(deutsch / italiano)

 
Anschluss, trent'anni dopo
 
1) “Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa”:
Intervista a Vladimiro Giacché in occasione dell'uscita della seconda edizione del suo libro
2) Modell Genickbruch (Vladimiro Giacché)
3) Il lascito di Margot Honecker alle nuove generazioni di comunisti (Paolo Spena)
 
 
Vedi anche:
 
''UNIFICAZIONE GERMANIA UN DISASTRO, EURO STESSA SCIAGURA. NO ALLE AUTONOMIE DIFFERENZIATE" (31 ott 2019, abruzzowebtv, a cura di Roberto Santilli)
Intervista di AbruzzoWeb.it a Vladimiro Giacchè, direttore del Centro Europa ricerche (Cer), sulla nuova edizione del libro "Anschluss. L'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa" (Diarkos edizioni). 
 
ZURÜCK IN DIE KNECHTSCHAFT / 40 ANNI DI RDT, 25 ANNI DOPO (Vladimiro Giacché, jW 6/10/2014)
 
 
WIE HORST KÖHLER UND THILO SARRAZIN DEN DDR-ANSCHLUSS AUSBRÜTETEN (junge Welt, 26.09.2014)
Der Hamburger Publizist Otto Köhler veröffentlichte 2011 im Verlag Das Neue Berlin eine Neuauflage seines 1994 erschienenen Buches »Die große Enteignung. Wie die Treuhand eine Volkswirtschaft liquidierte«. Das hinzugefügte erste Kapitel befaßt sich mit dem Anteil Horst Köhlers, 1990 Staatssekretär im Bonner Finanzministerium, und seines Fachreferenten Thilo Sarrazin am Entwurf der Währungsunion mit der DDR. Ein Auszug
http://www.jungewelt.de/2014/09-26/053..php
 
 
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“Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa” di Vladimiro Giacché
7 Novembre 2019

Dott. Vladimiro Giacché, Lei è autore del libro Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa edito da Diarkos: a trent’anni dal crollo del Muro di Berlino, la riunificazione tra le due parti della Germania può dirsi compiuta?

No. Sussistono tuttora marcate differenze sotto il profilo economico e sociale: basti pensare che un lavoratore dell’Est riceve uno stipendio pari a poco più dell’80 per cento di un lavoratore dell’Ovest e che la disoccupazione è tuttora superiore del 50 per cento a quella dell’Ovest, nonostante un’emigrazione che ha interessato milioni di cittadini della ex Germania Est. Molte città e paesi, soprattutto nelle aree rurali, si sono spopolati. Una ricerca dell’istituto di ricerca tedesco Ifo uscita nel luglio scorso ha reso noto che, mentre la parte occidentale della Germania ha oggi più abitanti di quanti ne abbia mai avuti, la parte orientale è tornata ad avere gli abitanti che aveva nel 1905. Queste differenze si riflettono anche in un voto molto differente da quello espresso nei Länder dell’Ovest, e che penalizza in particolare i partiti di governo.

Ancora di recente un sondaggio ha evidenziato che i cittadini dell’Est si sentono cittadini di serie B. È difficile dar loro torto. Ma soprattutto, col passare del tempo, è sempre più difficile addebitare quelle differenze a “quello che c’era prima”. Non soltanto perché dalla caduta del Muro sono ormai passati 30 anni, e perché Kohl aveva promesso “paesaggi fiorenti” all’Est in due-tre anni. Ma per un motivo più sostanziale: perché gran parte del fossato che non si chiude tra Est e Ovest è stato scavato con l’unificazione, per il modo in cui essa è stata realizzata. L’unificazione politica è del 3 ottobre 1990. Essa era stata preceduta, il primo luglio 1990, da un’unione monetaria affrettata e mal congegnata. Affrettata, perché avveniva in assenza di una convergenza economica (per questo motivo gli stessi esperti economici del governo di Bonn l’avevano sconsigliata); all’obiettivo politico di “fare presto”, di giungere quanto prima possibile all’unità politica tra le due Germanie, veniva di fatto sacrificata la possibilità di un’unione economica più equilibrata e meno traumatica per le regioni dell’Est. Ad aggravare le cose, l’unione monetaria è stata anche mal congegnata: infatti essa stabiliva un cambio alla pari tra due monete tra le quali i rapporti di cambio a fine 1989 erano regolati secondo un rapporto di 1 a 4,44 (ossia, 1 marco ovest equivaleva a 4,44 marchi dell’est). Apparentemente, si trattava di un regalo ai consumatori dell’Est. In realtà rappresentò la rovina per le imprese dell’Est, in cui prezzi conobbero automaticamente un aumento del 350 per cento circa. Il risultato fu l’immediato crollo della produzione industriale dell’Est (-35 per cento nel solo mese di luglio 1990), licenziamenti di massa e il fallimento di fatto di gran parte delle imprese della Germania Est. Queste imprese furono poi tutte privatizzate nel giro di pochi anni a prezzi irrisori, o semplicemente liquidate, da un organismo, la Treuhandanstalt, che operò in modo a dir poco discutibile. Queste vicende sono raccontate con qualche dettaglio nel mio libro, e sorprenderanno chi sia abituato ad associare la Germania all’etica degli affari e all’assenza di corruzione e di pratiche commerciali scorrette. Il risultato fu in ogni caso un processo di deindustrializzazione senza precedenti in Europa, le cui conseguenze si continuano a pagare oggi. Anche in termini politici.

Cosa ha significato per la Germania e per l’Europa intera la riunificazione dei due paesi?

L’unificazione tedesca è stata un elemento fondamentale del crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo e quindi del ridisegno dell’assetto geopolitico in Europa rispetto all’ordine postbellico. In un certo senso, è l’evento che chiude simbolicamente il Novecento, e comunque uno spartiacque decisivo al suo interno. La stessa nascita dell’Unione Europea col trattato di Maastricht, come pure il suo allargamento a Est, sarebbero assolutamente inconcepibili senza questo evento. Lo stesso si può dire dell’espansione della Nato a Est nel continente europeo. In un certo senso, è stata la vittoria dell’Europa Occidentale e del suo sistema sociale sul suo antagonista storico, il comunismo sovietico, che si era imposto a Est. Al tempo stesso, paradossalmente, proprio questa vittoria ha alterato profondamente gli equilibri all’interno della stessa Europa Occidentale, trasformandola in qualcosa di molto diverso da quello che era in precedenza.

Quali conseguenze ha prodotto la riunificazione tedesca in Europa?

Per quanto riguarda l’Europa Occidentale, l’unificazione della Germania ha significato in primis una sostanziale alterazione dei rapporti di forza. La Germania si è ritrovata con 16 milioni di abitanti in più ed è diventata il paese europeo con la popolazione di gran lunga più numerosa. Dal punto di vista economico, ha potuto realizzare quello che non era mai riuscito alla sola Germania Ovest: assumere una centralità nel continente e riprendere l’espansione economica verso Est delle proprie imprese e dei propri capitali che si era interrotta nel 1945. In effetti, in pochissimi anni l’export della Germania Est verso gli altri paesi del Patto di Varsavia è stato pressoché interamente sostituito dall’export da parte di aziende dell’Ovest. Ma – cosa ancora più importante – la Germania ha potuto acquisire all’Est non soltanto clienti, ma anche subfornitori per i suoi prodotti. Questa riconfigurazione delle filiere produttive nell’Europa Centro-Orientale attorno alla Germania ha dato senz’altro un contributo significativo ai successi della Germania come paese esportatore, ma ha anche spostato verso Est il baricentro economico e della produzione manifatturiera in Europa. Questo ha tra l’altro accresciuto le difficoltà dell’Italia, da sempre subfornitore privilegiato della Germania. Dal punto di vista geopolitico, l’alterazione dei rapporti di forza in Europa, in particolare rispetto alla Francia, ha indotto quest’ultima a tentare di “ingabbiare” la Germania attraverso la moneta unica europea. Questa operazione ha condotto al trattato di Maastricht, in cui però la Germania ha ottenuto che le regole della banca centrale europea fossero esemplificate su quelle della Bundesbank.. Il risultato è stato il contrario di quanto i francesi si ripromettevano dall’operazione: anziché una “Germania europeizzata”, un’“Europa germanizzata”, ossia un’Europa egemonizzata dal modello economico e istituzionale tedesco.

In che modo la storia della riunificazione tedesca parla direttamente al nostro presente?

Credo che purtroppo la riunificazione tedesca parli al nostro presente soprattutto per quanto riguarda la sua parte meno riuscita, ossia l’unione monetaria. In effetti anche l’unione monetaria europea, così come quella tedesca, è stata un’unione mossa da un obiettivo politico (incorporare per così dire la Germania e al tempo stesso accelerare e rendere irreversibile l’integrazione europea); e anche in questo caso è stato compiuto l’errore di osare tale passo in assenza di una sufficiente convergenza delle economie. Il risultato è che la convergenza delle economie non si è prodotta neppure dopo. Si è avuta per un certo periodo l’impressione che essa stesse verificandosi. Ma si trattava di un’illusione. Alcuni paesi periferici effettivamente crescevano, ma indebitandosi nei confronti di altri paesi dell’eurozona, e in particolare di Germania e Francia: questi flussi di capitale in entrata occultarono di fatto gli squilibri che si stavano creando. Poi con la crisi del 2008/2009 tutto il meccanismo è saltato.

Quale ruolo ha svolto la moneta unica europea nella crisi dell’ultimo decennio?

La moneta unica non è stata la causa della crisi europea. Però in sua assenza gli squilibri commerciali tra i paesi membri – una delle cause principali della crisi – sarebbero stati corretti attraverso aggiustamenti del cambio prima di diventare esplosivi. Inoltre, dopo lo scoppio della crisi, l’impossibilità per i paesi membri di effettuare politiche monetarie autonome hanno reso l’uscita dalla crisi più lunga e dolorosa in termini sociali, in particolare per i più deboli tra essi. In effetti c’è uno studio dell’economista De Grauwe che, confrontando le reazioni alla crisi da parte di Spagna e Regno Unito (in entrambi i paesi la crisi fu legata allo scoppio di una bolla immobiliare, quindi si tratta di un confronto sensato), evidenzia come la possibilità di effettuare una politica monetaria autonoma da parte del Regno Unito, che non fa parte della moneta unica, abbia contribuito a una sua uscita più rapida dalla crisi.

La rigidità rappresentata dalla moneta unica costituisce tuttora uno dei principali fattori di vulnerabilità dell’eurozona nel suo complesso. Essa va posta in relazione con l’insufficiente convergenza delle economie dell’eurozona: se le economie vanno a velocità diverse, se alcune sono in espansione mentre altre annaspano intorno alla crescita zero o sono addirittura in recessione, è evidente che il tasso d’interesse stabilito dalla BCE (che ovviamente è unico) non potrà essere adatto alle condizioni dell’economia di tutti i paesi che fanno parte dell’area monetaria.

Quale futuro a Suo avviso per la Germania e l’Unione Europea?

La Germania appare sempre più chiaramente come vittima della sua stessa strategia. È il grande beneficiario della moneta unica. L’ha utilizzata per fare una politica mercantilistica aggressiva, che le ha consentito di espandere in misura notevole le esportazioni nell’eurozona a scapito dei competitori. A questo fine ha tenuto bassi i salari e quindi compresso la domanda interna; non ha fatto sufficienti investimenti. In una parola: ha puntato tutto sulle esportazioni. Ha imposto politiche di austerity ai paesi europei in crisi verso i quali esportava, e al conseguente indebolimento della loro domanda di prodotti tedeschi ha reagito spostando le proprie esportazioni verso altri paesi (Cina e Stati Uniti). Adesso però il primo di questi mercati è interessato da una guerra commerciale con gli Stati Uniti, e questi ultimi stanno cominciando a rispondere al surplus della bilancia commerciale tedesca nei loro confronti con dazi alle importazioni. La Germania così si trova in un vicolo cieco e vede profilarsi ormai chiaramente lo spettro di una recessione. Ci vorrebbe un cambiamento di politiche, ma non è scontato che ci sarà.

Lo stesso, in fondo, vale per l’Unione Europea. I segnali che indicano la necessità di un cambiamento delle politiche sono molteplici: dalla Brexit a un voto europeo che non ha davvero premiato i partiti “tradizionali”, da una crescente ostilità di larghe fette dell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni europee all’approssimarsi di una recessione alla quale con gli strumenti di cui l’Unione si è dotata appare impossibile reagire efficacemente. Ma non si avverte una reazione all’altezza dei problemi. Neppure sugli strumenti più sbagliati messi in campo durante la crisi, e in particolare il cosiddetto fiscal compact, si registra alcun ripensamento. È un grave errore. Il maggior problema per l’Unione europea è il fatto che essa non è stata in grado di mantenere la promessa di una maggiore prosperità per i suoi cittadini. Al contrario, in particolare l’eurozona, ha evidenziato una crescita deludente rispetto al resto del mondo. Se non si saprà invertire questa tendenza, non vi sono troppi motivi per essere ottimisti sul futuro dell’Unione.

Vladimiro Giacché è nato a La Spezia nel 1963. È stato allievo della Scuola Normale di Pisa, dove si è laureato e perfezionato in Filosofia. Da venticinque anni nel settore finanziario, è presidente del Centro Europa Ricerche e consigliere di amministrazione di Banca Profilo. Negli ultimi anni ha pubblicato Titanic Europa (2012; ed. tedesca 2013), Costituzione italiana contro trattati europei(2015), La fabbrica del falso (2016). Ha curato edizioni degli scritti economici di Karl Marx (Il capitalismo e la crisi, 2009) e Lenin(Economia della rivoluzione, 2017).
 
 
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MODELL GENICKBRUCH 
 
Der italienische Wirtschaftswissenschaftler Vladimiro Giacché hat ein brillantes Buch über den DDR-Anschluß und seine Folgen für die EU geschrieben
 
Arnold Schölzel
junge Welt, 26.09.2014
 
Vladimiro Giacché ist ein philosophisch bewanderter marxistischer Ökonom, der in einem römischen Finanzinstitut praktisch tätig ist. Nach seiner Studie »Titanic Europa. Geschichte einer Krise« (2013) erschien vor wenigen Wochen in einer exzellenten Übersetzung von Hermann Kopp ein zweites Buch von ihm auf deutsch »Anschluß. Die deutsche Vereinigung und die Zukunft Europas« (am 19. August veröffentlichte jW einen Auszug als Vorabdruck). 
 

Kalkuliertes Desaster

 
Der größte Teil dieser Arbeit dreht sich um die am 1. Juli 1990 vollzogene Währungsunion von Bundesrepublik und DDR, um ihre unmittelbare Vorgeschichte und ihre Konsequenzen vor allem für die DDR-Bürger. Das liegt 24 Jahre zurück und der Autor fragt im Vorwort, was »der Erwerb von fünf neuen Ländern und Ostberlins durch die BRD« heute noch lehren kann. Seine Antwort: Die Erfahrung seither sei »von höchstem Interesse angesichts dessen, was in Europa seit und mit der Währungsunion geschehen ist. Die europäische Währungs- und Wirtschaftsunion wäre ohne deutsche Vereinigung 1990 undenkbar. In erster Linie deshalb, weil die europäische Einheitswährung der Versuch war, ein Deutschland ins europäische Konzert einzubringen, das gerade dank der Vereinigung sein Gewicht wesentlich erhöht und alle anderen EU-Länder übertrumpft hatte. Zweitens, weil man mit dieser Vereinigung die Ideologie – die Art, Wirtschaft und Gesellschaft zu konzipieren – zementierte, wie sie für die europäische Integration bestimmend wurde.

Das in diesen Sätzen entworfene Programm – eine Anatomie des für den DDR-Anschluß entscheidenden Instruments, der fiskalischen Übernahme und Zertrümmerung der DDR-Ökonomie – handelt der Autor auf den ersten 130 Seiten seiner Arbeit ab, zunächst chronologisch, später in der Analyse einzelner Aspekte. Er stützt sich dabei auf die umfangreiche Literatur, die dazu erschienen ist, und ignoriert vor allem nicht – wie hierzulande westwärts üblich – die Publikationen ostdeutscher Autoren. Giacché analysiert z.. B. das Schurkenstück der sogenannten Altschulden, die ostdeutschen Betrieben zum Nutzen westdeutscher Banken übergeholfen wurden; das Prinzip »Rückgabe vor Entschädigung«, das in Teilen des bundesdeutschen Mittelstandes eine Gier auf Ost-Immobilien entfachte, die Wall-­Street-­Banker­ vergleichs­wei­se blaß­ aussehen läßt; und die so­ge­nann­te Abwicklung der Eliten, zu der Giacché u. a. eine Äußerung des früheren Bundeskanzlers Helmut Schmidt aus dem Jahr 2006 zitiert: »Man ist übrigens mit den Kommunisten nach 1990 schlimmer umgegangen als am Beginn der Bundesrepublik mit den ehemaligen Nazis. Wenn wir mit den Kommunisten etwas toleranter umgegangen wären, wäre das Desaster, wie wir es heute in den neuen Ländern erleben, möglicherweise etwas glimpflicher abgelaufen.«

So wird Geschichte freundlich um- und umgeschrieben. Denn Giacché weist nach: Das Desaster inklusive Massenarbeitslosigkeit, Abwanderung, Deindustrialisierung und Zertrümmerung der Lebensverhältnisse von Millionen Menschen war von den Urhebern der Währungsunion – insbesondere vom damaligen Bonner Staatssekretär Horst Köhler und seinem Adlatus Thilo Sarrazin – kühl kalkuliert (siehe auch den Text von Otto Köhler unten dazu). Welche Ausmaße die Katastrophe allerdings annehmen würde – davon hatten diese Leuchten einer fundamentalistisch verfochtenen Privatisierungs- und Deregulierungsidiotie, die mit höchstem Staatseinsatz durchgesetzt wurde, keine Vorstellung. 
 

Propagandafetische

 
Alle Warnungen von Fachleuten, einschließlich des damaligen Bundesbankpräsidenten Karl Otto Pöhl oder der DDR-Wirtschaftsministerin im Kabinett von DDR-Ministerpräsident Hans Modrow, Christa Luft, wurden mit einer Arroganz in den Wind geschlagen, die noch heute in der bundesdeutschen Meinungsmache zur DDR vorherrscht: Ein Marktversagen hat es demnach nie gegeben, Schuld an allen Folgen der Währungsunion war die sozialistische Planwirtschaft. Giacché polemisiert mit diesen Propagandafetischen nicht, er läßt Zahlen und Tatsachen sprechen. Die »beste Zusammenfassung der Entwicklung«, schreibt er, stamme von Modrow: »Die Währungsunion hat der DDR-Wirtschaft das Genick gebrochen.« Sozusagen planmäßig, tatsächlich durch einen wirtschafts- und finanzpolitischen Voluntarismus, der angeblich allein im Sozialismus zu finden war. Im staatsmonopolistischen Kapitalismus (Gicacché benutzt diesen Terminus nicht) hat er offensichtlich einen festen Platz: Die Regulierung oder Deregulierung ist stets Irregulierung.

Das Ersetzen ökonomisch begründeter Maßnahmen durch politisch und ideologisch angestachelten Subjektivismus wurde zum Modell für Deutsch-Europa. Im letzten Kapitel seines Buches widmet sich der Autor diesem Aspekt und zieht – alle Unterschiede, z. B. das Fehlen von Transfers auf EU-Ebene, berücksichtigend – Bilanz: »Wer immer in Deutschland regiert: Ein roter Faden verbindet die Roßkur, der die Wirtschaft Ostdeutschlands unterworfen wurde, mit den Hartz-Reformen und den ›Hausaufgaben‹, welche die Krisenländer machen sollen. Die Rezepte sind immer die gleichen: Privatisierung und Lohnsenkung.« Nach Giacché sind sie die falschen. Priorität müsse sein, durch bewußte Steuerung »die Ungleichgewichte zwischen den Volkswirtschaften des Kontinents zu verringern«. Er widerspricht ausdrücklich Auffassungen, wonach die Nationalstaaten dazu nicht in der Lage seien und das Überleben des Euro von grundlegender Bedeutung. Wer sich weiter durch diesen »Glaubenssatz« lähmen lasse und wenn sich die wirtschaftlichen Ungleichgewichte verstärkten, werde »kein politischer Voluntarismus mehr in der Lage sein«, die Euro-Zone »vor einer unkontrollierten Implosion zu bewahren«. Die Spuren des DDR-Anschlusses sollten schrecken. Die Aussichten auf eine heilsame Wirkung sind allerdings weder in Berlin noch in Brüssel oder einer anderen EU-Hauptstadt günstig. Gicacchés Warnung, die er in seinem Buch faktenreich und brillant begründet, ist allerdings längst mehr als die einer Einzelstimme.
 
Vladimiro Giacché: Anschluß - Die deutsche Vereinigung und die Zukunft Europas. Laika-Verlag, Hamburg 2014, 167 Seiten, 22 Euro
 
 
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Il lascito di Margot Honecker alle nuove generazioni di comunisti

Redazione Senza Tregua  7 maggio 2016

 

di Paolo Spena

È giunta ieri sera la notizia della morte a Santiago del Cile di Margot Honecker, moglie di Erich Honecker, leader della Repubblica Democratica Tedesca dal 1971 al 1989. Soprannominata “il drago viola” per via del colore con cui si tingeva i capelli (“la strega viola” era invece la versione occidentale), ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione della società socialista in Germania, diventando Ministro dell’Educazione (a scanso di equivoci, diversi anni prima che il marito venisse eletto segretario generale del Partito Socialista Unificato Tedesco). Non fu mai una “first lady”per come potremmo intendere questo termine, tutt’altro: il suo autista ricordò nelle sue memorie come ella fosse decisamente avversa alle “mogli viziate”dei leader. Curiosamente, particolare avversione era rivolta verso la consorte di Gorbaciov, Raissa Gorbaciova: «Quando ha accompagnato il consorte al congresso del nostro partito, aveva solo fretta di correre a Berlino Ovest per lo shopping…e poi che diavolo cercano queste mogli viziate dei leader? Guarda Raissa e Nancy Reagan al vertice Usa-Urss di Rejkyavik, non è il loro posto».

Ma forse l’aspetto più importante di Margot Honecker è stato la straordinaria tenacia dimostrata dopo la contro-rivoluzione del 1989. I coniugi Honecker, strenui oppositori sin dall’inizio della “svolta” imposta da Gorbaciov, non rinnegarono mai gli ideali per cui lottarono per tutta la vita. In questo, si distinsero da buona parte di quella nomenklatura che in diversi paesi ex-socialisti ha rinnegato il proprio passato e in un batter d’occhio si è trasformata nella nuova oligarchia alla guida della restaurazione capitalistica. Costretti a fuggire in esilio in Cile dopo un processo politico vergognoso, formalmente contro Erich Honecker –già gravemente malato- per “coinvolgimento in omicidio” ma in realtà contro la DDR tutta che per 40 anni fu colpevole di esistere, i coniugi difesero strenuamente le ragioni della costruzione del “primo Stato socialista sorto sul suolo tedesco” (nonché, elemento significativo per i comunisti occidentali, del primo Stato socialista sorto in un paese capitalistico avanzato e sviluppato). Margot Honecker, negli ultimi anni di vita del marito, curò la stesura e la pubblicazione dei suoi “Appunti dal Carcere” (pubblicati in Italia nel 2010), ricchi di spunti e riflessioni sul mondo dopo la caduta dell’URSS e delle democrazie popolari, nonché di considerazioni quasi profetiche sull’inevitabilità di nuovi conflitti, sull’incombere della disoccupazione di massa in paesi che avevano dimenticato cosa fosse, contro “la convinzione infantile che il mercato s’incaricherà di regolare tutto”. Dopo un silenzio durato due decenni, fece molto scalpore un’intervista di Margot Honecker andata in onda sulla tv tedesca nell’aprile del 2012, in cui la donna non esitò a ribadire la propria convinzione nelle ragioni del socialismo e delle scelte politiche della Germania Democratica.

Ancor più importanti sono le lucidissime considerazioni espresse di recente da Margot Honecker in una delle sue ultime interviste (novembre 2015)i, relative alla situazione greca e alle vicende dell’Unione Europea, che vale la pena riportare: «Syriza è andata al governo, e ha vinto di nuovo, ma non ha alcun potere. Il potere in Grecia appartiene al capitale nazionale e, in misura sempre maggiore, al capitale straniero. Questa Europa è divisa fra quelli di sopra e quelli di sotto, fra ricchi e poveri, fra paesi ricchi e paesi impoveriti. Fin dall’inizio, questa Europa è stata un progetto del capitale monopolistico, una struttura imperialista per consolidare il suo potere. La politica di degradazione democratica e sociale è sancita nei trattati della UE, è dettata dagli interessi delle multinazionali. Gli Stati forti spingono i deboli verso il baratro, nell’abisso. Nella sinistra era diffusa la convinzione che questa Europa potesse essere riformata. Ma l’atteggiamento smisurato delle autorità europee nei confronti della Grecia ha dimostrato che questa è una illusione. Coloro che dettano legge ai greci impongono privatizzazioni […], nella DDR questo strumento ha causato un gran danno. […] Guardo con preoccupazione alla dittatura dei monopoli, che avanza e punta ad incrementare l’imperialismo tedesco per il potere egemonico nel continente. […] Dobbiamo essere realisti. “L’internazionale dei Potenti” non fronteggia ancora nessuna grande forza nel campo degli oppressi e degli sfruttati. Nei paesi europei manca una effettiva e coerente attività da parte della sinistra anti-monopolistica, e non vi è una adeguata solidarietà internazionale né alleanze comuni. In Grecia, l’Impero ha colpito duro e distrutto l’illusione di poter riformare questa Europa. Attraverso questi metodi, nessun’altra Europa può sorgere».

Le lucide – e condivisibili – considerazioni appena riportate, formulate da una compagna che ha dedicato la sua vita alla causa del socialismo e che ai nostri giorni ha espresso posizioni tutto sommato coincidenti con quelle della gioventù comunista europea, fanno riflettere sul significato che deve avere per noi la scomparsa di una figura storica per il socialismo del XX secolo. Dopo il 1989 divenne molto di moda, specialmente in Italia, rinnegare le proprie radici e la propria storia: se da una parte si optava per una rottura netta, cambiando nome e simbolo assieme alla strategia politica, dall’altra ci si illudeva di poter “rifondare” il comunismo rompendo con l’esperienza storica del socialismo reale del ‘900, fino a considerarla come un qualcosa di “estraneo” alla propria storia e di cui vergognarsi. Da allora sono passati 25 anni, e oggi un’intera generazione nata negli anni immediatamente precedenti o successivi alla caduta del Muro di Berlino si ritrova proiettata nella realtà della crisi del capitalismo, avendo davanti a sé un futuro fatto di precarietà, disoccupazione e assenza di diritti. All’interno di questa generazione, cresce e si forgia una nuova generazione di comunisti, che a differenza dei propri padri ha conosciuto il socialismo solo sui libri di storia, ma che sente la necessità di lottare per un cambiamento reale. Questa nuova gioventù comunista, piaccia o meno, è erede di questa storia, che è la storia dell’Unione Sovietica, delle democrazie popolari, del socialismo reale. Questa storia, per cui tanti hanno dato la vita, è la storia del movimento operaio, delle sue conquiste e dei suoi errori, delle sue vittorie e delle sue sconfitte. Margot Honecker è stata una di quelle poche figure appartenenti alla “vecchia” generazione di comunisti rimasta coerente e fedele alla causa della sua vita, che oggi si tramuta in un lascito per le nuove generazioni. Oggi il compito della gioventù comunista è rialzare tutte le bandiere lasciate cadere e abbandonate a sé stesse; prendere il testimone dalle mani dei compagni che ci lasciano, per avanzare verso nuove vittorie e nuove conquiste.

Note