlamente delle persone più attive, che mirano a una carriera, e sono in grado di adattarsi alla vita di un altro paese.
Ma il percorso scelto per l’Ucraina dalle sue élite, è ancora più duro e molto più doloroso. All’inizio degli anni 2000, si era affacciata una flebile speranza di rinascita: l’economia ucraina aveva ripreso vitalità, i rapporti commerciali e industriali si stavano nuovamente integrando con l’economia russa. E ciò era avvenuto in modo particolarmente attivo nel periodo del governo di Viktor Yanukovič. Egli, con l’obiettivo della crescita economica, sosteneva conseguentemente la necessità per Russia, Ucraina e paesi della CSI di risolvere i problemi relativi all’unificazione delle merci e ai mutamenti della struttura produttiva, che consentissero di offrire prodotti competitivi sui mercati mondiali. Dato però che l’Occidente aveva piani in certo qual modo «diversi» per l’Ucraina, ci si affrettò a cambiare vettore di sviluppo, volgendo in fretta l’Ucraina verso l’Europa e contrapponendola alla Russia.
Per far ciò, nel 2004 fu avviata l’operazione «rivoluzione arancione», che diede il via a una fase attiva del crollo del paese. A dispetto della Costituzione, sotto una fortissima pressione occidentale, alla carica di Presidente fu lanciata la candidatura perfettamente amorfa di Viktor Juščenko, uomo debole e di corte vedute e, perciò, non scelto a caso. Si adattava magnificamente al ruolo di esecutore dei piani occidentali per il crollo dell’Ucraina. Fu sotto di lui e con il suo aiuto che, sulla società ucraina, furono sganciate bombe ideologiche a scoppio ritardato, che avrebbero inevitabilmente diviso la società, frantumandola in clan e sottogruppi. Una di queste bombe fu il riconoscimento di Stepan Bandera quale eroe dell’Ucraina, che generò la divisione ideologica del paese. Ecco una serie di esempi di simili bombe ideologiche a tempo:
Lo sviluppo della chiesa non canonica e il pluriennale completo silenzio sull’incameramento di chiese, la proscrizione della chiesa ortodossa ucraina: tutto ciò ha prodotto una divisione spirituale. All’inizio del 2019, questa carica è esplosa prepotentemente: gli scismatici hanno ricevuto un tomos dalle mani del patriarca ecumenico Bartolomeo, residente regolarmente in territorio turco. Ciò appare particolarmente beffardo, se ricordiamo che i “patrioti dell’Ucraina” sostengono di essere — dicono loro – eredi del famoso Sich di Zaporože, che fu sempre nemico implacabile della Turchia.
Il divario tra ricchi e poveri, cresciuto nel corso degli anni, ha provocato una divisione sociale particolarmente acuta.
E come non ricordare le parole di Julija Timošenko: «Bisogna recintare il Donbass col filo spinato e lanciarci sopra bombe atomiche”? Oppure gli slogan elettorali di Viktor Juščenko, che in Donbass vivono solo “banditi”? Casualità? No, avevano bisogno di una divisione territoriale basata sulla nazionalità: infatti in Donbass vivono soprattutto russi.
Insieme alla esaltazione di controversi personaggi storici, Viktor Juščenko innescò anche quella che doveva diventare la bomba più potente, lavorando sulla «immagine» della Russia. Molti ricordano probabilmente le sue ripetute tournée estere, con gli appelli alla comunità internazionale per riconoscere come genocidio il golodomor del 1933 in Ucraina. Le recriminazioni venivano avanzate nei confronti della Federazione Russa, ma nessuno si preoccupava di precisare che analoghi fatti storici si fossero verificati negli anni ’30 anche sul territorio della Russia stessa: nel Kuban e nella regione del Volga. E gli sforzi di Juščenko non furono vani: fu dato il via a un’immagine della Russia quale aggressore sanguinario.
Tutte queste azioni erano dirette a sconvolgere l’Ucraina. Di “bombe” ce ne sono state molte altre, ma quelle sopra elencate divennero la base per un lento, ma sicuro crollo dello Stato. Oggi possiamo constatare come ciascuna delle bombe innescate sia esplosa, seminando nel paese caos e completa schizofrenia politica. È un peccato che non si siano trovati nel paese «sminatori» competenti, mentre i “bombaroli” si sono rivelati più scaltri e più abili, e gli esecutori non hanno fallito…
L’obiettivo di queste manipolazioni è perfettamente chiaro: divide et impera. Gli USA sono razziatori mondiali, che non comprano mai nulla al prezzo di mercato. Loro, come un boa, avvolgendo la vittima un anello dopo l’altro, esauriscono le sue forze, stringendo sempre più… Per loro, è più vantaggioso prendere tutto al prezzo più basso; meglio ancora, in regalo. Senza risparmiare denaro, distribuiscono “30 pezzi d’argento ai moderni Giuda”, disposti per quei soldi a vendere tutto e tutti.
Lanciando le reti, gli USA lasciano sempre uno spazio di manovra: alla vittima rimane di solito una via d’uscita brutta, un’altra molto brutta e una super brutta. La scelta dipende sempre dall’ardore delle passioni. È sempre più corretto disinnescare le emozioni e, agendo a mente fredda, non cadere affatto nella rete. Purtroppo, in Ucraina, non si sono trovati prodi simili. Con la tacita connivenza di milioni di persone, il paese ha perduto la propria statualità, permettendo a un miserevole pugno di lobbisti pro-occidentali di distruggere e assassinare, annientando il proprio stesso popolo.
E tutto questo subbuglio è poi sfociato nel colpo di stato armato, compiuto a Kiev alla fine di febbraio 2014. La ragione formale della ‘”indignazione popolare” fu il rifiuto del Presidente Janukovič di firmare l’Accordo di associazione all’Unione europea, su cui insisteva così tanto l’Europa. Avevano una tale fretta che lo stesso testo dell’Accordo non era stato nemmeno tradotto e non si era svolta alcuna discussione sul documento.
All’inizio, però, le proteste non trovarono un sostegno di massa. Allora, gli organizzatori si misero sulla strada, a lungo sperimentata, tesa a suscitare il malcontento delle masse: fu organizzata una provocazione contro la milizia, la risposta di questa fu registrata su video e diffusa immediatamente dai media occidentali. Tutto ciò avveniva alle 4 del mattino, sulla piazza centrale della capitale ucraina, dove, “in modo perfettamente casuale”, si trovavano diverse troupe, che registravano tutto su video e lo trasmettevano. Proprio questo costituì il «grilletto di sparo» che scatenò il secondo majdan che, sotto la direzione dell’ambasciata USA e le visite di incoraggiamento dei leader europei, si trasformò in colpo di stato armato.
Tutto ciò che accadeva a majdan, solo apparentemente poteva sembrare un movimento spontaneo di masse popolari indignate per le ruberie governative. Anche senza menzionare il fatto scandaloso delle sfacciate interferenze negli affari interni di uno Stato sovrano, quando senatori e esponenti USA (Biden, McCain, Nuland), Presidenti europei (Gribauskajte, Kaczyński, Kwaśniewski, Wałęsa) arrivavano a majdan appositamente per incoraggiare le persone nella loro indignazione contro il potere legittimo, nel corso di tutto lo scontro tra le autorità e il majdan — anche senza menzionare tutto ciò, si avvertiva chiaramente la presenza di una direzione esterna. Osservando attentamente ciò che stava accadendo, si poteva vedere il chiaro algoritmo dell’indignazione artificiale delle masse, la loro regia.
Ogni lunedì, dopo le “assemblee popolari” domenicali, si registrava un naturale declino dell’interesse per ciò che stava accadendo a majdan.. Molte persone, prese dai propri affari, si allontanavano e majdan si vuotava a vista d’occhio. Ma, per gli organizzatori, era essenziale mostrare ai media l’ennesima immagine di “masse popolari giustamente indignate”. Per questo, era necessaria un’esplosione di emozioni popolari, in grado di far nuovamente confluire le persone a majdan. Proprio per questo, tutti gli eventi di rilievo si verificavano appositamente a metà settimana, in modo che poi, la domenica successiva, majdan si riempisse nuovamente di persone. Il primo sangue di majdan fu versato il 22 gennaio 2014. Era un mercoledì. Mi voglio soffermare su questo omicidio.
L’assassinio di Sergej Nigojan. La sua famiglia, originaria del Nagorno-Karabakh, proprio sul confine tra Armenia e Azerbajdžan, era fuggita dalla guerra. Sergej era nato quando già la famiglia si era stabilita in Ucraina. Conosceva bene la lingua ucraina, ma aveva una fisionomia non tipicamente ucraina. Quattro giorni prima del suo assassinio, la TSN aveva registrato un video che… verrà mandato in onda dopo il suo assassinio. Così come, dopo l’omicidio, comparve un video girato nel dicembre 2013, in cui Nigojan legge i versi “Caucaso” di Taras Ševčenko. Ovviamente, gli organizzatori accusarono immediatamente del delitto le forze speciali della milizia «Berkut», che fronteggiavano majdan. Ma l’autopsia dimostrò in seguito che Sergej era stato ucciso da una rosa di colpi esplosi da un fucile da caccia e non da un’arma di servizio della milizia. Per di più, due colpi erano stati sparati al corpo e un terzo alla testa. Era stato un omicidio a sangue freddo, commesso solo per sollevare una nuova ondata di indignazione e riempire così majdan, la domenica successiva, di persone esasperate…
Ed è stato così per tutti gli altri eventi significativi di majdan, che hanno avuto luogo a metà della settimana: ora picchiavano la giornalista d’opposizione Tatjana Černovol, poi sequestravano il coordinatore di «Automajdan», Dmitrij Bulatov, poi ancora qualcos’altro. Anche le sparatorie contro le persone nel centro di Kiev si inseriscono perfettamente in questa serie di eventi.
Troppo a lungo si trascinava la contrapposizione e troppo ostinatamente Janukovič rifiutava di ricorrere alla forza. Al contrario, gli elementi di majdan avevano bisogno di molto sangue, affinché il “regime sanguinario” diventasse, alla fine, davvero sanguinario. Avevano bisogno di una grande vittima sacrificale, su cui si potesse focalizzare l’attenzione di tutta la comunità internazionale.
Le fucilate, che provocarono la morte di 43 persone, furono esplose al mattino del 20 febbraio, in via dell’Istituto. Le persone furono colpite da cecchini appostati alle loro spalle: dall’albergo Ucraina, il cui edificio dà direttamente su via dell’Istituto, e dal tetto del Conservatorio di Kiev, direttamente su majdan. C’è già uno studio di esperti indipendenti, quali ad esempio il politologo canadese Ivan Kačanovskij. C’è la dichiarazione dell’eruodeputato polacco Janusz Korwin-Mikke, che già il 20 aprile 2014 aveva apertamente affermato che i cecchini che avevano sparato a majdan erano stati addestrati in Polonia.
Ma il primo vero e proprio fulmine a ciel sereno risuonò dopo la pubblicazione del colloquio tra il Ministro degli esteri estone Urmas Paet e l’Alta rappresentante esteri UE Catherine Ashton: in essa, Paet dichiarava apertamente che le persone di via dell’Istituto erano state uccise dall’opposizione. “… Preoccupa altamente, che la nuova coalizione non voglia indagare sulle circostanze esatte dell’accaduto. Cresce rapidamente la convinzione che dietro quei cecchini non ci fosse Janukovič, ma qualcuno della nuova coalizione”, così Urmas Paet esprimeva alla collega di Bruxelles le impressioni del suo viaggio in Ucraina.
Questo colloquio azzerò completamente la mitologia e tutta l’aureola romantica della “rivoluzione della dignità”. Alla luce di quelle parole, diveniva chiaro che tutta la regia di majdan era stata perfettamente organizzata, che era stato messo a punto un meccanismo, volto al rovesciamento del precedente regime, che al momento giusto doveva infiammare, stimolare e indirizzare l’indignazione della folla verso il corso voluto. Diventa in tal modo comprensibile anche il fatto che, immediatamente dopo majdan, con il pretesto di una ristrutturazione, tutti gli alberi di via dell’Istituto venissero abbattuti. Il nuovo governo si dava attivamente da fare per cancellare le tracce dei propri crimini.
E non sorprende nemmeno, che il 31 marzo 2014 la Verkhovnaja Rada adottasse la legge “Sulla eliminazione delle conseguenze negative e sulla inammissibilità di persecuzioni e sanzioni per avvenimenti verificatisi nel corso di pacifiche riunioni”; legge secondo cui non potevano esser istruiti nuovi procedimenti penali e procedimenti per violazioni amministrative, relativi a tali eventi, e tutti i procedimenti istruiti in precedenza contro partecipanti a riunioni pacifiche avrebbero dovuto esser chiusi (rientrando nell’amnistia). Vale a dire: tutti coloro che avevano attaccato le forze dell’ordine schierate a difesa dell’ordinamento statale, come pure coloro che avevano compiuto un colpo di stato armato, venivano completamente affrancati da ogni tipo di azione penale.
Tutto ciò, nonostante che durante gli scontri, 23 agenti fossero stati uccisi nell’adempimento delle loro funzioni, 932 fossero rimasti feriti; tra questi, 257 avevano riportato lesioni gravi, e 158 presentavano ferite da arma da fuoco. Tutte queste persone erano cittadini ucraini e funzionari in servizio. Avevano riportato mutilazioni ed erano morti nell’adempimento del dovere. Dove erano, in quel momento, i leader e gli attivisti dei paesi occidentali? Dove erano in quel momento i media occidentali?
Perché questi morti e questi feriti sono rimasti ignorati? Viene spontanea una sola risposta a tutte queste domande: è stato l’Occidente a promuovere in Ucraina il rovesciamento del potere legittimo. Esattamente con la connivenza e l’aperto incoraggiamento dei leader dei paesi occidentali, si è compiuto in Ucraina un colpo di stato armato, in seguito a cui sono andate al potere persone completamente controllate dall’Occidente.
Majdan e la sua impunità portarono allo scoperto persone che presto, con la connivenza dello Stato, avrebbero preso le armi e scatenato una guerra civile nel sudest dell’Ucraina. Ma questa è la fase successiva, molto triste, della storia ucraina, che deve essere raccontata a sé.
* traduzione e introduzione di Fabrizio Poggi
Il passaporto russo agli abitanti del Donbass
Andrej Kočetov interviene sulla questione della concessione della cittadinanza russa agli abitanti delle Repubbliche popolari del Donbass. Lo scorso 24 aprile, dopo che Vladimir Zelenskij, appena eletto alla presidenza ucraina, aveva palesato le reali intenzioni di Kiev nei confronti del Donbass, Vladimir Putin aveva firmato il decreto sulla semplificazione delle procedure per la concessione del passaporto russo agli abitanti di DNR e LNR che lo desiderino.
In luglio, poi, il Cremlino aveva esteso ai circa 3 milioni dell’intera popolazione delle regioni di Donetsk e Lugansk (non solo delle Repubbliche popolari) la semplificazione delle procedure, e si parlava di oltre 60.000 domande di cittadinanza già presentate dagli abitanti di DNR e LNR e 25.000 passaporti già concessi.
Come ricorda Andrej, da tempo Ungheria, Romania, Turchia, Polonia concedono la cittadinanza alle minoranze ucraine delle regioni confinarie, senza che ciò abbia mai provocato le reazioni delle diplomazie europee, come per il Donbass.
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Concedendo il passaporto russo agli abitanti del Donbass e semplificando le procedure per l’ottenimento della cittadinanza russa, la Russia sta cercando la strada per come meglio aiutare i cittadini del Donbass, i cui spostamenti sono stati resi praticamente impossibili dal blocco imposto dall’Ucraina. Molti di loro ottengono il passaporto russo, in quanto semplicemente non in grado di varcare la frontiera anche solo, semplicemente, per apporre una nuova fotografia sul proprio passaporto ucraino.
La concessione del passaporto della Federazione Russa agli abitanti delle Repubbliche popolari, rende quindi possibili i loro spostamenti e contribuisce al ristabilimento della giustizia. A mio avviso, sono assolutamente incomprensibili le contestazioni mosse alla Russia da parte di alcuni europei, per il fatto che, d’ora in avanti, gli abitanti del Donbass avranno la possibilità di ottenere la cittadinanza russa e il passaporto della Federazione Russa.
Sollevando tali polemiche, i Paesi europei, e la stessa Ucraina, dimostrano la propria ipocrisia e ambiguità, il proprio doppio standard. Nessuno infatti si indigna, allorché Polonia, Ungheria, Romania, basandosi sul fatto di comuni radici etniche, offrono la possibilità agli ucraini di ottenere il passaporto dei propri paesi. E invece, quando i russi etnici, che parlano la lingua russa, che sono russi per spirito, ottengono il passaporto della Federazione Russa, ciò in qualcuno provoca stupore.
Ma, allora, sorge la domanda: quale è la differenza? No, non c’è alcuna differenza. Allo stesso modo degli abitanti dell’Ucraina con radici etniche rumene, polacche o ungheresi, che desiderano ottenere il passaporto di tali Stati, così anche gli abitanti con radici etniche russe hanno il medesimo diritto di ottenere la cittadinanza della Federazione Russa.
Dunque, appaiono non democratiche e violano le norme internazionali, esternazioni come quelle espresse nell’agosto 2019 dai Ministeri degli esteri di Lituania e Estonia, sul non riconoscimento in Europa dei passaporti della Federazione Russa, concessi in via semplificata agli abitanti del Donbass.
E’ il caso di ricordare la cronistoria della questione: il 24 aprile il Presidente russo Vladimir Putin ha firmato l’Ukaz sulla semplificazione delle procedure per la concessione dei passaporti russi agli abitanti del Donbass. Quindi, il 17 luglio, lo stesso Presidente russo ha esteso a tutti gli ucraini delle regioni di Donetsk e di Lugansk che vivono nel paese la semplificazione per l’ottenimento della cittadinanza russa.