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Il 'che fare?' dei comunisti contro la guerra

Intervista a Domenico Losurdo

Nel tuo articolo su "L'Ernesto", per il centesimo anniversario del
Che fare?, richiami l'attenzione su un'importante lezione di
Lenin: un progetto autenticamente rivoluzionario presuppone la
comprensione e la capacità di utilizzazione di ogni
contraddizione e persino di ogni "incrinatura" nel campo
nemico. E' un'indicazione ancora oggi attuale?

Ancor prima di Lenin, è già Marx a farsi beffe della visione del mondo
che vorrebbe contrapporre la "classe operaia" ad un'unica e
indifferenziata "massa reazionaria". Sembrerebbe una visione del
mondo assai radicale: i suoi sostenitori si atteggiano a rivoluzionari
inflessibili che combattono con lo stesso rigore ogni frazione e ogni
settore delle classi sfruttatrici. In realtà - fa notare la Critica
del programma di Gotha -, questa notte in cui tutte le vacche sono
nere consente a Lassalle e ai suoi seguaci di praticare e giustificare
patteggiamenti coi settori più reazionari delle classi sfruttatrici, e
cioè coi ceti feudali e con l'assolutismo monarchico. Ai giorni nostri
Hardt e Negri contrappongono la "moltitudine" ad un Impero planetario
unificato. E, di nuovo, la notte in cui tutte le vacche sono nere
consente operazioni che più difficilmente potrebbero essere compiute
alla luce del giorno. In teoria, la "moltitudine" è chiamata a
rovesciare l'"Impero" nel suo complesso; in realtà, il bersaglio
principale della polemica di Hardt e Negri sono "gli ultimi
sciovinisti della nazionalità", e cioè coloro che si ostinano a
difendere la sovranità nazionale contro la pretesa di interventismo
universale di Washington.
Non a caso, a suo tempo, Hardt ha giustificato la guerra contro la
Jugoslavia: "Dobbiamo riconoscere che questa non è un'azione
dell'imperialismo americano. E' in effetti un'operazione
internazionale (o, per la verità, sovranazionale). Ed i suoi obiettivi
non sono guidati dai limitati interessi nazionali degli Stati Uniti:
essa è effettivamente finalizzata a tutelare i diritti umani (o, per
la verità, la vita umana)" ("Il manifesto" del 15 maggio 1999).
Indipendentemente peraltro da questa o quella presa di posizione,
Impero è una chiara apologia degli USA.

Fra le tante critiche che sono state rivolte a Hardt e Negri, questa
è la critica o meglio l'accusa più pesante. E' realmente
giustificata?

Ai giorni nostri, autorevoli studiosi statunitensi di orientamento
liberal descrivono la storia del loro paese come la storia di una
Herrenvolk democracy, cioè di una democrazia che vale solo per il
"popolo dei signori" (per usare il linguaggio caro poi a Hitler) e
che, per un altro verso, non esita a schiavizzare i neri e a
cancellare i pellerossa dalla faccia della terra. Hardt e Negri,
invece, parlano sempre in tono compunto di una "democrazia americana"
che rompe con la visione "trascendente" del potere, propria della
tradizione europea. Né l'apologia si ferma qui. Prendiamo una figura
centrale della storia dell'imperialismo americano, e cioè Wilson. Nel
momento in cui egli inizia la sua carriera politica il Sud, da cui
proviene, vede lo scatenarsi delle squadracce del Ku Klux Klan contro
i neri: i linciaggi, spesso dopo torture prolungate e feroci,
diventano uno spettacolo di massa, che è preannunciato sui giornali
locali e al quale assistono anche donne e bambini. Ma il futuro
presidente degli USA prende la parola, con un articolo dell'Atlantic
Monthly del gennaio 1901, per pronunciare una requisitoria contro le
vittime: i neri, anzi i "negri" - come sprezzantemente vengono
chiamati - sono "eccitati da una libertà che non comprendono", sono
"insolenti e aggressivi, sfaticati e avidi di piaceri"! A questa
piattaforma ideologica e politica Wilson rimarrà sempre fedele.
Divenuto presidente, mentre intensifica gli interventi militari in
America Latina, dopo essersi fatto eleggere promettendo che avrebbe
impedito il coinvolgimento del popolo americano nel massacro in atto
in Europa, interviene nella prima guerra mondiale in nome della
missione democratica universale degli Stati Uniti e stronca con pugno
di ferro ogni tentativo di propaganda pacifista. Così esaltata è
l'idea di missione e di primato degli USA, che la guerra da essi
condotta si configura letteralmente come una "crociata", come una
"guerra santa": a questo punto, i dissidenti interni, oltre che
traditori, risultano essere degli infedeli o uno strumento di Satana.
Ma ora leggiamo Hardt e Negri: a caratterizzare Wilson è "un'ideologia
pacifista internazionalista", ben lontana dall'"ideologia imperialista
di marca europea"! Da sempre gli ideologi della missione planetaria e
unica degli Stati Uniti insistono sul primato morale e politico degli
americani, sull'eccezione ovvero sull'"eccezionalismo" rappresentato
da un paese, che è l'unica isola di libertà in uno sconfinato oceano
di dispotismo: questo è il punto di vista anche di Hardt e Negri.

Ma, allora, come spiegare il successo del loro libro a sinistra?

Per la verità, il loro successo è stato in primo luogo consacrato da
giornali quali The New York Times e Time. Per quanto riguarda la
sinistra, si può fare una riflessione: negli ultimissimi anni, in
Italia, i libri che hanno suscitato maggior attenzione e entusiasmo
sono Oltre il Novecento (di Marco Revelli) e, ora, Impero. I due libri
si completano a vicenda: il primo liquida la storia iniziata con la
conquista del potere da parte dei bolscevichi come una storia
criminale; il secondo celebra la storia degli Stati Uniti come storia
della libertà. Lo dico senza gridare allo scandalo: dopo la sconfitta
strategica da essi subita, i comunisti devono percorrere una strada
lunga e tortuosa prima di potersi scrollare di dosso la subalternità
rispetto all'ideologia dominante. Se trova la sua espressione più
compiuta nel libro di Hardt e Negri, la teoria dell'unica "massa
reazionaria" fa sentire la sua infausta presenza ben al di là della
cerchia dei loro amici e dei loro fedeli. Anche tra le file di coloro
che realmente si richiamano al marxismo e al leninismo, la lotta
contro l'imperialismo perde la sua efficacia a causa di una diffusa
visione che vede moltiplicarsi le potenze imperialiste, messe tutte
sullo stesso piano. Si assiste così ad una banalizzazione che confonde
la categoria di imperialismo con la categoria di grande potenza.

Quali distinzioni bisognerebbe operare?

In primo luogo, è necessario non perdere di vista il ruolo peculiare
della Cina, e non solo per il fatto che essa è diretta da un Partito
Comunista: chi non è frastornato dal bombardamento multimediale
dell'ideologia dominante non dovrebbe avere difficoltà a comprendere
che si tratta di un paese impegnato ad uscire definitivamente dal
sottosviluppo e a difendere l'indipendenza nazionale e l'integrità
territoriale. L'imperialismo americano non ha rinunciato ai suoi
progetti di smembramento della Cina. Ma le speranze di poter
conseguire tale obiettivo mediante una sovversione dall'interno, che
pure sembravano assai prossime alla realizzazione nel 1989, ora sono
diventate decisamente più fragili. Ed ecco che gli Stati Uniti
intensificano il loro espansionismo militare, cercando di completare
l'accerchiamento. Il grande paese asiatico però risponde dando
ulteriore impulso al suo sviluppo economico e tecnologico e
rafforzando i suoi rapporti, grazie anche a tale sviluppo, coi paesi
ad esempio del Sud-Est asiatico, che pure sono chiamati, nel progetto
strategico di Washington, a isolare e "contenere" la Cina. Tutto ciò
può sembrare banale e prosaico a quanti sono capaci di entusiasmarsi
per una lotta di emancipazione, solo quando essa è perdente o
condotta in condizioni disperate. Ma a coloro che hanno un minimo di
memoria storica non può sfuggire un elemento fondamentale:
l'odierna politica dei comunisti cinesi ha alle spalle l'esperienza
storica della lotta delle zone rosse per consolidarsi sul piano
economico e politico e rompere l'accerchiamento imposto dalla reazione
interna e dall'imperialismo giapponese. Ma lasciamo pure da parte la
Cina, i paesi che si richiamano al socialismo e il Terzo Mondo nel suo
complesso. Dobbiamo considerare come un'unità indifferenziata
l'Occidente, il mondo capitalistico in quanto tale?

La superpotenza americana non può essere messa sullo stesso piano
neppure delle altre grandi potenze capitalistiche. Diamo uno sguardo
alle modalità con cui oggi si svolge la corsa al riarmo: nel 2003 gli
Stati Uniti spenderanno da soli più dei 15-20 paesi inseguitori messi
assieme. Incolmabile sembrerebbe essere il vantaggio di cui
dispongono gli aspiranti padroni del mondo, i quali, tuttavia,
continuano ad accelerare: solo per il settore della Ricerca e dello
Sviluppo militare Washington destina risorse finanziarie superiori ai
bilanci militari complessivi della Germania e della Gran Bretagna
messi assieme. Per quanto riguarda la NATO, la situazione prima
dell'ultimo allargamento era la seguente: gli USA spendono per la
Difesa quasi il doppio dell'insieme degli altri membri dell'Alleanza.
L'odierna situazione internazionale è in primo luogo caratterizzata
dall'ambizione di una superpotenza di costruire un impero di
dimensioni planetarie. Se tale ambizione incontra il suo principale
ostacolo nel rapido sviluppo di un grande paese asiatico per di più
diretto da un Partito Comunista, essa suscita diffidenza,
preoccupazione e allarme anche nei paesi capitalistici. Ignorare
questo dato di fatto significare fuorviare e condurre in un vicolo
cieco la mobilitazione e la lotta antimperialista.

L'Unione Europea è però una risposta rilevante alla sfida
americana.

Certamente. Epperò, si commette un grave errore quando, a partire dal
tendenziale mutamento dei rapporti di forza sul piano economico tra
Unione Europea e Stati Uniti, si afferma che un processo analogo è
all'orizzonte anche sul piano militare. In realtà, è privo di senso un
confronto tra due grandezze così eterogenee: l'Unione Europea non è
uno Stato! Da che parte si schiererebbe l'Inghilterra nella
fantomatica ipotesi di un conflitto tra le due rive dell'Atlantico? E
da che parte si schiererebbe l'Italia di Berlusconi? E riuscirebbe a
sopravvivere l'odierno, malfermo, asse franco-tedesco all'eventuale
ritorno al potere in Germania dei democristiani e in Francia di un
partito socialista dai forti legami con Israele? In questo come in
altri casi l'economicismo si rivela fuorviante. Ai dati già riportati
precedentemente ne aggiungo un altro che desumo da un autorevole
storico statunitense (Paul Kennedy): "Tutte le altre Marine del mondo
messe insieme non potrebbero minimamente intaccare la supremazia
militare americana". E non si dimentichi che lo strapotere navale,
sommato al controllo delle aree più ricche di petrolio e di gas
naturale, dà agli USA la possibilità di tagliare le vie di
rifornimento energetico ai potenziali nemici. Ciò costituisce un
motivo di ulteriore debolezza per i paesi europei e, in misura ancora
maggiore, per il Giappone. Una conclusione s'impone: gli Stati Uniti
sono in grado di stritolare anche i loro "alleati" e, in caso di
necessità, non esiteranno a farlo. Ancora una volta, è da questo dato
di fondo che i comunisti devono prendere le mosse se vogliono
analizzare e contrastare adeguatamente l'imperialismo.

Sì, torniamo al punto di partenza. In che modo è possibile oggi
attualizzare l'insegnamento di Lenin, secondo cui si è
rivoluzionari nella misura in cui si è capaci di individuare e
utilizzare le contraddizioni e le incrinature esistenti nel campo
nemico?

Oltre che da Lenin (e da Marx), dobbiamo saper imparare dalla storia
del movimento comunista nel suo complesso. A suo tempo, esso ha
pagato a caro prezzo il ritardo con cui ha imparato a distinguere tra
nazifascismo da un lato e normali regimi borghesi dall'altro. Nel suo
memorabile rapporto al VII Congresso dell'Internazionale Comunista,
Dimitrov definisce il fascismo come "la dittatura terroristica aperta
degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del
capitale finanziario", come "lo sciovinismo e la guerra di conquista
più sfrenati". Più sfrenato che mai, lo sciovinismo di Washington ha
oggi di mira il mondo intero, come risulta immediatamente non solo sul
piano diplomatico-militare (l'invio di truppe e l'installazione di
basi militari in tutto il mondo), ma anche sul piano ideologico. Diamo
la parola a Clinton: l'America "deve continuare a guidare il mondo";
"la nostra missione è senza tempo". E ora ascoltiamo Bush jr.: "La
nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere
un modello per il mondo". Nell'analisi di Dimitrov, oltre lo
sciovinismo a caratterizzare il fascismo è anche "la dittatura
terroristica aperta".
Mentre sul piano interno scatenano la caccia all'arabo e all'islamico,
gli Stati Uniti, imitando Israele, non esitano a condannare a morte
senza processo, ogni individuo sospettato di "terrorismo" e, in
realtà, di resistenza al reale terrorismo di Stato statunitense e
israeliano. Lo squadrismo nazifascista dei giorni nostri imperversa
non coi manganelli, i pugnali e le pistole, ma in modo più micidiale e
più vile, lanciando missili da aerei e da elicotteri, senza curarsi
troppo delle vittime "collaterali". Soprattutto, gli Stati Uniti si
riservano il diritto di colpire col loro mostruoso potenziale militare
ogni paese ribelle e di assassinare o "processare" i loro dirigenti
politici; non esitano neppure ad agitare la minaccia del primo colpo
nucleare. "La dittatura terroristica aperta" ha ormai assunto
dimensioni planetarie.
Naturalmente, non bisogna dimenticare che la storia non è mai la
ripetizione dell'identico; ma se c'è qualcosa che oggi rassomiglia al
nazifascismo, questo è l'asse che unisce Bush e Sharon: nel governo e
nello schieramento del primo ministro israeliano non mancano coloro
che professano un esplicito e odioso razzismo antiarabo e che esigono
la deportazione dei palestinesi. E' questo asse che bisogna in primo
luogo isolare e denunciare.

Ma quale atteggiamento, allora, i comunisti, devono assumere nei
confronti dei governi borghesi europei?

Non c'è dubbio che non possiamo rinunciare alla critica, alla denuncia
e alla lotta nei confronti dell'ideologia e del potere dominanti. Ma,
ancora una volta, dobbiamo sapere distinguere. Berlusconi e Prodi
sono equipollenti? I dirigenti e il popolo palestinese certamente non
sottoscriverebbero questa assimilazione. In Germania, abbiamo da un
lato Stoiber che punta il dito contro Schroeder, colpevole di non
appiattirsi completamente sulla politica di provocazione e di guerra
di Washington; dall'altro abbiamo non solo Schroeder, ma, soprattutto
l'ex-cancelliere Schmidt che condanna come "unilateralista" e
"imperialista" la politica statunitense. Qual è lo schieramento più
pericoloso e più succube nei confronti dell'asse imperialista di Bush
e Sharon? A suo tempo, al momento dello scoppio della guerra fredda,
Stalin ha chiamato i partiti comunisti dell'Europa occidentale a
"risollevare" la "bandiera dell'indipendenza nazionale e della
sovranità nazionale [...] gettata a mare" dai governanti borghesi.
Questi, cioè, venivano soprattutto criticati non già in quanto
imperialisti in prima persona ma in quanto succubi dell'imperialismo
americano. Ai giorni nostri, appoggiando la guerra contro l'Irak, i
governanti europei possono sì sperare di partecipare alla spartizione
del ricco bottino petrolifero di quel paese. Per un altro verso, però,
rafforzando il controllo militare statunitense sulle risorse
energetiche da cui dipende l'economia dell'Europa, finiscono con lo
stringere ulteriormente il cappio che Washington ha già predisposto al
collo dei suoi "alleati" europei e giapponesi. Di ciò non si preoccupa
un personaggio come Berlusconi, la cui massima aspirazione è di
diventare un Quisling coccolato e protetto dalla superpotenza
americana; ma di ciò chiaramente si preoccupano statisti come Schmidt.
Disagio e allarme per la guerra infinita che si profila all'orizzonte
esprime anche la Chiesa cattolica, e non solo per ragioni religiose e
ideologiche, della cui sincerità, peraltro, non c'è motivo per
dubitare. C'è un'ulteriore motivazione. La politica di provocazione e
di guerra degli Stati Uniti e di Israele non può non provocare nel
Medio Oriente e nel Terzo Mondo una gigantesca contro-ondata islamica
e antioccidentale, dalla quale i cattolici rischiano di essere
travolti. Si diffonde la coscienza della gravità dell'odierna
situazione internazionale: mentre devono preoccuparsi di mantenere una
rigorosa autonomia ad ogni livello, i comunisti devono saper costruire
un fronte anti-imperialista il più ampio possibile. Se i teorici
dell'unica e indifferenziata "massa reazionaria" finiscono
inconsapevolmente al rimorchio della superpotenza che oggi incarna il
più sfrenato sciovinismo e il più brutale terrorismo di Stato, i
comunisti, enunciando con chiarezza e alla luce del sole le
distinzioni che s'impongono, devono impegnarsi in primo luogo per
smascherare e contrastare il nemico principale.

(tratto da "Aginform" Numero 31, gennaio 2003)