Immigrazione serba a Trieste

La testimonianza di tre lavoratori
di Renato Kneipp
Segretario Fillea-Cgil di Trieste

(da "L' Ernesto", numero 5/2000)

Dalla caduta del Muro di Berlino sono passati oltre dieci anni e i più
ricorderanno a malapena che Trieste confinava con un Paese, la
Jugoslavia, non allineato e non facente parte del Patto di Varsavia,
un Paese considerato comunista. Ciò comportò non pochi problemi e
momenti di forti tensioni in queste terre di confine; tuttavia, con il
passare degli anni, pur in presenza di grosse difficoltà nei rapporti
politici tra i due paesi confinanti, gli interscambi economici
cominciarono ad intensificarsi e a radicarsi in diversi settori. Tutto
ciò fu merito anche dell'impegno dei cittadini italiani appartenenti
alla minoranza slovena, che da sempre vivono nella nostra città e che
hanno saputo con grande intelligenza avviare in modo corretto questo
rapporto di reciproca convenienza ed utilità.
In questa prima fase furono le aziende di "import-export" ad essere le
apri- pista di tali scambi, che permisero di superare una barriera
confinaria (più mentale che fisica) che fino ad allora sembrava
insormontabile. Non tutto però fu così facile, anche perché le forze
reazionarie, nazionaliste e fasciste presenti massicciamente a
Trieste, si erano da sempre contraddistinte nell'opporsi a qualsiasi
tipo di apertura e di collaborazione con la Jugoslavia.
Ma la carenza di determinate figure professionali, aprì la porta a
centinaia di cittadini jugoslavi, provenienti dalla fascia confinaria
che in virtù degli "Accordi di Udine" attraversavano giornalmente il
confine tra i due stati, esibendo semplicemente il famoso e tuttora
esistente "lascipassare", che riconosce pari diritti anche ai
cittadini italiani. In tal modo centinaia e poi migliaia di donne e di
uomini attraversarono il confine per venire in Italia a cercare
lavoro. In particolare, le donne trovarono occupazione presso le
famiglie come collaboratrici domestiche o come commesse nei negozi
triestini, data la conoscenza di almeno due lingue, requisito
indispensabile per lavorare in una zona di confine, dove la clientela
proveniente dall'estero raramente conosce l'italiano. Gli uomini
furono inseriti in quei comparti dove maggiore era la fatica fisica,
come l'edilizia.
In quella fase vi fu un miglioramento delle condizioni economiche
generali, che non riguardava solo i paesi occidentali, ma anche i
paesi dell'est europeo e le Repubbliche della Jugoslavia più vicine al
nostro confine, ove iniziò a manifestarsi il problema della carenza di
manodopera, problema al quale si cercò di dare risposta facendo
affluire i lavoratori dalle realtà più povere della Jugoslavia. Tale
politica portò in queste terre di confine centinaia di lavoratori
serbi, montenegrini, bosniaci e macedoni, parte dei quali gradualmente
iniziò ad entrare in Italia, dove si poteva guadagnare di più. Da
allora il numero di questi lavoratori è costantemente aumentato,
portando Trieste ad essere, nel contesto italiano, una delle realtà
con la percentuale più alta di stranieri rispetto alla popolazione
residente. Attualmente la stragrande maggioranza degli immigrati
proviene dalla Jugoslavia, ovvero dalla Serbia e più precisamente
dalla zona di Pozarevac, nota in quanto città natia dell'ex presidente
Jugoslavo Slobodan Milosevic. Quasi tutti sono in possesso di un
regolare permesso di soggiorno, che permette loro di poter lavorare in
regola sotto il profilo assicurativo. Però, come del resto succede
anche a molti nostri connazionali, non tutti riescono a trovare un
lavoro regolare, pertanto sono spesso costretti ad accettare lavori in
nero e sottopagati. Per capire cosa significa per l'economia triestina
l'apporto di questi lavoratori è sufficiente evidenziare che, ormai,
oltre la metà degli occupati nel settore delle costruzioni sono
stranieri.
Una discreta parte di questi si è pienamente integrata nella vita
sociale della città: oltre il lavoro, frequentano associazioni e
circoli culturali, mandando i figli nelle scuole di ogni ordine e
grado, iscrivendoli nelle varie società sportive. Ma al di la di
questi casi "felici", tanti sono i problemi che comunque tutti gli
stranieri devono affrontare. Senza considerare l'aspetto burocratico
per ottenere - rinnovare il permesso di soggiorno, o i vari documenti
da dover esibire per avere diritto all'assistenza medica, la questione
più critica è rappresentata dalla ricerca di una casa. Oggi un
appartamento decente, ad un prezzo onesto, è quasi impossibile
trovarlo e questo ha costretto i cittadini stranieri e le loro
famiglie a doversi accontentare di alloggi spesso del tutto
inabitabili. Non a caso agli stranieri che risiedono in città vengono
offerti quei vani dove gli italiani non vogliono più abitare, in cui i
servizi spesso sono in comune, dove spesso vi è un solo rubinetto con
la sola acqua fredda, oppure vengono affittate soffitte, cantine o
magazzini trasformati abusivamente in alloggi ma per i quali si pagano
prezzi spropositati Si sta verificando lo stesso fenomeno degli anni
'60 e '70 nelle grandi città del nord industrializzato, quando gli
immigrati che provenivano dal sud Italia non riuscivano a trovare
delle sistemazioni civili. Il fatto che i mariti ed i padri abbiano
portato in Italia mogli e figli, ha contribuito a favorire quella
integrazione di cui sopra parlavamo. Ormai alcuni immigrati sono nella
nostra città da quasi trent'anni, ed erano arrivati quando a governare
la Jugoslavia c'era il Maresciallo Josip Broz Tito e non esistevano
assolutamente tensioni di alcuna natura tra le popolazioni delle varie
Repubbliche che formavano quel Paese. Altri sono arrivati dopo la
morte di Tito, quando purtroppo la Jugoslavia incominciò a
sgretolarsi; gli ultimi sono giunti quando la loro terra veniva
bombardata dagli aerei della Nato che dalle nostre basi partivano alla
volta di Belgrado, di Kragujevac, di Pancevo o di Novi Sad, portando
distruzione e morte. Pertanto ho ritenuto opportuno ed utile sentire
tre lavoratori serbi, che sono giunti a Trieste in tre distinte fasi,
ed attraverso le loro testimonianze capire che cosa li ha spinti a
venire in Italia, quali siano stati i maggiori problemi che hanno
dovuto affrontare e cosa ne pensano della loro condizione di immigrati
in Italia.


L'incontro con i lavoratori serbi


Per fare ciò, mi sono recato al "Club associazione culturale serba Vuk
Karadzic", luogo fondato ed autogestito da un gruppo di lavoratori
serbi, i quali hanno in questo modo dato la possibilità a tanti loro
connazionali di potersi ritrovare in una sala e non per strada o in
una piazza, potendo magari bere un caffè alla turca, giocando una
partita a scacchi o a domino e guardando (grazie all'antenna
satellitare) la televisione jugoslava e sentirsi un po' come a casa.
Particolari e drammatiche furono quelle serate segnate dagli attacchi
aerei della Nato contro la Jugoslavia. Alle 19.30, ora del
telegiornale di Belgrado, il Club si riempiva di gente che in profondo
silenzio e con il cuore in gola aspettava di sapere dove erano cadute
le ultime bombe o i missili e quali danni avevano provocato. Le
immagini che arrivavano via satellite erano come un pugno nello
stomaco per tutti, ma per loro che si trovavano a centinaia di
chilometri di distanza dalla propria martoriata terra e che con
difficoltà riuscivano a malapena a mettersi in contatto telefonico con
le proprie famiglie, quella esperienza fu una cosa veramente
traumatica. Diversi decisero di rientrare in Jugoslavia, perdendo in
alcuni casi anche il lavoro, altri portarono in Italia la famiglia,
altri parteciparono assieme a noi alle innumerevoli manifestazioni
contro la vile aggressione della Nato.
Ed è proprio qui, in questo luogo, che incontro i nostri tre
interlocutori, che con grande disponibilità hanno accettato di fare
quattro chiacchiere con noi. Dopo aver ordinato un caffè alla turca,
accompagnato da un tipico dolce, il ratlog, inizia la conversazione
con Zile, Zivorad e Dejan.

Il racconto di Zile


Zile racconta che ormai sono passati 25 anni da quando è arrivato a
Trieste e che oggi può ritenersi abbastanza soddisfatto di come sta
vivendo nella nostra città. Ma prima di arrivare qui, appena finito il
servizio militare, aveva avuto una breve esperienza nella "democratica
Austria", dove trovò lavoro in una piccola fabbrica che produceva
pezzi di ricambio in gomma per automobili. Una notte, nella casa dove
assieme ad altri dormiva, irruppe la polizia che, dopo aver
identificato i presenti, rinchiuse in carcere tutti coloro che erano
sprovvisti di un regolare permesso e Zile tra questi. Comunque fu
"fortunato", visto che dopo una "sola" settimana, assieme ad altri
cinquanta, fu rimpatriato alla volta della Jugoslavia. Meno fortunati
furono quelli che dovettero aspettare anche un mese in galera, prima
di essere rispediti nel loro paese.
Dopo questa non certo felice esperienza, Zile ritentò nuovamente ed
arrivato a Trieste, nel tempo di alcune settimane, riuscì a trovare
lavoro presso l'impresa dove tuttora svolge la propria attività.
All'epoca tutta la documentazione e le relative autorizzazioni del
Ministero, indispensabili per l'ottenimento del permesso di soggiorno
per motivi di lavoro, le procurava l'impresa stessa e al lavoratore
non rimaneva altro che recarsi al Consolato italiano di
Koper-Capodistria, dove gli veniva rilasciato il visto. Inizialmente
la sistemazione alloggiativa gli fu garantita dal datore di lavoro,
che gli mise a disposizione una baracca (attrezzata) dove visse per
oltre tre anni.
Successivamente, una volta arrivata la moglie, affittò una stanza di
un appartamento nel quale, in spazi ristretti, vivevano assieme
quattro famiglie, le quali avevano a disposizione un unico gabinetto
ed una unica cucina, dove il padrone di casa controllava che l'uso del
gas fosse limitato. Anche l'intimità coniugale veniva in tal modo
limitata e ciò contribuì ad accelerare la ricerca di una sistemazione
più consona alle giuste esigenze di una famiglia. Poi, passando da una
finita locazione ad uno sgombero forzato causa l'inabitabilità di una
casa pericolante e ad uno sfratto esecutivo, Zile e sua moglie
trovarono, grazie anche all'interessamento del datore di lavoro di
quest'ultima, un appartamento che finalmente offrì quelle
caratteristiche abitative e contrattuali che da tempo cercavano.
Zile ricorda di essere stato tra i primi o addirittura il primo
lavoratore jugoslavo ad aver superato a Trieste l'esame per la patente
di guida italiana, il che gli permise di acquistare la sua prima
automobile, di seconda mano. Zile però si contraddistinse da subito
anche sul versante sindacale, pretendendo il rispetto dei propri
diritti di lavoratore. Innanzitutto chiarì con l'impresa che gli
straordinari dovevano essere fatti solo in casi specifici e non come
un normale prolungamento dell'orario di lavoro o addirittura come un
obbligo. Pertanto rifiutò in tal senso di lavorare tutti i sabati,
come era ormai diventata abitudine consolidata in azienda. Il suo
esempio fu a questo punto ripreso anche da altri compagni di lavoro,
che presero grazie a lui maggior coraggio nel far valere diritti
troppo spesso dimenticati.
Per quanto concerne i rapporti tra lavoratori italiani e stranieri
egli stesso conferma che raramente ci sono stati dei problemi e
comunque quasi mai derivanti dal loro status di stranieri. Anzi il
fatto di aver da sempre lavorato gomito a gomito, ha notevolmente
contribuito alla reciproca conoscenza ed al superamento delle
diffidenze iniziali.

Il racconto di Zivorad


Zivorad inizia ricordando che nel paesino dal quale è partito per
cercare maggiore fortuna in Italia, l'unica fonte di reddito era ed è
ancora oggi l'agricoltura e l'allevamento di bestiame(bovini e suini).
Già suo padre emigrò in Svezia dove lavorò per ben 28 anni e anche
lui, sebbene a malincuore, dovette, dieci anni fa, fare le valige e
partire. Essendo riservista dell'esercito jugoslavo, quando iniziarono
gli scontri tra serbi e croati, volle in tutti i modi evitare di dover
combattere contro chi fino a ieri gli era stato amico e fratello.
Ancora oggi non riesce a dare un senso al disfacimento della
Jugoslavia e alle migliaia di morti che hanno insanguinato un Paese
dove la fratellanza tra popoli diversi per nazionalità, religione,
lingua o per tradizioni, avevano trovato nella convivenza e nel
reciproco arricchimento culturale la migliore risposta alle divisioni.
All'epoca Zivorad, attraverso un familiare che viveva a Trieste,
ottenne un permesso di soggiorno turistico che gli dette modo, uno
volta arrivato a Trieste, di chiedere di rimanere in Italia per motivi
"umanitari". Da prima fu ospitato presso questo parente e
successivamente, dopo aver trovato un lavoro in regola, si sistemò in
un appartamento non certo di lusso, situato in un palazzo dove
risiedono esclusivamente cittadini non italiani. In Jugoslavia ha
lasciato la moglie, due figlie e l'anziana madre, che quando il lavoro
glielo permette va a trovare, dovendosi sobbarcare oltre 1200 km
all'andata ed altrettanti al ritorno. Prima che il suo Paese venisse
smembrato bastava farne 800 di km per arrivare a casa, ora però deve
attraversare prima l'Austria, poi l'Ungheria per arrivare in
Jugoslavia, anche perché per passare dalla Slovenia e dalla Croazia,
come si faceva una volta, bisogna ottenere dei visti di transito molto
onerosi (e le pratiche per ottenerli sono alquanto lunghe e
complicate). Anche lui vorrebbe ricongiungersi con la sua famiglia, ma
le ultime leggi italiane che regolano la materia sono alquanto rigide,
riguardo alla disponibilità alloggiativa del richiedente, il quale
deve poter disporre di una abitazione che sia in regola con i
parametri minimi di abitabilità previsti dalle normative vigenti. Con
i soldi che Zivorad guadagna non può permettersi attualmente niente di
meglio, il che gli nega ogni possibilità di far arrivare sua moglie e
le figlie a Trieste.
Anch'egli spera che la Jugoslavia possa finalmente uscire
dall'isolamento internazionale che negli ultimi dieci anni l'ha
fortemente indebolita, sia dal punto di vista economico che politico.
Ciò che però ha voluto alla fine sottolineare è l'auspicio che il
popolo jugoslavo, possa decidere del proprio futuro senza subire
condizionamenti, sia esterni che interni.

Il racconto di Dejan


L'ultima testimonianza è quella del più giovane dei tre, Dejan, che ha
36 anni, è sposato, ha due figli di 9 e 14 anni che sono rimasti in
Jugoslavia assieme alla madre.
Dejan è arrivato a Trieste nell'aprile di quest'anno, grazie alla
richiesta di assunzione fatta da un'impresa artigiana edile, che non
trovando manodopera disponibile in loco ha ottenuto l'autorizzazione
ad assumere un lavoratore "extra comunitario". Quando gli aerei della
Nato iniziarono a colpire la Jugoslavia non scappò, come altri fecero,
ma restò nel suo Paese a coltivare la terra, sfamando la sua famiglia
e garantendo in questo modo che il raccolto venisse utilizzato per dar
da mangiare a tutto il Paese, martoriato dai bombardamenti e
dall'embargo. Proprio l'embargo appesantì ulteriormente la già
difficile situazione economica di migliaia e migliaia di famiglie
jugoslave e costrinse tanti come Dejan ad emigrare per sopravvivere. A
differenza di altri Dejan aveva già un lavoro in Italia che lo
aspettava, non aveva però un posto dove poter dormire.
Da prima si arrangiò a casa di amici, poi trovò un "buco" di 25 metri
quadrati al costo di 400.000 al mese, senza servizi, senza
riscaldamento e con un'umidità tale che i muri sono spesso bagnati.
Spera di poter quanto prima risolvere il problema della casa, anche
perché vorrebbe comunque che la sua famiglia lo raggiungesse e
certamente non potrebbe farlo con l'attuale sistemazione.
Anche Dejan fa alcune battute sulle ultime novità politiche che il suo
Paese sta attraversando. Analogamente alla stragrande maggioranza dei
suoi connazionali, che vivono e lavorano all'estero, non ha potuto
recarsi a votare, in quanto sia la proibitiva distanza che l'elevato
costo del viaggio, glielo hanno di fatto proibito. Il risultato del
voto non lo ha particolarmente sorpreso, anzi ritiene logico che la
gente si sia espressa in tal modo, considerando le promesse che i
paesi occidentali avevano fatto in caso Milosevic avesse perso.
Contestualmente ribadisce che la popolazione ha voluto anche dare un
chiaro segnale di volontà di cambiamento per una Jugoslavia più
democratica, ma soprattutto per una politica che sia più vicina alle
loro aspettative ed alle loro esigenze.

Un ultimo accenno hanno voluto farlo sulla guerra che l'anno scorso
devastò tutta la Jugoslavia e tutti e tre hanno più o meno espresso le
stesse opinioni e valutazioni.
1) Le bombe ed i missili hanno colpito principalmente i punti
strategici economici e viari, lasciando quasi intatti gli obiettivi
militari, a dimostrazione che gli Stati Uniti ed i paesi della Nato
volevano soprattutto devastare la loro terra e distruggere la loro
economia, oltre che ferire mortalmente l'orgoglio di un popolo
abituato a combattere per la difesa dei propri diritti.
2) L'inquinamento dell'acqua, dell'aria e della terra provocata dai
bombardamenti e dall'uso di proiettili all'uranio impoverito stanno
già causando immensi problemi sanitari, non solo ai popoli della
Jugoslavia, ma a tutti coloro che vivono nei paesi confinanti,
pertanto sarà necessario che la comunità scientifica internazionale
trovi quanto prima delle risposte concrete.
3) La così detta "guerra umanitaria", scatenata per "aiutare" gli
albanesi del Kossovo, non ha minimamente risolto i problemi di
convivenza di quella regione: viceversa, dopo i bombardamenti e
l'arrivo delle forze militari della Nato, le divisioni etniche si sono
ancor più approfondite e le varie mafie che si stanno impossessando
del territorio stanno a loro volta condizionando il futuro di quelle
popolazioni.
4) Sperano ora che l'intelligenza degli uomini riporti la pace in
tutta i territori della Jugoslavia, e che la loro tragedia non si
ripeta mai più.

http://www.lernesto.it/5-00/Kneipp-9i.htm