Un anniversario dopo l'altro
 
1) 21 anni fa la NATO avviò i bombardamenti contro la Jugoslavia. Le cifre di massacri e distruzioni compiuti in 78 giorni di guerra (Sputnik/L'Antidiplomatico, 24.03.2020)
2) 24 Marzo 1999 – 24 marzo 2020: Jugoslavia (Jean Toschi Marazzani Visconti)
3) Dall'inserto de Il Manifesto per il ventennale (2019):
– 1999, bombe sull’Europa. I frutti amari di quella prima volta, di Luciana Castellina
– Una prima pagina tutta bianca. Contro i raid la scelta di Pintor, di Tommaso Di Francesco 
– Tutti i raid, le cluster «intelligenti» e le vittime, di Ester Nemo 
– Una missione fallita l’emarginazione delle Nazioni unite, di Miodrag Lekic
– L'Italia diventò la base di un conflitto armato. Così conquistammo lo status di "grande paese", di Manlio Dinucci
– Chi ha fatto la guerra non ha gestito la pace, di Fabio Mini
– Uck, ovvero la fanteria dell’Alleanza atlantica, di Sandro Provvisionato
– Il conflitto spartiacque per le Ong, Giulio Marcon 
– Effetto collaterale, la memoria negata, di Luka Bogdanic 
 
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ORIG.: On This Day 21 Years Ago: NATO Bombing of Yugoslavia in Numbers (Sputnik, 24.03.2020)
 
 
21 anni fa la NATO avviò i bombardamenti contro la Jugoslavia. Le cifre di massacri e distruzioni compiuti in 78 giorni di guerra
 
21 anni fa, il 24 marzo 1999, la NATO iniziò una massiccia campagna di bombardamenti della Jugoslavia, bombardando il paese con migliaia di missili da crociera e bombe a grappolo in quello che sarebbe diventato il più grande assalto militare in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
 
  • La campagna NATO di attacchi aerei e missilistici contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, che comprendeva Serbia e Montenegro, durò 78 giorni, terminando il 10 giugno 1999.
  • Durante la campagna, soprannominata "Operazione Noble Anvil" dalla NATO, gli aerei da guerra dell'alleanza effettuarono circa 2.300 sortite contro 995 strutture, sparando quasi 420.000 missili, bombe e altri proiettili con una massa totale di circa 22.000 tonnellate.
  • La campagna includeva molteplici violazioni delle leggi di guerra , incluso l'uso di bombe a grappolo (37.000 di esse) e i proiettili di uranio impoverito, che portarono a un forte picco di malattie oncologiche, inclusi i tassi di cancro giovanile, dopo la guerra. Secondo i medici serbi, le conseguenze più diffuse dell'uso di tali armi sono state i disturbi della tiroide, i tumori e le mutazioni del feto. Nel 2017, la scienziata serba Ljubisa Rakic ??ha calcolato che la quantità di Uranio impoverito lanciata sulla Jugoslavia era equivalente a circa 170 bombe di Hiroshima .
  • Secondo le stime serbe, gli attacchi alla Jugoslavia provocarono la morte di 5.700 persone, con 12.500 feriti.
  • Le perdite della NATO includevano un Apache AH-64 americano, un caccia F-16C, un Harrier AV-8B e un bombardiere stealth Nighthawk F-117A (il primo e finora unico caso di un aereo da combattimento stealth distrutto in combattimento). Dal lato jugoslavo, le vittime militari e di polizia includevano 631 truppe e 325 poliziotti morti, con oltre 50 dispersi. A causa dell'uso efficace della maskirovka o della dottrina dell'inganno militare, l'esercito jugoslavo fu in grado di limitare le perdite delle strutture militari (93 carri armati persi su una stima di 600) e altri veicoli blindati, artiglieria e sistemi antiaerei.
  • Si stima che i bombardamento abbiano causato danni fino a $ 100 miliardi , distruggendo o danneggiando circa 25.000 edifici residenziali, 470 km di strade e 595 km di infrastrutture ferroviarie. Furono distrutti 14 aeroporti, 19 ospedali, 20 centri sanitari, 69 scuole, 18 scuole materne, 176 monumenti culturali e 38 ponti. Il bombardamento ha incluso un raid mirato alla televisione radiofonica della Serbia, che causò 16 vittime, e il bombardamento "accidentale" dell'ambasciata cinese, dove persero la vita3 cittadini cinesi. Tutto sommato, i funzionari serbi stimano che oltre un terzo degli obiettivi della NATO fossero civili.
  • La giustificazione ufficiale della NATO per gli attacchi era il suo desiderio di proteggere gli albanesi kosovari dalla pulizia etnica e da "una catastrofe umanitaria". Prima dell'inizio della guerra, i separatisti albanesi alleati delle forze islamiche radicali si scontrarono con l'esercito serbo e le forze di polizia in Kosovo, attaccando le autorità e tentando di cacciare i serbi fuori dalla regione. Dopo che la campagna di bombardamenti fu completata e le truppe della NATO entrarono nella regione serba separatista nel giugno del 1999, i separatisti continuarono la loro campagna di violenza contro i serbi, nonostante gli impegni della NATO di disarmare i militanti kosovari.
  • Nel 2008 la provincia ha dichiarato unilateralmente l'indipendenza dalla Serbia. Ciò ha costretto oltre 200.000 serbi etnici a lasciare le loro case. Belgrado, la Russia e molti altri paesi hanno rifiutato di riconoscere la repubblica separatista. Le truppe della NATO, nel frattempo, sono rimaste nella provincia dal 1999, stabilendo Camp Bondsteel, la seconda più grande base militare americana in Europa.
  • Nel 2015, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha espresso il suo "sincero rammarico" per le morti e le sofferenze dei civili serbi. Tuttavia, tre anni dopo a un evento a Belgrado, il capo della NATO ha sottolineato che gli attacchi non erano diretto contro i civili serbi, ma in realtà servivano a "proteggere i civili e fermare il regime di Milosevic". Secondo Stoltenberg, i serbi dovrebbero "guardare al futuro" e continuare a sostenere l '"eccellente rapporto" tra Belgrado e il blocco atlantico.
 
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24 Marzo 1999 – 24 marzo 2020: Jugoslavia

di Jean Toschi Marazzani Visconti
Sono passati ventun anni, ma ogni volta che si ripresenta questa data, ricordo, più che gli avvenimenti effettivi, ormai sfocati, le sensazioni che mi avevano procurato. Lo smarrimento nell’ ascoltare una voce al telefono che con calma rassegnata mi comunicava da Belgrado: Ci stanno bombardando. Il colpo nello stomaco, quando seduta a cena, scoppiava il suono stridente della sirena che annunciava il prossimo bombardamento. Il pasto continuava con i commensali impassibili, però tutti con l’orecchio teso a percepire il rombo dell’aereo in picchiata, seguito poco dopo da un’esplosione. Ricordo ancora l’odore acre della nuvola di polvere densa che si allungava come un’entità fantasmagorica lungo Knez Milosha dal palazzo del Ministero della Difesa colpito. 
Ricordo la straordinaria energia che ogni mattina coinvolgeva migliaia di persone di ogni età in Piazza della Repubblica a danzare e condividere il momento al suono di gruppi musicali e rock. Un modo per ribellarsi all’ineluttabile ingiustizia di quei bombardamenti e ricaricare le forze tutti insieme. La sera, la città era completamente illuminata, ma vuota. La gente nei rifugi, a casa, in attesa della sirena e del razzo che avrebbe colpito una nuova parte della loro città. Camminavo per le strade deserte in un’atmosfera surreale. 
Come surreale e commovente è il piccolo monumento di pietra in cima alle scale che costeggiano gli studi della Televisione di Belgrado. È una stele semplice con i nomi dei giovani uccisi da un missile una notte, mentre stavano lavorando ai filmati per il giorno dopo. Sotto i nomi è incisa una breve parola: perché? 
Se è vero che la NATO è stata proposta per il Premio Nobel per la Pace 2020, allora bisogna considerare tutti i personaggi e le istituzioni candidati con una diversa attenzione e capire che il premio, una volta serio e ambito, è stato stravolto. Lo vince chi opera tradendo le leggi internazionali, anzi trasformando l’illegalità in normalità e merito. JTMV

Dal mio libro Il Corridoio, pubblicato nel 2005 da Città del Sole - capitolo Belgrado pagina 273

“… Il 24 marzo 1999, la NATO attaccava la Jugoslavia con ondate di bombardieri. Nello stesso giorno i capi di Stato europei, riuniti a Berlino, confermavano il loro appoggio all’intervento NATO. 
Il 2 aprile, la Russia richiedeva una riunione ministeriale del G8 e annunciava l’invio di proprie unità navali nell’Adriatico a scopo di monitoraggio.
Belgrado era già stata duramente bombardata durante la Seconda Guerra Mondiale. Il giorno della Pasqua Ortodossa, il 6 aprile 1941 l’incursione tedesca aveva provocato 10 mila morti, nel 1943 e durante la Pasqua del 1944 gli alleati avevano pesantemente colpito la città. Questa coincidenza dei bombardamenti intorno al periodo pasquale aveva molto toccato i belgradesi, che avevano ricevuto i primi missili con incredulità e poi affrontati con fatalismo. Tutte le atrocità subite in passato ritornavano come parte della loro memoria comune. Si era anche attivato lo spirito caustico, tipico dei belgradesi, attraverso il quale esorcizzavano amarezza, frustrazioni e paura. Reagivano unendosi senza distinzione intorno al capo: Slobodan Milošević. Se gli occidentali avevano voluto abbattere il potere del Presidente serbo intervenendo con la NATO, avevano ottenuto l’effetto contrario
La nota più angosciante era la sirena d’allarme che risuonava fra le 20 e le 20 e trenta, a volte dopo i primi tonfi dei missili. L’attesa del suono cupo diventava quasi una dipendenza. Quando non suonava la gente continuava le attività normali, ma con un nervosismo latente che veniva placato dal risuonare dell’urlo. L’attesa era peggiore della certezza di poter essere colpiti e si aspettavano i colpi come il suono di un campanello che comunica l’arrivo di invitati ritardatari. 
Il tempo era stupendo fra le due Pasque, quella cattolica e quella ortodossa. Sembrava estate, i giardini della fortezza turca di Kalemegdan erano pieni di bambini che giocavano, di vecchi al sole e gruppi di giovani. La Kneza Mihajlova era affollata di gente ai tavolini dei caffè, altri passeggiavano fermandosi davanti ai venditori di oggetti propagandistici fra le spille bianche e nere con il bersaglio e la scritta “target”, indossate da tutti, e i volantini con le caricature di Clinton, Albright e Holbrooke. I piccoli poster rappresentavano i diversi personaggi con caustica ironia. Non si poteva guardarli senza sorridere.
In Piazza della Repubblica, davanti al teatro dell’opera, era stato allestito un palco dove, ogni mezzogiorno, gruppi musicali diversi si esibivano in un bagno di folla. I concerti entusiasmavano per l’impegno degli interpreti e la partecipazione del pubblico. Era un modo efficace per infondere ritmicamente energia e coesione
La distruzione dei ponti di Novi Sad aveva ferito ed infuriato la gente che reagiva con sprezzanti battute. Un fervore di eventi coinvolgeva i cittadini, dalle riunioni quotidiane al club degli scrittori, alle catene umane sui ponti, intorno alla televisione, alle strutture, alle fabbriche, uniti nella difesa del diritto alla vita. 
Questa volontà di vivere, alla sera fra le otto e le otto e mezzo, veniva intaccata dall’ angosciante attesa dell’allarme e dopo il suono lacerante della sirena seguiva l’aspettativa del rumore secco e asettico della morte volante. Le strade si svuotavano, anche se i locali pubblici erano sempre aperti, le famiglie si trasferivano nei rifugi con i vecchi ed i bambini, in attesa dell’urlo della sirena del mattino che indicava il ritorno alla normalità. Le scuole erano chiuse, molti non lavoravano. Con il sole la vita riprendeva, la gente si confrontava sulle notizie dei bombardamenti, i nuovi micidiali sbagli degli aerei NATO. Era lo stare insieme, tutti uniti contro quella che la popolazione considerava, ancora con stupore, un’ingiusta intrusione negli affari interni di una nazione.
Il governo della città, affidato ad elementi della SPO, funzionava molto bene. Le strade erano magicamente pulite, i cittadini stessi erano molto più attenti, come se la morte dovesse giungere in una città ordinata. In punti strategici stazionavano ambulanze e autopompe pronte ad intervenire. Ma rimaneva in tutti la sensazione che potesse essere la fine, una fine accettata fino in fondo. I bombardamenti quotidiani, la consapevolezza di poter essere attaccati dall’Ungheria o dalla Bosnia, magari in Vojivodina da quell’Occidente a cui sentivano di appartenere nonostante tutto, acuiva sempre di più la sindrome di Kosovo Polije - la pulsione a morire tutti per l’onore della patria - alla quale l’ottusità occidentale sembrava spingerli. L’episodio storico si trasformava in una metafora molto presente nello stato d’animo della gente. I serbi erano soli, inascoltati, condannati dai media, avevano contro il mondo e sembrava lontana una possibile soluzione se la NATO continuava a bombardare. 
Un’amica, giornalista ed intellettuale, alla quale obbiettavo che la gente sui ponti o ai concerti sembrava divertirsi, mi aveva risposto “si divertono perché sono disperati!”. La sua casa piena di libri e quadri era stata riordinata come mai prima: aveva messo vecchie collane ad ornare recipienti di cristallo e specchi, “perché se muoio tutto è a posto”. 
La sensazione di irreparabilità si percepiva distinta. I serbi non avrebbero accettato l’entrata delle truppe NATO in Kosovo ed erano tutti d’accordo con le decisioni del governo, anche le opposizioni. Rimaneva soltanto un interrogativo: perché la Jugoslavia aveva rifiutato di firmare l’accordo di Rambouillet e perché non si riusciva a conoscere i termini del trattato. Nessun media internazionale li aveva riportati (su internet erano comparsi dopo qualche tempo, ma pochi in Serbia avevano accesso al sistema), ma, cosa ancora più assurda, nemmeno i media jugoslavi avevano spiegato per bene a cosa era dovuta la tragedia che subiva una nazione di dieci milioni di persone. (…)
Una accusa era stata lanciata dalla NATO, che sosteneva che la propaganda jugoslava stesse usando le reti televisive di Stato per mostrare alla popolazione solo gli esiti dei bombardamenti alleati e non le condizioni precarie degli albanesi kosovari in fuga verso l’Albania. Di fatto, quando i media occidentali avevano passato le prime immagini degli effetti dei bombardamenti, l’ago della bilancia dell’opinione pubblica europea si era pericolosamente spostato oltre il 50% in favore dell’arresto immediato dei bombardamenti. Attraverso le pietose immagini delle colonne dei rifugiati alle frontiere macedoni ed albanesi, ripetitivi primi piani su bimbi e donne in pianto, il favore era rientrato. Sulle reti televisive italiane Salim Berisha aveva concitatamente accusato i serbi di stupri, eccidi e torture, evocando immagini granguignolesche, in realtà mai verificate. 
Comunque l’accusa di disinformazione lanciata dalla NATO, veniva trasformata in pioggia di missili sui ripetitori televisivi, che squadre di efficienti operai rabberciavano nel tempo più breve possibile. Il 23 aprile un missile colpiva gli studi televisivi di Belgrado nella centrale via Aberdareva alla 2.06 del mattino. Un centinaio di giornalisti e tecnici si trovavano nello stabile, 10 morirono, in maggior parte ragazzi e ragazze che facevano il turno di notte, gli altri riportarono ferite molto gravi. Angosciante la storia di una delle vittime, seppellita sotto quintali di cemento, che parlò attraverso il suo cellulare finché le batterie morirono e lei con loro. Le troupes straniere che usavano la struttura come appoggio tecnico, da alcuni giorni si erano tenute lontane dopo che la CNN aveva abbandonato gli studi.
Si aveva, curiosamente, l’impressione che in alcuni casi gli obbiettivi fossero già conosciuti; alcuni erano ovvi, ad esempio i palazzi governativi. Il direttore di un museo che abitava nei pressi della Kneza Milosha, dove si trovano le sedi dei Ministeri d’Informazione e degli Affari Esteri, oltre ai due palazzi del Quartiere Generale dell’Esercito, una mattina, all’inizio delle incursioni, aveva ricevuto la visita di due cortesi ufficiali in borghese che gli avevano spiegato che sarebbe stato meglio se si fosse trasferito presso amici, perché l’intera zona era a rischio. Effettivamente dieci giorni dopo i ministeri venivano colpiti e pesantemente danneggiati, fortunatamente senza perdite, gli uffici erano stati trasferiti altrove e le strutture svuotate.  
Dopo i primi giorni di bombardamenti su tutta la Jugoslavia che, secondo il giudizio del Segretario di Stato US Madeline Albright, avrebbero dovuto piegare il governo di Belgrado, non vi era segno di accordo possibile. La NATO, secondo i piani, doveva passare alla fase due che implicava obbiettivi impegnativi come ministeri, luoghi di potere e voli radenti per colpire carri armati e semoventi. Il rifiuto dei serbi a cedere alle pressioni diplomatiche, malgrado l’incalzare dei bombardamenti – colpita il 22 aprile anche la villa datata 1933 che era stata la residenza di Tito, poi di Slobodan Milosevic, nel quartiere di Dedinije - facevano paventare l’inizio della fase tre, dove ai bombardamenti avrebbe dovuto seguire l’invasione da terra che nessun alleato voleva.
Sul piano morale la politica statunitense e la NATO erano perdenti. Con l’aumento dei “danni collaterali”, come venivano definiti dagli alti ufficiali atlantici - questa denominazione copriva la distruzione di villaggi, ospedali, scuole, monasteri, case civili e l’avvelenamento dei corsi d’acqua in seguito al ripetuto bombardamento di raffinerie e impianti chimici - il rischio della perdita di immagine era proporzionale. Questo timore crescente rendeva gli USA e la NATO ancor più intransigenti nel pretendere una resa totale, inaccettabile per i Serbi. 
La guerra “umanitaria” aveva scatenato un’immane tragedia: centinaia di migliaia di kosovari in fuga, diverse città serbe colpite con centinaia di morti e feriti civili di cui il 40% erano bambini, Macedonia, Albania e Montenegro sopraffatte dalla bomba umana e la rovina economica dei paesi limitrofi con il bombardamento dei ponti sul Danubio a Novi Sad, dove le macerie nel fiume impedivano il passaggio dei trasporti fra Austria, Ungheria, Romania e Bulgaria. Alla catastrofe umanitaria si aggiungeva quella ecologica dovuta ai ripetuti bombardamenti sulle raffinerie e sugli impianti chimici di Pancevo sul Danubio, le cui proporzioni e conseguenze sono tuttora incalcolabili. 
Il 30 marzo Milosevic offriva il ritiro delle truppe dal Kosovo in cambio della cessazione dei bombardamenti. La NATO rifiutava. Il 7 aprile, il gruppo di contatto confermava le cinque condizioni poste dalla NATO per sospendere i bombardamenti:
1. Cessazione dei combattimenti e della repressione operati dalle forze jugoslave in Kosovo. 2. Ritiro di tutte le forze militari e di polizia dal Kosovo. 3. Presenza di una forza internazionale in Kosovo. 4. Rientro in Kosovo dei rifugiati albanesi. 5. Soluzione politica sulla base della bozza di accordo di Rambouillet. Questi stessi punti verranno confermati dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, pochi giorni dopo e dal G-8 riunito a Dresda.
Le iniziative diplomatiche si moltiplicavano, mentre i bombardamenti mietevano sempre più vittime civili. Il 23 aprile, il russo Viktor Crnomyrdin a Belgrado parla della disponibilità di Milosevic ad accettare l’entrata di forze straniere in Kosovo.
Nello stesso giorno, a Washington la NATO festeggia il suo cinquantenario. In quella occasione viene riconfermata la volontà di continuare la guerra fino al successo totale.
La notte fra il sette e l’otto maggio a Novi Beograd venivano colpiti l’Ambasciata Cinese con tre morti e l’Hotel Jugoslavija. Quella notte anche il Quartiere Generale dell’Esercito Jugoslavo e il Ministero della Difesa vennero raggiunti da missili. Il bombardamento dell’Ambasciata Cinese con morti e feriti fu giustificato con l’improbabile scusa che nelle informazioni su cui si basavano i bombardamenti il palazzo figurava come proprietà governativa.. La Cina chiese una riunione immediata del Consiglio di Sicurezza, ma non ottenne nessuna mozione di censura per la NATO. Sorse allora l’ipotesi che si fosse trattato di un messaggio alla Cina.
C’è infatti un precedente: dopo Jalta, la Russia, soddisfatta di avere ottenuto l’Europa dell’Est, aveva promesso che avrebbe attaccato il Giappone tre mesi dopo la resa della Germania, avvenuta nel maggio 1945. Il presidente USA, Henry Truman, informò allora gli inglesi di voler impiegare la bomba atomica su due città giapponesi per costringere il Giappone ad arrendersi. Stalin però, incontrando Winston Churchill a Potsdam, lo informò che i Giapponesi erano pronti a negoziare la pace. Churchill riferì la cosa al presidente americano. Il 6 agosto seguente, l’Enola Gay sganciava la bomba atomica su Hiroshima. Il 9 agosto era la volta di Nagasaki. Perché l’inutile massacro? Per mostrare la forza del nuovo ordigno e far capire alla Russia chi era il più forte? Un ammonimento? La Russia entrava in guerra contro il Giappone l’11 agosto. 
Il 10 maggio, Belgrado annunzia di aver iniziato il ritiro unilaterale delle proprie truppe dal Kosovo.
Il 27 maggio, il Tribunale internazionale dell’Aja per i Crimini nella ex Jugoslavia accusava Milosevic e alcuni altri dirigenti politici e militari di crimini di guerra. Il 25 giugno seguente, gli USA avrebbero offerto una taglia di cinque milioni di dollari a chi avesse dato informazioni utili alla cattura di Milošević. Grottesco immaginare la firma di un trattato di pace con un ricercato!
Il primo giugno, Belgrado indirizzava una lettera al presidente della UE confermando l’accettazione delle condizioni del G-8 e nei giorni seguenti il parlamento di Belgrado approvava il piano di pace proposto dal russo Crnomyrdin e dal finlandese Martti Ahtissari, inviato europeo. L’otto giugno i Ministri degli Esteri del G-8 mettevano a punto la risoluzione da presentare per approvazione al Consiglio di Sicurezza delle NU. Dopo gli incontri di Kumanovo, il dieci giugno iniziava il ritiro delle truppe jugoslave dal Kosovo. Javier Solana ordinava la sospensione dei bombardamenti e le truppe NATO entravano in Kosovo Metohija. Il Consiglio di Sicurezza adottava la Risoluzione 1244 che poneva fine alla guerra. 
 
Note:
1) La battaglia del 1389, quando il duca Lazar, e i suoi alleati erano stati massacrati fino all’ultimo uomo dai turchi, ma l’onore era stato riscattato dal nobile Obilic prima di morire anche egli.
2) Télématin, France 2, maggio 2000
 
FONTE:
Forum Belgrado Italia – Assoc. SOS Yugoslavia - SOS Kosovo Metohija
 
 
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Dall'inserto de Il Manifesto per il ventennale (22 marzo 2019):
 
 
 
1999, bombe sull’Europa. I frutti amari di quella prima volta
 
di Luciana Castellina 
su Il Manifesto del 22.03.2019
 
2.300 attacchi aerei Nato scaricarono 21.700 tonnellate di bombe. Non colpirono obiettivi militari ma civili, con tante case, ospedali, ponti, scuole e fabbriche. Fu un sanguinoso vulnus del diritto internazionale in pieno Sud-est europeo. Si apriva la stagione del militarismo umanitario
 
 

«Buona sera signore e signori. Ho appena dato ordine al comandante supremo delle Forze alleate, il generale Clark, di dare inizio alle operazioni nella Repubblica federale di Jugoslavia». Sono le 23 del 23 marzo 1999 e questa fu la dichiarazione di venti anni fa del segretario della Nato, lo spagnolo Javier Solana, ahimé socialista e attivo protagonista delle nostre manifestazioni pacifiste negli anni ’80. (Ma si sa che la pace è cosa da ragazzi, gli adulti si occupano di politica internazionale).

Il 24 marzo, alle 20.25, il primo bombardamento su Belgrado; il 26 le «operazioni», chiamate interventi umanitari, sono già 500. Dureranno 78 giorni e scaricheranno 2.700 tonnellate di esplosivo. (Molte settimane, perché, alla domanda posta dall’allora prresidente del Consiglio D’Alema il 5 di marzo – «che faremo se Milosevic resiste?» -, il consigliere dell’allora presidente americano Clinton, Sandy Berger, aveva risposto: «Continueremo a bombardare»).

Da quel 23 marzo 1999 sono passati venti anni. È una data che è utile ricordare, perché è stata l’occasione di una serie di significative «prime» su cui si è ancora troppo poco riflettuto. Vale la pena di elencarle.

1) È la prima guerra che si è combattuta sul suolo europeo dalla fine del conflitto mondiale, è un’aggressione di europei a un altro stato sovrano europeo, del sud-est de’Europa. Smentisce così la mitologia – che si ripete ogni giorno – secondo cui la creazione dell’Unione europea avrebbe per sempre allontanato lo spettro degli scontri fratricidi fra le nazioni del vecchio continente.

2) È la prima volta che viene stracciato brutalmente un accordo internazionale considerato uno dei pilastri dell’ordine postbellico: quello di Helsinki, siglato nel quadro dell’Osce, secondo cui i confini degli stati continentali devono essere considerati intangibili. La violazione della Carta dell’Onu – intervenire militarmente senza mandato del Consiglio di sicurezza – è invece reato già consumato in precedenti occasioni, ma in questo caso appare certamente più grave perché non c’è nemmeno una sembianza di chiamata dall’interno: la popolazione serba, compresi tutti dissidenti, erano orripilati dall’aggressione.

Difficile anche invocare ancora una volta il fantasma di Monaco dove, non avendo, nel 1939, le imbelli nazioni democratiche fermato Hitler, si sarebbe aperta la strada all’invasione nazista dell’Europa: chi può realmente credere che la piccola e malandata Serbia potesse ipotizzare altrettanto?

3) Per la prima volta è tornata la guerra in Europa come strumento di regolazione dei rapporti internazionali, così rovesciando i principi sui quali si era faticosamente costruita la pace mondiale dopo il ’45. Sessant’anni non sono bastati a mettere definitivamente in mora l’idea e la pratica della guerra come valore e iniziativa legittima. E praticabile, quando non c’è deterrenza.

4) È stata la prima volta che tutti gli stati dell’Alleanza atlantica non si sono limitati a subire l’iniziativa americana ma si sono attivati direttamente mettendo a disposizione uomini, mezzi, basi, spazi aerei. È già accaduto in anticipo, il 13 ottobre precedente, quando è stato varato l’Act Order dal Comando Nato. Lo scenario, da quel momento, si è popolato di americani: generali, ministri, ambasciatori, mediatori. Sotto il diretto comando di Madeleine Albright. Stati vicini – la Macedonia – sono stati di fatto tranquillamente occupati. Gli europei si sono accontentati della virtuale presenza di Javier Solana. La loro preoccupazione non fu come giocare un ruolo autonomo in una regione confinante con quasi tutti, ma come essere riconosciuti partner, ancorché subalterni, degli Stati uniti.

5) È la prima volta che con tanta spudoratezza si è proceduto ad una applicazione selettiva dei diritti. In questo caso quello dell’auto-determinazione dei popoli, riconosciuto, in Europa, ai soli kosovari, che diventano quindi automaticamente «patrioti», sebbene la risoluzione 1160 del 3 marzo 1998 del Consiglio di sicurezza dell’Onu avesse definito «terroristi» gli attacchi dell’Uck. Contemporaneamente, e come conseguenza, contro ogni principio sancito dai trattati dell’Unione europea, secondo cui deve esser rifiutato il pericoloso nesso etnia-cittadinanza, si appoggia l’ipotesi di stati etnicamente fondati.

6) Per l’Italia è stata la prima volta che ufficialmente è stata cancellata la costituzione, perché, nonostante l’art.11 lo vieti esplicitamente, il nostro paese ha partecipato in prima persona alla guerra contro Belgrado; e perché tale guerra non è stata autorizzata dal parlamento, che ha solo ratificato a posteriori le scelte del governo.. Il solo presidente della Repubblica Scalfaro provò ad obiettare che la cosa era «illegittima», ma venne convinto a tacere.

7) Mai nella storia, è vero, i negoziati internazionali sono stati esempio di trasparenza e di equità. Ma mai si era arrivati a uno scandalo come per quello di Rambouillet, spacciato come accordo, sebbene si trattasse di una dichiarazione unilaterale, mentre la proposta serba (90% dei poteri statali devoluti a una autonoma autorità kosovara e presenza dei militari dell’Osce a tutela) non venne nemmeno discussa. La presunta non accettazione di Belgrado fu la causa che scatenò la guerra.

Ma Belgrado non poté accettare per via di un annesso B che restava e resta un mistero: non venne tradotto né reso pubblico.. Si capisce perché: prevedeva l’occupazione a tempo indeterminato da parte delle truppe Nato di tutto il territorio jugoslavo (nemmeno il solo Kosovo), destinato così a diventare una sorta di gigantesca base atlantica dotata anche di extra-territorialità. Si trattò di una «clausola killer», inserita non nella speranza che potesse esser accolta, ma affinché il rifiuto consentisse di procedere senz’altro ai bombardamenti.

8) Anche per l’uso spregiudicato dei media non si tratta di una prima volta. Ma mai prima di questa volta la verità dei fatti è stata a tal punto stravolta dai bombardamenti di schegge di emozione lanciati dal video sui telespettatori.

Non è bello conteggiare le vittime per stabilire chi ne abbia avute di più, anche perché brutalità insensate sono state operate da ambo le parti. Resta il fatto che, a cominciare dall’eccidio di Racak, il 16 marzo, nonostante i dubbi espressi da autorevoli giornalisti di tutto il mondo, ogni conflitto a fuoco fra bande dell’Uck e bande o reparti serbi diventarono «pulizia etnica». Non solo: il grosso degli incidenti si verificò dopo l’inizio dei bombardamenti Nato, non prima, e non può dunque esser invocato a giustificazione dell’intervento. I profughi serbi che persino il ministro degli esteri Dini ammise esser la stragrande maggioranza, non sarebbero stati mai conteggiati, nonostante non possa non averli visti la commissaria europea Emma Bonino, presente allora in battle dress sul posto. (Un altro record, quello del nostro Bruno Vespa, che annunciò che il moderato primo ministro kosovaro albanese Rugova giaceva in una fossa comune. Ricomparve invece due giorni dopo a Belgrado).

9) Il Kosovo è stato anche il primo rilevante test della validità della cosidetta giustizia internazionale. Che ha cancellato la differenza fra il ruolo della politica e quello giudiziario, una confusione perniciosa.. Al punto che a svolgere la funzione di polizia giudiziaria è stata direttamente la Nato e i servizi segreti dei suoi paesi membri. Alla giurisdizione definita dai confini entro cui si esercita la sovranità si sostituì una delega extra-territoriale in bianco che consenti e consente tuttora a chiunque di arrogarsi il diritto di operare fuori da ogni quadro legale. In un mondo caratterizzato da una assoluta asimmetria dei poteri – osservò l’esperto di diritto internazionale, Danilo Zolo – una giustizia internazionale si rivela impossibile. L’ingerenza umanitaria fondata sulla superiorità tecnologica (militare e mediatica), produce solo una pena di morte collettiva.

10) E, infine, la vera primizia: la guerra del Kosovo è stata la prima guerra della sinistra. Non solo nel senso, evidente, del coinvolgimento attivo di un governo dove le massime responsabilità erano in mano di chi pure proveniva dalla tradizione di chi si era ribellato alla prima guerra mondiale, ma anche per l’atteggiamento imbarazzato quando non connivente assunto da intellettuali progressisti e pezzi di movimento, affascinati dall’idea che la Nato potesse essere il braccio armato di Amnesty Iinternational. (Come, in Afghanistan, del femminismo).

A venti anni di distanza il problema Kosovo è ancora tutto lì: aperto e drammatico, sebbene, dopo le bombe, i paesi Nato abbiano proceduto – non tutti – a un riconoscimento ufficiale dell’indipendenza del paese, calpestando definitivamente tutte le regole internazionali e senza aprire la strada a una soluzione reale.

Ma questa volta la sinistra governativa europea almeno si divise: il ministro degli esteri del governo spagnolo Zapatero, Moratinos, si rifiutò di condividere la decisione. E Madrid dieci anni fa annunciò il ritiro del proprio contingente militare. A riprova che non casca il mondo se uno dice no alle imposizioni americane..

A 20 anni di distanza le macerie della Jugoslavia, una delle più significative nazioni emerse dalla Resistenza nel 1945, uno stato cui dobbiamo quello straordinario schieramento internazionale che fu chiamato dei «Non allineati», sono tutte lì: nessuno degli stati emersi dallo smembramento fa bella figura di sé.

Una e una sola nota di ottimismo: gli ex cittadini jugoslavi nel frattempo si sono l’un l’altro «annusati» e perfino riconosciuti. All’ultimo Festival del cinema di Berlino tutti i film presenti in gara (davvero molto belli) erano prodotti, insieme, da tutte le nuove repubbliche, compresa la Bosnia e la Serbia.

 
 
Una prima pagina tutta bianca. Contro i raid la scelta di Pintor
 
di Tommaso Di Francesco 
su Il Manifesto del 22.03.2019
 

Fuori erano cominciati i raid della Nato. «Italiano, Aviano», era l’accusa ripetuta da tutti nel commissariato dove finimmo guardati a vista da un soldato armato, io e il fotografo Mario Boccia, a Bujanovac (Valle di Presevo) presso il confine serbo-macedone. Ci cacciarono. Ma 24 ore dopo entravo a nord, verso Novi Sad su un’autostrada deserta. Nella notte la meraviglia dei tre ponti moderni della città venne spezzata. Anche lì, il giorno dopo, su un bus verso Pancevo-Belgrado, qualcuno ci sussurrò: «Italiano, Aviano». Eravamo diventati un sinonimo inquietante. Ma il dolore vero fu correre per giorni a raccogliere notizie e resti umani. A Surdulica ci accolse un cratere tra case contadine con i resti di decine di anziani e bambini. «Italiano, Aviano».

Difficile raccontare che tra le case popolari di Belgrado avevamo visto chiuse nei rifugi tante famiglie terrorizzate. Lo comunicai in redazione a Luigi Pintor che mi disse che aveva in mente «qualcosa». Mentre la guerra aveva ormai come primo target l’informazione: i media internazionali pendevano dalle labbra di Jamie Shea.

Era il portavoce della Nato che cianciava di «effetti collaterali» e «bombe intelligenti». Ma invece della «guerra umanitaria» scoprivamo tante stragi di civili. Piovevano 35.450 cluster bomb su case, scuole, ospedali, fabbriche, ambasciate. Tutti furono costretti a scriverlo. Poi un giornalista britannico si complimentò con noi per una prima pagina de «il manifesto» che, ci disse, stava facendo il giro del mondo: era bianca e in calce gridava: «I bambini non ci guardano». Ecco che aveva in mente Luigi Pintor.
Ma ci furono in Italia anche troppe pagine nere, come quelle che giustificarono il bombardamento della tv di Belgrado, con 16 vittime, colpita dai missili Cruise in mezzo alle case dei belgradesi, ai panni stesi sui terrazzi, con i cavi tranciati che piovevano nel quartiere una specie di neve chimica.

A venti anni di distanza, a che sono servite quella guerra e quelle menzogne? La menzogna diplomatica di Rambouillet che imponeva alla Jugoslavia di essere tutta presidiata dalla Nato? La bugia di Racak, il casus belli sostenuto dall’uomo della Cia William Walker che guidava la missione Osce che doveva mediare tra le parti? Perché fino al 24 marzo c’erano vittime e profughi da una parte e dall’altra. Come dimostrò l’incriminazione dell’ex premier Ramush Haradinay, capo dell’Uck nella Drenica, all’Aja per stragi di civili rom e serbi già nel 1998. E come denunciò Carla Del Ponte nel suo libro («La caccia», ed Feltrinelli) e un rapporto del Consiglio d’Europa: nel 1998 molti civili serbi furono sequestrati proprio dall’Uck per un barbaro mercato di espianto di organi.

Così, con i raid aerei, si volevano salvare i profughi in fuga albanesi? Profughi che fuggivano non solo per timore delle milizie serbe ma, secondo la stessa Corte penale kosovaro albanese che lo stabilì in un processo nel 2001, anche perché terrorizzati per i raid della Nato. E avevano ragione, perché centinaia di loro furono letteralmente inceneriti dai missili «intelligenti».

Ma i risultati di quella «guerra sciagurata» – così la definì Claudio Magris – ci sono. Eccome. La Nato da coalizione di difesa è diventata offensiva, da lì in poi dispiegata in tutto il mondo; la contropulizia etnica di 300mila serbi e rom cacciati sotto gli occhi della Nato e mai più rientrati, insieme alla distruzione di 150 monasteri ortodossi.. Inoltre l’edificazione a Camp Bondsteel della più grande base militare Usa in Europa. Infine l’indipendenza autoproclamata del Kosovo del 2008, che spacca ancora il Consiglio di sicurezza Onu e l’Ue ed è riconosciuta solo dalla metà dei circa 200 Paesi delle Nazioni unite. Nel disprezzo del diritto internazionale, perché la guerra umanitaria dei 78 giorni di raid finì con la pace di Kumanovo del giugno 1999: imponeva alla Serbia il ritiro temporaneo del suo esercito, permetteva l’ingresso dei contingenti Nato ma riconosceva la sovranità di Belgrado sul Kosovo. Ora quell’accordo è carta straccia, anche grazie all’Italia che nel 2008 riconobbe l’ultima indipendenza etnica dei Balcani. Nel frattempo lo Stato del Kosovo – secondo l’Onu stessa – è tra i più corrotti, malavitosi e poveri nonostante i tanti investimenti degli organismi internazionali. E la sua indipendenza unilaterale rappresenta un precedente pericoloso che insanguina ancora il mondo, come dimostrò in quello stesso anno il conflitto tra Georgia e Russia corsa in armi a difendere il «suo Kosovo» in Ossetia e Abkhazia, o la più recente crisi in Ucraina con la secessione del Donbass e la riannessione della Crimea dopo referendum. Tante le ferite che si sono riaperte.

Un fatto è certo. Quello del 1999 non è stato l’ultimo conflitto armato dei Balcani, ma la prima guerra post-moderna sospesa tra l’uso della forza che riproduce la forza e l’immaginario del potere alla ricerca della sua «costituente» legittimazione. «Perché così – ha scritto l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema per spiegare il protagonismo dell’Italia – abbiamo conquistato lo status di grande paese».

 
 
Tutti i raid, le cluster «intelligenti» e le vittime

Diamo i numeri. La questione dell'uranio impoverito
 
di Ester Nemo 
su Il Manifesto del 22.03.2019
 
Alcune date per ricordare l’«intelligenza» dei raid della Nato. Il 27 marzo 1999, colpita la prima fabbrica chimica, nube tossica su Belgrado; il 6 aprile colpito il centro di Aleksinac, è la prima strage di civili, i morti saranno 30, il 9 aprile bombe sulla Zastava-Fiat, 124 operai feriti; il 12 aprile un attacco mirato contro un ponte a Grdelica, presso Leskovac, centra un treno passeggeri, i morti saranno 16; il 14 aprile la Nato bersaglia un convoglio di kosovari-albanesi uccidendo 64 persone a Djakovica; il 19 aprile è colpita a Pancevo la raffineria, nube tossica su due milioni di abitanti di Belgrado; il 23 aprile bombe sulla tv di stato jugoslava, dieci morti – «La tv era un nostro obiettivo, non è stato un errore» dichiara la Nato; il 28 aprile strage a Surdulica: muoiono 16 persone, 12 sono bambini; 1 e 3 maggio, la Nato colpisce un pullman di linea a nord di Pristina e una corriera di profughi, almeno 17 morti. Le bombe alla grafite annientano le centrali elettriche; il 7 maggio, in pieno giorno, la Nato bombarda con le cluster bomb il mercato e l’ospedale di Nis, 14 le vittime; sempre il 7 maggio viene colpita l’ambasciata cinese, i morti saranno 4, «avevamo le mappe sbagliate», dice la Nato; il 9 maggio 103 profughi kosovaro albanesi, nascosti nei boschi di Korisa vengono falciati da un attacco intelligente della Nato; il 21 maggio missili sul carcere di Istok, i morti saranno più di cento.

Per questi «risultati» sono stati utilizzati 1.200 aerei per un totale di 26.289 azioni accertate, 10.000 Cruise, 2.900 missili e bombe.. Nel corso di 2.300 attacchi, su 995 target sono state scaricate 21.700 tonnellate di esplosivo – spesso all’uranio impoverito -, compresi 152 containers con 35.450 cluster bombs. Quanto agli «effetti collaterali» e «involontari», ecco i danni arrecati, secondo i Sindacati indipendenti serbi: 500 le vittime semiufficiali, ma le fonti sanitarie e dell’opposizione hanno denunciato quasi duemila civili uccisi; seimila i gravemente feriti; alcune migliaia di centri pubblici, uffici, ospedali, case di cura colpite dai bombardamenti (solo in Vojvodina 3.650 strutture pubbliche danneggiate). L’elenco degli ospedali bombardati, compresi quelli psichiatrici e i centri neonatali è di 8 solo a Belgrado, 2 a Novi Sad, 3 a Nis, 4 in Kosovo, 3 a Valievo, per un totale di 33 ospedali centrati. Le scuole-target sono 29, soprattutto elementari; soprassediamo su ponti spezzati (61), strade e infrastrutture; e passiamo ai monasteri e ai luoghi di culto: 59 colpiti, alcuni distrutti, a cui si aggiungono 15 musei e monumenti. 44 tra radio, tv e antenne abbattute, 24 stazioni ferroviarie, 41 di autobus e 14 aeroporti. Le fabbriche colpite sono 121, più 23 raffinerie e 28 centri agricoli, 19 le ambasciate straniere lesionate.

E come per la Bosnia, emersero dopo un anno sia per i militari della Nato che per le popolazioni locali – di fatto ignorate nelle tante inchieste parlamentari italiane – i dati allarmanti dell’Uranio impoverito. Già a dieci anni dai raid aerei, i media di Belgrado denunciavano un forte aumento, fin oal 200%, dei casi di cancro nelle zone del Kosovo più duramente colpite dai bombardamenti Nato. Il quotidiano “Politica” titolò in prima pagina: «Kosovo, picciola Hiroshima», citando un librocinchiesta della studiosa Mirjana Andelkovic-Lukic, esperta di esplosivi al Centro tecnico-scientifico dell’esercito serbo, dove si parlava di ufficiali serbi (compreso il marito) morti di cancro dopo avere partecipato a ricerche sul terreno. Dal 2000 sono state effettuate rilevazioni in più di 120 località dove il livello radioattivo dei raggi gamma e beta era due volte superiore alla norma. Fino a dieci anni fa la zona a più alta contaminazione da uranio impoverito era il Kosovo occidentale, dove è fra l’altro anche l’insediamento del contingente italiano della Kfor. Un team di medici dell’ospedale di Kosovska Mitrovica indagò in queste località riscontrando un «aumento dei casi di tumore in alcuni casi fino a quattro volte: se prima dei raid su 300mila persone i casi di cancro erano 20, dopo i bombardamenti il rapporto è salito a 20 casi su 60mila». I risultati vennero inviati all’Organizzazione mondiale della sanità.
 
 
 
Una missione fallita l’emarginazione delle Nazioni unite

Per i cittadini il sogno democratico europeo è lontano, tantopiù ora con l’Ue in crisi. Ma la Nato extra-large ha integrato e già schierato quasi tutti i paesi dei Balcani
 
di Miodrag Lekic * 
su Il Manifesto del  22.03.2019
 

Dopo venti anni molte cose sono cambiate nel mondo. Ma i Balcani occidentali restano una zona instabile con grandi difficoltà nell’implementare i valori democratici, sopratutto lo stato di diritto. Proprio in questo periodo sono numerose le proteste contro i poteri corrotti. Purtroppo «le primavere dei popoli balcanici» hanno prodotto un frutto vistoso: il proliferare delle mafie locali. Infatti alcuni rappresentanti di questa categoria sono diventati degli «statisti», senza abbandonare le precedenti abitudini. É abbastanza deludente per le autentiche forze democratiche, il fatto che «statisti» balcanici con molte ombre di corruzione e criminalità organizzata siano diventati degli «interlocutori privilegiati» di alcuni paesi occidentali a causa di interessi geopolitici.

Per i cittadini, il sogno europeo appare sempre più lontano. Sopratutto ora con l’Ue in evidente difficoltà nel rilanciare nuove iniziative. Mentre questo quasi stallo europeo si prolunga, la Nato non perde tempo a realizzare i propri piani strategici, cioè integrare i paesi balcanici nell’Alleanza atlantica. Non rispettando sempre le procedure democratiche necessarie per l’ingresso. A proposito della Nato nei Balcani , vediamo che cosa accadeva venti anni fa.

Se sul mio diario, durante la «guerra dei 78 giorni», pubblicato in Italia, annotavo, giorno per giorno, gli argomenti salienti della giornata, cosa potrei aggiungere oggi? Forse basta associarsi a quanto ha scritto sulla prestigiosa rivista Foreign Affairs, nel numero di settembre-ottobre 1999, Michael Mandelbaum, che, nel suo editoriale, così riassunse l’esito della guerra: «A Perfect Failure» (un fallimento perfetto).

Nella scatola nera della guerra si potrebbero leggere, se lo si volesse fare, una serie di segnali di controversa lettura. Senza dubbio, la guerra contro la piccola Jugoslavia (Serbia e Montenegro), ha posto un gran numero di interrogativi: le radici storiche del conflitto, le vere ragioni dell’intervento della Nato, il modo con cui la guerra è stata condotta da entrambe le parti, le implicazioni sul piano internazionale, le conseguenze sull’ordinamento giuridico, il fenomeno mediatico, gli scenari geo-politici nei Balcani del dopoguerra, i danni alla salute e all’ambiente, causati dai bombardamenti indiscriminati e dall’uso di armi proibite…
Ad esempio, le ragioni del conflitto vanno ricercate nella storia? E se sì, quando? Nel lontano 1389, ai tempi della battaglia tra Serbi e Ottomani di Kosovo Polje, o forse ai tempi delle ben più vicine guerre balcaniche, quando nel 1912 l’esercito serbo liberò dal dominio turco il Kosovo e parte della Macedonia vardarica, mentre l’esercito montenegrino liberò Metohia. O ancora nel 1941, con la creazione della Grande Albania, di cui il Kosovo era parte integrante, sotto il protettorato dell’Italia fascista? O nel 1988, quando l’autonomia kosovara è stata ridotta da parte delle autorità serbe col consenso di tutta la Lega comunista nelle sue articolazioni repubblicane? O nel periodo successivo alla pace di Dayton nel 1995, quando le potenze internazionali sembravano non prestare particolare attenzione al Kosovo, un atteggiamento letto da serbi e albanesi in diverso modo? Un evidente paradosso di questa strana guerra sta nel fatto che è stata iniziata da parte della Nato emarginando le Nazioni Unite (ponendosi al di fuori della legalità internazionale che prescrive che sia il Consiglio di Sicurezza ad «autorizzare» le guerre) e la Russia, storico alleato della Serbia, ma anche del Montenegro. Ma, alla fine, questa stessa guerra non ha potuto essere conclusa che grazie ad una risoluzione delle Nazioni Unite.

E, per una ironia della storia, nel 2008 il modello della «guerra umanitaria» è stato abilmente utilizzato da Mosca nella sua guerra-lampo contro la Georgia per difendere le ragioni del loro «Kosovo caucasico», cioè le regioni separatiste di Abkhazia e dell’ Ossezia del sud. Un modello simile venne utilizzato nel 2014 per la Crimea.

È comunque ancora oggetto di discussione se la guerra nel 1999 fosse motivata dalla difesa dei valori o dovesse costituire la prova generale della nuova Nato, in cerca di legittimazione dopo il 1989. Da una parte, infatti, i governanti dei paesi della Nato e gran parte del sistema informativo occidentale volevano che la guerra passasse alla storia per la sua dimensione etica, «umanitaria». Anche se, come notò allora lo svizzero Denis de Rougemont, noto scrittore e pensatore: «Quando trionfa la morale, succedono sempre brutte cose». Ma il ricorso all’etica si accompagnava alla superiorità tecnologico-militare. Erano le due facce dello stesso «idealismo pratico». Al termine della costruzione della nuova mega-base militare americana a Camp Bondsteel in Kosovo, e nel 2008 la proclamazione dell’indipendenza del Kosovo, riconosciuta da una buona parte dei paesi Nato (l’Ue si è, ancora una volta , divisa sul riconoscimento), si è rafforzata da non pochi l’opinione che nel 1999 si cercava un casus belli per interessi strategici e geopolitici occidentali.

Forse, a venti anni di distanza, si può affermare senza equivoci che quella fu una guerra per l’indipendenza del Kosovo, anche se, nel 1999, gran parte dei governanti occidentali lo negava pubblicamente o non era a conoscenza dei veri piani. Ma val la pena di ricordare che la Risoluzione 1244, che ha concluso il conflitto, riconosceva la sovranità di Belgrado sul Kosovo, cui veniva garantito il diritto ad una sostanziale autonomia. Le numerose violazioni del diritto internazionale ed umanitario commesse nel 1999 hanno costituito un pericoloso precedente anche per l’invasione dell’Iraq del 2003. D’altra parte, è innegabile che la massiccia fuga dei kosovari albanesi e evidenti casi di repressione da parte dei serbi durante la guerra hanno costituito poi una giustificazione a posteriori.

Né va dimenticato che la «guerra umanitaria», che viene presentata oggi come assolutamente necessaria, e giustificata dall’atteggiamento serbo duramente repressivo, non appariva tale ancora il 21 gennaio 1999 al ministro degli Esteri Lamberto Dini, che quel giorno dichiarava in Parlamento: «(Il governo serbo…) Ha accettato i 2 mila verificatori dell’Osce che sappiamo essere dei militari, ma non sono in divisa e non sono armati…Vorrei anche sottolineare che arrivare all’occupazione militare è l’obiettivo dell’Uck. Quindi, non dovremo sorprendersi se continueranno azioni di conflitto, uccisioni di alcuni militari e paramilitari serbi. Anzi direi che, considerando il rapporto tra gli uccisi albanesi e quelli serbi, questi ultimi negli ultimi mesi sono stati uccisi in numero superiore rispetto agli albanesi. Questo è quanto ci dicono i dati riconosciuti anche dai principali paesi europei e Nato» ( Ministero degli Affari Esteri, Testi e Documenti su Politica estera dell’Italia 1999). Ma un altro italiano ha dato un illuminante contributo sulla natura della guerra. Carlo Scognamiglio, Ministro della Difesa durante il conflitto, nel suo libro «La guerra del Kosovo» (Rizzoli) si intrattiene per molte pagine sull’incontro con il generale Wesley Clark, il 17 dicembre 1998, che gli aveva spiegato come la guerra contro la Jugoslavia «sarà una campagna senza perdite per noi» (p.72) e che sarebbe iniziata in marzo. Alla domanda di Scognamiglio: «Generale, quando Lei dice inizio di primavera intende il 21 marzo?», «’Una data intorno a quella’ fu la risposta» (p.77).

Ricordiamo che nell’autunno del 1998, quando, nel corso di conversazioni confidenziali, si dava già per scontato l’inizio della guerra in primavera, le trattative di Rambouillet non erano ancora iniziate, e che i bombardamenti sulla Jugoslavia hanno rispettato puntualmente i tempi previsti dal generale Clark. Nei miei tanti incontri di allora con i politici italiani (Veltroni, Fini, Bossi, Violante, Cossiga, Cossutta, Andreotti, ecc.) avvertivo in loro anche un senso di disagio. Ma l’atteggiamento italiano può forse essere condensato in una folgorante frase del Presidente Cossiga, con cui ho avuto una lunga conversazione il 29 marzo in Senato: “non è chiaro il senso politico della guerra, ma l’Italia deve comportarsi da leale alleato della Nato.” Insomma, se posso riassumere in due frasi latine Credo quia absurdum e pacta sunt servanda.

Nel 1999 ero ambasciatore a Roma della Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia- compreso il Kosovo – e Montenegro). Oggi sono un cittadino montenegrino. Serbia, Kosovo sono diventate per me l’estero. Ma questa è una storia cominciata nel 1991 quando Croazia e Slovenia uscirono dalla Federazione jugoslava, mentre ero ambasciatore della Jugoslavia ( con sei repubbliche) in Mozambico. In realtà cominciava proprio allora quella «primavera dei popoli» che ha causato – tanti sanguinosi conflitti, grandi speranze e sofferenze, con molte verità parallele – e ha portato alla dissoluzione della grande Jugoslavia.

Ancora una volta non posso che esprimere la mia solidarietà per le tante sofferenze patite da tutte le parti in conflitto.

* Ex ambasciatore jugoslavo in Italia. Attualmente deputato al parlamento in Montenegro

 
 
L'Italia diventò la base di un conflitto armato

di Manlio Dinucci
su Il Manifesto del 22/03/2019

1999-2019. Così conquistammo lo status di "grande paese"

Il 24 marzo 1999, la seduta del Senato riprende alle 20,35 con una comunicazione dell'on. Sergio Mattarella, allora vice-presidente del governo D'Alema (Ulivo - Pdci - Udeur): «Onorevoli senatori, come le agenzie hanno informato, alle ore 18,45 sono iniziate le operazioni della Nato».

In quel momento, le bombe degli F-16 del 31° stormo Usa, decollati da Aviano, hanno già colpito Pristina e Belgrado. E stanno arrivando nuove ondate di cacciabombardieri Usa e alleati, partiti da altre basi italiane. In tal modo, violando la Costituzione (artt. 11, 78 e 87), l'Italia viene trascinata in una guerra, di cui il governo informa il parlamento dopo le agenzie di stampa, quando ormai è iniziata.

Venti giorni prima dell'attacco alla Jugoslavia, Massimo d'Alema - come racconterà lui stesso in un'intervista a]Il Riformista (24 marzo 2009) - era stato convocato a Washington dove il presidente americano Bill Clinton gli aveva proposto: «L'Italia è talmente prossima allo scenario di guerra che non vi chiediamo di partecipare alle operazioni militari, è sufficiente che mettiate a disposizione le basi». D'Alema gli aveva orgogliosamente risposto «ci prenderemo le nostre responsabilità al pari degli altri paesi dell'Alleanza», ossia che l'Italia avrebbe messo a disposizione non solo le basi ma anche i propri cacciabombardieri per la guerra alla Jugoslavia. Ai bombardamenti parteciperanno infatti 54 aerei italiani, attaccando gli obiettivi indicati dal comando Usa.

«Era moralmente giusto ed era anche il modo di esercitare pienamente il nostro ruolo», spiega D'Alema nell'intervista. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. L'Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell'impegno dimostrato in questa guerra», aveva dichiarato nel giugno 1999 in veste di presidente del consiglio, sottolineando che, per i piloti, era stata «una grande esperienza umana e professionale».

L'Italia assume così un ruolo di primaria importanza nella guerra alla Jugoslavia. Dalle basi in Italia decolla la maggior parte dei 1.100 aerei che, in 78 giorni, effettuano 38 mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili (molte a uranio impoverito) sulla Serbia e il Kosovo. Viene in tal modo attivato e testato l'intero sistema delle basi Usa/Nato in Italia, preparando il suo potenziamento per le guerre future.

La successiva sarà quella contro la Libia nel 2011. La guerra di venti anni fa è stata il viatico all'attivazione di nuove, pesanti servitù militari per il nostro territorio.

Mentre è ancora in corso la guerra contro la Jugoslavia, il governo D'Alema partecipa a Washington al vertice Nato del 23-25 aprile 1999, che ufficializza il «nuovo concetto strategico»: la Nato viene trasformata in alleanza che impegna i paesi membri a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall'articolo 5, al di fuori del territorio dell'Alleanza». Da qui inizia l'espansione della Nato ad Est, considerata foriera di pericolosi nuovi «confronti» anche da esponenti dell'establishment Usa. In vent'anni, dopo aver demolito quel che restava ancora della Federazione Jugoslava, la Nato si estende da 16 a 29 paesi (30 se ora ingloba anche la Macedonia), espandendosi sempre più a ridosso della Russia.

Oggi l'«area nord-atlantica» si estende fin sulle montagne afghane. E i soldati italiani sono là, confermando quello che D'Alema definiva con orgoglio «il nuovo status di grande paese», conquistato dall'Italia vent'anni fa partecipando alla distruzione di un paese che non aveva attaccato né minacciato l'Italia o suoi alleati.
 
 
 
Chi ha fatto la guerra non ha gestito la pace

Un ventennale drammatico. In Kosovo, la spinta alla divisione - malsopita da promesse internazionali di soldi e protezione - è ora più forte di prima
 
di Fabio Mini * 
su Il Manifesto del 22.03.2019
 

Scrivendo su queste pagine per il decennale della guerra in Kosovo (2009) avevo evidenziato alcuni punti fondamentali della politica di guerra che aveva insanguinato i Balcani e in particolare le aree della ex-Jugoslavia.

Notavo come la catastrofe umanitaria non fosse più una conseguenza della guerra ma una sua causa ed un suo pretesto: se si vuole la guerra si aspetta o addirittura provoca una emergenza umanitaria; il resto viene da sé. In quel primo decennio il Kosovo era stato costruito come un «non stato» su base monoetnica sottratto ad una legittima e giuridicamente corretta sovranità nazionale. Il Kosovo era anche diventato il paradigma della guerra che non finisce mai che si maschera da operazione di pace o che viene definita «guerra civile» quasi a dimostrare che si tratti di questioni locali e che altre forze interne politiche, economiche e miitari non c’entrino per niente. Esprimevo anche il rammarico nel vedere che chi si adoperava per un dialogo interetnico, per la creazione di una entità indipendente con il consenso di tutti gli aventi causa (e di tutti coloro che avevano causato la guerra) e che chi voleva la fine delle ostilità fra etnie veniva osteggiato e persino minacciato mentre coloro che si adoperavano per la divisione, l’inasprimento delle relazioni interetniche e l’isolamento venivano premiati e osannati. In questo secondo decennio si è confermato tutto e oggi fa persino ribrezzo assistere alla celebrazione di una guerra infinita e una missione politica, diplomatica e militare incompiuta.

Nonostante l’estemporanea dichiarazione unilaterale d’indipendenza (2008), il Kosovo è ancora un «non stato».. Le iniziative per la creazione di uno Stato multietnico si sono arenate. La forza militare internazionale (Kfor) è ancora presente e la tutela politico diplomatica della Nato e dell’Unione europea sono ancora necessarie. La spinta verso la divisione e lo smembramento del Kosovo, che per un certo periodo sembrava sopita di fronte alla prospettiva di guadagnare la protezione e i soldi internazionali, è più forte di prima.

Lo scorso anno a Belgrado ci sono state proteste per un incontro segreto avvenuto a Roma (a presunta insaputa del nostro governo) il 4 novembre tra il Presidente kosovaro Hashim Thaqi e quello serbo Aleksandar Vucic. I serbi accusarono il proprio presidente di voler svendere le regioni con popolazione e retaggio culturale serbo al Kosovo e d’altra parte molti kosovari non videro con favore le manovre per una spartizione del Kosovo. Se gli incontri segreti continuano con la facilitazione e le promesse di lauti vantaggi di alcuni paesi, fra cui l’Italia, in pubblico i due ostentano i contrasti. Lo scorso febbraio 2019 a Monaco, Vucic ha ribadito che il Kosovo non mantiene gli impegni assunti ed ha ammesso che la situazione del dialogo è in stallo e una normalizzazione dei rapporti «molto difficile» e ancora «molto lontana». Thaqi ha perfino detto che con la Serbia esiste un «conflitto congelato». I due hanno anche dichiarato che le basi di un accordo «contrastano» con le rispettive Costituzioni e se il Kosovo ignora la Costituzione serba, che per il Kosovo prevede il solo status di Provincia Autonoma nell’ambito dello stato serbo, non c’è motivo di riconoscere la Costituzione kosovara che prevede uno stato indipendente unitario e multietnico, ma solo a parole. Come si vede la strada verso una soluzione concordata non solo è lunga, ma anche sbarrata e minata. Le speranze vagheggiate da politici e diplomatici immersi nella retorica e nel mondo onirico non trovano nessun riscontro nella realtà.
Le uniche pallide buone notizie vengono dal fronte militare. Grazie alla leadership di Kfor assegnata ai comandanti italiani, la Nato ha dovuto accettare quello che nel primo decennio era invece fortemente osteggiato. Innanzitutto Kfor deve e può continuare a dialogare con tutti partendo proprio dalle realtà locali. La politica della chiusura nei confronti della Serbia è sostanzialmente caduta. Così come è caduta la protezione internazionale dei K-albanesi «a prescindere» che ha caratterizzato i primi dieci anni. Il Kosovo non è stato ammesso all’Interpol e questo la dice lunga sulle sue prospettive d’integrazione internazionale. La Nato che ostacolava ogni apertura di dialogo ed ha sostenuto le avventure unilaterali ha dovuto cambiare politica. Almeno a parole. Di fatto, oggi Kfor è l’unico elemento veramente attento al multilateralismo e all’equibrio interno. E questo è stato sufficiente a liberare Kfor dalla condizione di ostaggio internazionale. Infine, questo secondo decennio ha chiarito sul piano concettuale che chi ha fatto la guerra, «con razon o sin ella», non è in grado di gestire la pace. Permane la mentalità del conflitto che non permette alcuna soluzione ragionevole. La retorica della guerra, e soprattutto la retorica della guerra umanitaria, esalta la giustificazione e il valore innegabile dei combattenti di ogni parte e contingente, ma poi confonde la capacità di combattere con quella di governare, confonde gli strumenti per distruggere con quelli per ricostruire, gli sforzi per innovare con quelli per trarre profitto, lecito e illecito.

E il disastro continua. C’è bisogno di gente nuova, teste nuove con ideali e riferimenti culturali nuovi per fondare Città (Civiltà) e Nazioni. Questa lezione antica viene riproposta dal Kosovo ma si estende a tutti i casi e le guerre degli ultimi vent’anni. In tutto il mondo.

* generale, comandante delle Forze Internazionali in Kosovo (Kfor) 2002-2003

 
 
Uck, ovvero la fanteria dell’Alleanza atlantica

Nato. Come una formazione armata e il suo leader Hashim Thaqi, dichiarati «terroristi» dall’Onu nel ’98, vennero assunti come alleati dagli Usa
 
di Sandro Provvisionato * 
su Il Manifesto del 22.03.2019
 

C’è una foto nell’album di famiglia della Nato che qualcuno a Bruxelles pensa fosse stato meglio non venisse mai scattata.

Una foto di cui, invece, l’attuale dirigenza politico-mafiosa kosovara va fiera. Ritrae tutti assieme, mentre impilano le loro mani in un gesto che va oltre l’amicizia, Hashim Thaqi, trafficante non solo di droga e mente politica dell’Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo, attuale premier del Kosovo; l’allora governatore della provincia per conto dell’Onu e oggi ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner; Il comandante militare dell’Uck Agim Ceku, detto «il macellaio della Kraijna» e il comandante della Nato Wensley Clark. Quella foto immortala una missione appena compiuta.
Venne scattata nel settembre di dieci anni fa quando l’aggressione alla Serbia era finita da appena tre mesi. Riguardando quell’istantanea Thaqi ha ancor oggi buon gioco a ribadire quello che rispose ad una mia domanda pochi giorni dopo la fine della guerra. Chi ha liberato Il Kosovo?. «L’Uck con l’aiuto della Nato, tanto che noi dell’Uck ci riteniamo la Nato del Kosovo». Prima dell’inizio della guerra Thaqi parlava già dell’Uck come della fanteria della Nato. Fino a sostenere che la Nato era «l’aviazione dell’Uck». Dietro le sue parole non c’era solo la protervia del capo di un approssimativo esercito che per tutti i 78 giorni dei bombardamenti aerei sulla Jugoslavia, scacciato dal Kosovo, è rimasto timidamente arroccato in territorio albanese, riuscendo a penetrare di neppure due chilometri in territorio kosovaro. E che quando lo ha fatto si è visto bombardare da «fuoco amico», da quella che considerava la propria aviazione, cioè dai caccia della Nato. Thaqi, infatti, non è stato solo il leader di una formazione terroristica musulmana che ha scatenato la guerriglia contro un potere costituito, giustiziando centinaia di kosovari-albanesi considerati «collaborazionisti» e non è stato neppure solo il fiduciario di una ben collaudata organizzazione di narcotrafficanti.

Il «suo» Uck ha scatenato una guerra dentro il Kosovo che, per sua stessa natura, l’organizzazione irredentista non era in grado di condurre né sul piano della guerriglia, né, tantomeno, in campo aperto. Nelle vicende del Kosovo, l’Uck non è stato soltanto una variante armata nello schieramento politico interno, ma – di volta in volta – la causa, il catalizzatore, l’artefice, la vittima di tutte le tensioni della regione. E, in questo senso, Thaqi è stato soprattutto la pedina mediatica di un abile gioco internazionale, che ha visto il mondo intero intervenire in suo favore ma con la convinzione di promuovere una «guerra umanitaria» in favore del suo popolo. E per venti anni, pur di mantenere il suo potere, Thaqi è stato disposto ad accettare un pur blando protettorato della Nato, ricevendone in cambio la possibilità di continuare ad essere il padrone assoluto di un paese, il Kosovo, che ancora oggi vive solo di economia criminale. Diventando allo stesso tempo il principale alimentatore dei valori più retrivi: l’odio, il razzismo, la protervia, la violenza elevata a unica componente della politica. Hashim Thaqi oggi ha vinto anche la pace, dopo aver perduto, vincendola, la guerra. E quale miglior vincitore, quale miglior liberatore di chi può vestire i panni del trionfatore, indossando anche quelli della vittima? Oggi che Thaqi, nome di battaglia Gjarper, che in albanese significa serpente, festeggia la sua vittoriosa guerra cominciata nel 1998-1999 e contemporaneamente il suo secondo anno (siamo ormal terzo ndr) di incontrastata leadership presidenziale kosovara, deve davvero ringraziare la Nato che in fondo è stata davvero la sua personale aviazione.

* Sandro Provvisionato due anni fa ci ha lasciato. È stato tra i pochi giornalisti ad occuparsi dell’ Uck, pubblicando per Gamberetti editore nel 2000 il libro «Uck: l’armata dell’ombra». Riproponiamo questo testo, attualissimo, già pubblicato da “il manifesto”, come omaggio alla sua memoria

 
 
Il conflitto spartiacque per le Ong

La missione arcobaleno. È stato il punto più basso del ruolo umanitario italiano piegato ai ricatti del governo. Molti abdicarono all’indipendenza dell’organizzazione in cambio di fondi per progetti inutili
 
Giulio Marcon 
su Il Manifesto del 22.03.2019
 

La guerra del Kosovo di venti anni fa segnò uno spartiacque anche per le organizzazioni non governative (Ong) e per l’intervento umanitario reale nelle tante aree di conflitto.

Quella guerra fu definita «umanitaria» e la missione Arcobaleno fu pensata nelle stesse ore in cui veniva decisa l’adesione dell’Italia ai bombardamenti della Nato.

I raid iniziarono il 24 marzo, Arcobaleno fu annunciata il 27 marzo. L’intervento umanitario fu dunque organico alla guerra e molte Ong consapevoli o meno- si misero al servizio di questa visione.

I paesi dell’Alleanza atlantica utilizzarono «l’argomento» umanitario come corredo indispensabile per costruire consenso intorno ad operazioni militari contrarie al diritto internazionale. Così diverse Ong accettarono soldi da un governo che stava facendo la guerra: il tutto per far fronte ad un’emergenza in larga parte causata dallo stesso governo da cui si ottenevano lauti finanziamenti. Si potevano vedere soldati della Nato aiutare le Ong a montare le tende dei campi per i profughi (che scappavano dai bombardamenti dell’Alleanza Atlantica oltre che dalle milizie serbe) o rifornire gli stessi campi di beni di prima necessità già in dotazione agli eserciti.

Molte organizzazioni abdicarono di fatto alla propria autonomia ed indipendenza. Il tutto in cambio di finanziamenti per progetti, in alcuni casi perfettamente inutili, ma funzionali alle proprie strutture e a pagare lo staff.

Naturalmente non per tutti fu così, ma per tanti sì. Il 3 aprile del 1999 gli organismi di solidarietà internazionale che non avevano accettato la missione Arcobaleno (tra cui Ics, Arci, Legambiente, Un Ponte per, Cric, ecc.) organizzarono una manifestazione a Roma contro la guerra con 100mila persone.

Alla fine della guerra in Kosovo, erano presenti sul campo oltre 400 Ong con propri progetti in un territorio grande quasi quanto l’Abruzzo. Il tutto all’insegna di un intervento umanitario invasivo, dall’alto e assistenziale. E protetto dai militari della forza internazionale, gli stessi militari che non proteggevano le nuove minoranze del Kosovo colpite dalla contro-pulizia etnica.

Solo poche Ong (come Medici senza frontiere e Ics) protestarono. Dalla guerra in Kosovo si è sviluppato un approccio militar-umanitario che ha avuto il suo coronamento in Afghanistan e in Iraq con l’istituzione nella Nato del Cimic (la Civilian Military Cooperation), di una strategia militare, cioè, che ha inglobato la dimensione umanitaria come strumento pratico e ideologico di consenso mediatico e di affiancamento sul campo. Fino a qualche anno fa le Ong sono state completamente adagiate a questo approccio; dai fallimenti dell’Iraq in poi alcune di queste sono rinsavite e hanno riaffermato la necessaria indipendenza (tra l’altro sancita formalmente dai principali codici di condotta internazionale delle agenzie umanitarie) della sfera umanitaria da quella militare.

Ma è certo che la guerra in Kosovo ha messo in luce tutta la debolezza di un’azione umanitaria – in particolare di quella italiana- senza identità politica e culturale, completamente subalterna e cooptata nelle istituzioni: una cooperazione e delle organizzazioni paragovernative che con la mano sinistra scuotevano debolmente la bandiera arcobaleno e con quell’altra cercavano di prendere il più possibile dalla cassa Arcobaleno .

È stato, dal punto di vista dell’autonomia e dell’identità culturale, il punto più basso dell’intervento umanitario italiano.

Quel periodo però arrivò dopo un decennio straordinario in ex Jugoslavia (in Bosnia Erzegovina e in Serbia) di pacifismo concreto (lo definì Alex Langer), molto poco ideologico e fatto di diplomazia dal basso, accoglienza dei profughi, migliaia di volontari, centinaia di comitati locali a fianco dei rifugiati, delle Donne in nero, dei centri anti-guerra, delle vittime di ogni etnia. Un’esperienza che fu oscurata dal circo militare-umanitario della missione Arcobaleno, ma che sottotraccia continua ancora oggi.

 
 
Effetto collaterale, la memoria negata

Venti anni fa l’intervento «umanitario» dell’Alleanza atlantica. Tra i giovani in piazza oggi a Belgrado: «Vucic legato alla Nato», «Io profugo, dimenticato con le vittime». Stasa Zajovic (Donne in Nero): «Rischio nazionalista»
 
Luka Bogdanic 
su Il Manifesto del 22.03.2019
 

Da mesi in tutti i Balcani ci sono manifestazioni di piazza. Da Lubljana in Slovenia,, dove sono comparsi anche i jilet jaunes, a Zagabria, dove i giornalisti hanno protestato qualche giorno fa contro le pressioni del governo sui media, a Belgrado, dove l’opposizione chiede le dimissioni del Presidente Vucic. Si protesta però anche a Banja Luka, a Podgorica e a Sarajevo. Nei Balcani serpeggia un malcontento generale.

Le ragioni e i pretesti di ciascuna di queste proteste sono molto diverse da paese a paese e da città a città. In Serbia le manifestazioni vanno avanti da più mesi e si svolgono ogni sabato, in parallelo a quasi tutte le principali città del paese. Qui l’opposizione è guidata da Dragan Djilas, Vuk Jeremic e Bosko Obradovic, i primi due sono definiti da Vucic come tycoon locali, mentre l’ultimo come «fascista». E lo è per davvero. Obradovic è ammirato dall’estrema destra di tutta la regione per i suoi discorsi profascisti e radicalmente omofobi. Sabato sera a Belgrado i manifestanti sotto la sua guida sono riusciti a irrompere nella Tv pubblica, fermando i programmi televisivi. Se da una parte non si vede la fine di queste proteste, per ora Vucic sembra stare ben in sella. Questo infatti, gode della fiducia dei burocrati di Bruxelles, poiché da ex nazionalista radicale quale è, viene visto come l’unico capace di risolvere (e di tenere stabile, ma in un grande, pericoloso vuoto) la questione del Kosovo, assicurando così il cammino della Serbia verso la promessa dell’integrazione europea. Vucic è anche molto abile nel tendere una mano alla Russia e al contempo implementare i rapporti con la Nato.

Proprio in questi giorni di fine marzo ricorrono i venti anni dei bombardamenti Nato su quello che rimaneva dell’ex Jugoslavia. Abbiamo provato a sentire cosa ne pensano oggi i giovani e le diverse anime della sinistra radicale serba fino alla fine di settembre partecipe delle manifestazioni di piazza, di quei tragici 78 giorni di bombardamenti. L’associazione Marks21 -associazione di forte stampo internazionalista e trotzkista- in occasione dei 20 anni di bombardamenti, sta organizzando un convegno internazionale dal titolo: «Il No balcanico alla Nato». L’idea è di proporre una riflessione antinazionalista e su «come liberare i Balcani dall’imperialismo».

Pavle Ilic, attivista di Marks21, dice: «In realtà l’anniversario passa quasi come un evento di secondo ordine e a Vucic conviene che sia così. Per la sua politica di avvicinamento all’Unione Europea e alla Nato, non gli conviene troppo problematizzare gli accadimenti di venti anni fa. Negli ultimi dieci anni questo tema è stato sempre più attutito, così dell’argomento dei 20 anni dopo, se ne parla meno di quanto se ne parlava 10 anni fa. Il governo prevede una grande manifestazione ufficiale – una parata militare che si svolgerà a Nis e non a Belgrado». «Di quei bombardamenti – continua – i più giovani ne sanno poco, poiché a scuola si insegna la storia dei re medievali serbi o del ruolo del paese nella Prima Guerra mondiale, ma del recente passato quasi non si parla. La guerra con la Nato non ha per il nazionalismo serbo “quell’aurea” che la guerra patriottica degli anni Novanta ha per i croati». Secondo Ilic, i leader delle proteste che riempiono le piazze in realtà condividono la posizione di Vucic su questi temi: «La narrazione nazionalista sul piano interno e il parallelo potenziamento della collaborazione con la Nato. Le nostre élite gareggiano tra loro nel chi è più ubbidente verso i vari padroni del mondo e chi ci integrerà prima nelle strutture europee e atlantiche. La politica di queste élite verso i nostri vicini rimane all’insegna della inimicizia e dell’ostilità. Così i Balcani rimangono la facile preda dei vari padroni sia dell’Ovest che dell’Est».

Stasa Zajovic, storica leader dell’associazione Donne in Nero, dice che la parata che ci sarà a Nis «serve al potere sul piano interno per tenere buono, ma anche vivo, il nazionalismo. Su questo punto, quelli che guidano le proteste in piazza non sono diversi da Vucic, anzi sono forse anche peggio». Ma per fortuna c’è anche gente diversa. Infatti, Stasa racconta che qualche giorno fa è apparsa a Drocul (uno dei quartieri centrali di Belgrado), la scritta: “Viva la solidarietà del popolo serbo e del popolo albanese”». Più critico di tutti è il giovane Stefan Milosavljevic, giovanissimo attivista delle Donne in Nero, nato in Kosovo nel 1997. Per lui la Serbia è ancora lontana dall’aver fatto i conti con il proprio passato. Allo stesso tempo però «la Serbia dopo venti anni non ha ancora censito le vittime dei bombardamenti Nato. Questo fatto è la prova migliore di quale natura sia veramente il rapporto dello Stato verso le vittime serbe di quella guerra», ricorda Stefan, che da bambino ha subìto sulla propria pelle i cosiddetti “effetti collaterali” dei bombardamenti umanitari e oggi è uno delle tante displaced persons in quello che dovrebbe essere il suo paese. Come non comprendere la sua rabbia, un po’ confusa, tanto verso il nazionalismo serbo quanto verso la Nato.