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DALLA FONDAZIONE DEL KOMINFORM
ALLA GUERRA CIVILE IN GRECIA

di G. Carpi
(ricercatore, Univ. di Pisa)

Cari compagni,

sono pienamente d'accordo sulla
necessità di affrontare criticamente i
nodi cruciali della nostra storia. Nelle
fasi di reazione politico-sociale e di
sostanziale egemonia culturale da parte
delle forze più regressive il
movimento operaio ha sempre ridefinito
le proprie strategie partendo da una
rielaborazione critica del passato:
basti pensare all'analisi marxiana del
1848, a quella condotta da Lenin nei
confronti della rivoluzione russa del
1905, ai quaderni gramsciani o alla
politica dei fronti nazionali,
inaugurata dal Komintern sulla
base dell'esperienza della guerra
civile in Spagna.
Se mai, e' frustrante constatare
quanti, e quanto complessi, siano i
nodi cruciali sui quali ci sarebbe da
discutere. Si tratta di un compito che
richiederebbe gruppi di lavoro, un
nuovo Istituto Gramsci, perchè la futura
egemonia la si costruisce grazie a una
paziente opera di rielaborazione
storica, di costruzione di una
prospettiva storica coerente.
Inizio il mio contributo indicando
alcuni studi recenti e molto
approfonditi (a prescindere dalle
opzioni ideologiche generali degli
autori) sui problemi da noi affrontati
in questa sede:

R. Martinelli, Storia del Partito
Comunista Italiano. Il "Partito nuovo"
dalla Liberazione al 18 aprile, Torino,
Einaudi, 1995 (Sulla nascita del
Cominform, pp. 239-257. Sulla questione
di Trieste, pp. 142-146).
G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del
Partito Comunista Italiano.
Dall'attentato a Togliatti al VIII
congresso, Torino, Einaudi, 1998 (sulla
"scomunica di Tito", pp. 3-22. Sul caso
Magnani-Cucchi, pp. 199-210).
A. Agosti, Bandiere rosse. Un profilo
storico dei comunismi europei, Roma,
Editori riuniti, 1999 (sullo "scisma
jugoslavo", 180-184).
A. Agosti (a cura di), Enciclopedia
della sinistra europea nel XX secolo,
Roma, Editori Riuniti, 2000.
S. Pons, L'impossibile egemonia.
L'URSS, il PCI e le origini della
guerra fredda, Roma, Carocci, 1999.

1.
Innanzitutto, vorrei evitare di
impostare le mie considerazioni sulla
base di una sterile contrapposizione
titoismo-stalinismo. Nell'intervento di
Italo Slavo, oltre ad alcune singole
valutazioni, mi lascia perplesso un
approccio tutto "a posteriori", basato
più sulla proiezione di ciò che noi
avremmo voluto che succedesse,
piuttosto che un tentativo di capire il
perchè di determinati processi, le
oggettive circostanze storiche che li
hanno resi inevitabili.
E' proprio dal contesto che voglio
partire: stiamo parlando infatti di un
triennio (45-48) in cui nuove strutture
politiche, economiche e
geostrategiche si sviluppano sulle
macerie d'Europa con una velocità e un
carattere imprevedibile di cui oggi è
difficile rendersi conto.
La fondazione del Cominform (settembre
del 47) e' un tentativo da parte dei
sovietici (e degli jugoslavi) di
recuperare la leadership sui partiti
comunisti europei e di definire nette
sfere d'influenza in risposta alle
continue minacce e provocazioni
anglo-americane: la dottrina del
"Containment" esposta da Truman, la
bomba atomica, il discorso di Churchill
sulla "cortina di ferro", e soprattutto
la nascita della Germania
occidentale e il piano Marshall. Nel
biennio precedente, la possibilità di
sperimentare forme differenti di
socialismo a seconda dei contesti e
l'autonomia dei partiti comunisti
nazionali erano considerate dal gruppo
dirigente sovietico con la massima
flessibilità (memorabile l'aforisma di
Stalin, detto proprio a Tito
nell'aprile 1945: "Oggi il socialismo
e' possibile persino sotto la monarchia
inglese"). Un tale orientamento era
stato elaborato concettualmente
dall'economista sovietico Evgenij
Varga, teorico delle "democrazie di tipo
nuovo". Se mai, i più tetragoni e
"confrontazionisti" erano in quella fase
proprio gli jugoslavi, che non a caso del
Comintern (e quindi, in prospettiva,
dell'arroccamento in due blocchi
europei contrapposti e dell'omologazione
secondo il sistema sovietico) furono i
più energici fautori. La struttura
(che avrebbe dovuto avere sede a
Belgrado) assunse caratteri rigidi
proprio su loro pressione, e alla prima
riunione in Polonia la reprimenda nei
confronti del PCI (giudicato troppo
moderato, in un momento, si badi, in
cui era appena stato estromesso dal
governo di unità antifascista e si
trovava sotto un assedio pesantissimo)
venne affidata a Milovan Djilas
(futuro corifeo del "socialismo
morbido", molto apprezzato dalla nostra
sinistra chic, ma allora pasdaran
leninista, che già durante la guerra
partigiana si era distinto in
Montenegro per la mano pesante).
Certo, gli jugoslavi avevano i loro
motivi per perseguire questa linea
politica: una totale monoliticità del
campo comunista favoriva (in un
momento in cui Tito era visto come il
delfino di Stalin) il loro progetto
di egemonia nei Balcani (assorbimento
di Bulgaria, Carinzia, Albania,
Trieste, e in prospettiva della
Grecia), ma l'operazione era assai
spregiudicata e destabilizzante, poichè
favoriva un'analoga tendenza
all'arroccamento dell'Occidente, con
rischi gravissimi per la democrazia e
per la pace (avvio del piano Marshall,
conferenza di Londra nel dicembre
1947, crisi di Berlino nel luglio 48).
Da questo punto di vista sono convinto
che Stalin avesse sostanzialmente
ragione, quando in una riunione a Mosca
coi leader jugoslavi e Bulgari
apostrofava Dimitrov: "Voi siete un
leader politico e dovete pensare non
soltanto ai vostri orientamenti, ma
anche alle conseguenze delle vostre
dichiarazioni. Parlate come se foste
ancora il segretario del Komintern e
rilasciaste un'intervista a una rivista
comunista. Voi fornite agli
elementi reazionari in America un
argomento per convincere la pubblica
opinione che l'America non fa niente di
speciale se crea un blocco
occidentale, visto che nei Balcani
esiste non soltanto un blocco, ma
addirittura un'unione doganale". Lo
scenario di un raggruppamento regionale
egemonizzato da Belgrado e non
sufficientemente controllato da Mosca
creava una pericolosa fonte di tensione
nei Balcani con le potenze occidentali.
A farne le spese, lì per lì, fu
soprattutto la Grecia.
A proposito della Grecia, una piccola
digressione. Vorrei puntualizzare che
Nikos Zachariadis NON era affatto un
"pompiere" manovrato da Mosca come lo
descrivono Ferraretto e il suo amico
nell'intervista, ma un eroe reduce dei
campi di sterminio nazisti (Dachau).
Nell'agosto 1948 sostituì Markos
Vaphiadis alla guida dell'esercito
rivoluzionario DSE (Vaphiadis, antico
capo delle formazioni partigiane EAM-ELAS,
era fautore della guerriglia, mentre
Zachariadis tentò di organizzare un
esercito regolare). Peraltro, è vero
che nel marzo 1946 l'insurrezione
comunista iniziò contro i consigli di
Stalin, ma anche qui Jozif Vissarionovic
aveva ragione: l'insurrezione
venne sconfitta (motivo: al momento
della rottura fra Tito e Stalin il DSE
si schierò col secondo e gli jugoslavi
interruppero gli aiuti), in Grecia
tornò la dittatura e proprio la guerra
civile ellenica dette a Truman lo
spunto per lanciare la sua "dottrina"
sulla necessità di contenere
"l'ondata espansionistica del dominio
comunista". Una sorte analoga sarebbe
probabilmente toccata anche all'Italia
se Togliatti e Longo avessero
seguito le istruzioni di Djilas...
Sulla questione di Trieste, sulla
frattura Stalin-Tito e sul ruolo del
PCI, alla prossima puntata. Per il momento,
saluti comunisti.

Guido Carpi