NOTA: L'articolo che segue e' stato distribuito in internet su liste
pubbliche e ci e' stato forwardato da iscritti a JUGOINFO.
L'autrice, Maria Lina Veca, collabora con il quotidiano di estrema
destra "Rinascita Nazionale".
Abbiamo gia' avuto occasione di sottolineare la nostra sorpresa e la
nostra sfiducia per le "attenzioni" che settori della estrema destra
italiana sembrano nutrire verso la "causa serba": attenzioni che sono
in contraddizione sia con le posizioni della destra europea nel suo
complesso, sia con la Storia, cioe' con gli atti compiuti dal
nazifascismo nei Balcani. Cercheremo di tornare prima possibile su
questo punto con un nostro commento in proposito.
Riteniamo tuttavia necessaria la diffusione di questo reportage di
Maria Lina Veca, poiche' si tratta di una documentazione rara in
lingua italiana sulla situazione attuale in Kosovo, in un contesto in
cui i giornalisti specializzati si dimostrano privi del coraggio
intellettuale necessario a raccontare i fatti. Tra l'altro, la Veca
per il suo lavoro si e' avvalsa e si avvale della collaborazione dei
servizi della intelligence militare italiana, e non ne fa mistero: e'
lei stessa a scrivere che i Carabinieri l'hanno accompagnata ed
aiutata, come si puo' leggere sotto.
Una documentazione, percio', piu' che rara: unica. CNJ


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TRE STORIE DI "NORMALE", QUOTIDIANO,
INFINITO, ORRORE.

DAL KOSOVO, GENNAIO 2003.



di Maria Lina Veca

CERNICA

Arrivo a Cernica in un pomeriggio di
neve e ghiaccio.

All'ingresso di questo paese, che ha
visto i combattimenti più cruenti e
tanti episodi di odio e crudeltà, un
segnale inquietante: un grande
monumento all'UCK, in costruzione.

E' già ultimata la scalinata di marmo,
e in cima ci sarà la stele nera, a
ricordo dei "combattenti" terroristi
del sedicente "esercito di liberazione
del Kosovo".

Si entra in paese, e sulla sinistra
fervono i lavori per la grande Moschea,
più avanti la nuova scuola del
villaggio, una costruzione moderna e
rifinita.

Peccato che sia aperta soltanto per i
bambini albanesi, e chiusa alla
frequentazione delle minoranze
non-albanesi. Peccato anche che nella stanza
del Direttore didattico della scuola,
un insegnante albanese, troneggino le
foto dei "martiri" dell'UCK e anche il
calendario dei "combattenti"
estremisti albanesi: tutti ovviamente
completi di divisa e Kalashnikov.

Molto educativo per i bambini e molto
appropriato alla costruzione di un
futuro di pace e di convivenza...

Con il Land-Rover dei Carabinieri
proseguiamo ancora ed entriamo nella
zona più povera, quella dei sopravvissuti
serbi. Qui la scuola è molto diversa
dall'altra: in realtà non è neanche una
scuola, è una stalla, appena
"mascherata" da una mano di vernice.
Dentro ci sono tre piccole stanze,
qualche seggiolina scompagnata, dei
vecchi banchi di legno, una lavagna, una
stufa a carbone. Questa è la scuola dei
bimbi serbi. Il Direttore non ha
foto di "eroi" combattenti nel suo
ufficio: ha soltanto il ricordo del
figlio di quattro anni, ucciso
nell'estate del 1999 da terroristi
albanesi.
Gli spararono alla testa, il suo
cervello si sparse sul muro della casa.
Era un bambino di quattro anni. Morente,
fu raccolto da un soldato americano
(erano gli americani di KFOR a
controllare la zona). Spirò fra le braccia
di quel giovane americano. Il soldato
sembrava impazzito dal dolore, cominciò
a piangere disperato. Poi tirò fuori la
pistola e la mise alla testa del suo
tenente, gridando: "Guarda cosa fanno
gli albanesi, e noi li proteggiamo..."
Fu subito rimpatriato.

STRPCE

Strpce, nella valle del Tetovo, verso
la Macedonia: una vallata inondata di
sole, la neve immacolata e lo sfondo
delle montagne...da cartolina.

Arriviamo a Strepce (con l'interprete
serbo e i carabinieri di M.S.U.) per
parlare con due ragazze di Urosevac,
Ivana e Jasmina.

La loro è una delle tante storie che
hanno dato vita alle controverse
statistiche sulla realtà delle "missing
persons".

"Missing", scomparsi, svaniti nel
nulla: quante persone, soprattutto nei
mesi immediatamente dopo la "fine"
della guerra (giugno/ottobre 1999) si
sono dissolti nel nulla, prelevati per
le strade, nei posti di lavoro, nelle
case, traditi da amici e vicini,
dimenticati da tutti, dalle autorità
che dovevano indagare...vivi solo nel
ricordo di chi li ha amati, padri,
madri, fratelli, mariti, figli.

Scomparsi. Missing. Svaniti.

Questa è la storia di Ivana e Jasmina,
una storia come tante: due ragazze
che hanno perso il padre il 28
settembre 1999. Entrato nella scuola
dove lavorava come Direttore, accompagnato
fino all'entrata dalla scorta di KFOR,
non è mai uscito.

Svanito nel nulla.

Le due figlie vivono ora a Strpce,
lavorano come interpreti per gli
americani.

Ci incontriamo dentro il Comune di
Strpce, ma è difficile avere un po' di
privacy con gli ufficiali americani che
entrano continuamente nella
stanza...così andiamo a parlare in un
ristorante serbo, con i carabinieri e
l'interprete.

Ivana e Jasmina sono belle e giovani,
all'inizio sembrano controllate, quasi
distaccate, mentre ripetono per
l'ennesima volta il racconto di quel
giorno che ha cambiato la loro vita.

Poi gli occhi si riempiono di
lacrime...rivelano la disperazione di due
ragazze che hanno perso il padre senza
un perchè, senza un motivo, senza un
indizio, e che continuano ad attenderlo
e cercarlo oltre ogni ragionevole
speranza...

E raccontano ancora una volta: quel
giorno, il 28 settembre, il padre - si
chiamava Paun Zivkovic, era nato il 26
novembre del 1947, nel villaggio di
Crotovusa, nella municipalità di Strpce
- chiese alla scorta di KFOR (erano
polacchi) di accompagnarlo nel suo
ufficio, nella scuola superiore di
Urosevac della quale era Direttore, per
prendere alcuni documenti.

Entrò nella scuola, scortato fino
all'ingresso dai soldati polacchi.

Fu lasciato solo con gli albanesi che
erano nella scuola, ma lui stesso non
considerò questa situazione come
pericolosa.

Conosceva tutti, erano suoi colleghi.

Doveva uscire fuori in mezz'ora e la
scorta doveva tornare a prenderlo.

Non uscì mai.

Nessuno vide nulla, nessuno si accorse
di nulla.

Furono arrestate due persone,
trattenute per un mese, accusate di
falsa testimonianza, poi rilasciate.

Furono interpellate dalla famiglia
tutte le autorità possibili: KFOR, il
comandante di KFOR, UNMIK Police, il
Generale che comandava la Brigata
tedesca, l'unità che riguarda proprio
"Missing Persons" di UNMIK, "Central
Criminal Investigations Unit", "War
Crimes", ecc...Sigle roboanti, nomi
altisonanti, che nascondono il vuoto...

Niente, nessuno ha mai dato una
risposta sulla sorte di Zivkovic.

"Noi abbiamo difficoltà anche a
muoverci liberamente - dice Jasmina - non
possiamo andare da nessuna parte senza
scorta, così indagare da sole è
troppo difficile... abbiamo anche
difficoltà di rimanere in contatto con
le famiglie degli altri scomparsi.
Pensiamo a Marko Stojanovic, a Ivan
Andjelkovic, a Zivojin Andjelkovic, a
Vlastinir Zivkovic, tutti scomparsi...

Nel caso di nostro padre, ci sono
decine di testimoni oculari che erano
nella scuola quel giorno, studenti,
professori, ma nessuno parla. Qualcuno
ci ha detto che nostro padre è stato
preso per fare uno scambio con qualche
albanese detenuto in Serbia.

Abbiamo chiesto a tutti gli albanesi
che lavorano nella scuola, ai nostri
vicini: tutti rispondevano di non poter
parlare, per paura dell'UCK.

E quelli che erano dentro la scuola
quel giorno, erano anche nostri vicini
di casa...Forse dovremmo cercare dentro
i cimiteri di KFOR, a Dardanje, fra
i morti nei sacchi della KFOR,
centinaia di morti senza nome." E Ivana
aggiunge: "Tante persone sono sparite,
tante sono state uccise. Nostro zio è
stato ucciso nel luglio del 1999,
fermato in mezzo alla strada e ucciso da
tre estremisti albanesi. Una signora di
Strpce è quasi impazzita, lei ha
perso il figlio, un ragazzo appena
sposato, con una bimba di tre anni. Le
hanno rapito anche il marito e il
cognato. Scomparsi, nel nulla. Tutti
sapevano dove erano le prigioni
dell'UCK, tutti sapevano che le persone
rapite venivano portate lì, ma nesssuno
ha fatto nulla. Noi pensiamo che le
stesse persone che erano nell'ufficio
di nostro padre, suoi colleghi, hanno
avvertito l'UCK perchè venissero a
prendere nostro padre. Uno di loro, Agim
Redzepi, è stato anche Direttore della
scuola, e adesso dovrebbe lavorare in
"Radio Free Europe", a Pristina. Gli
altri due, Fadil Sejdiun e Selman
Sulejamani, erano anche loro nella
stanza quando nostro padre fu rapito:
anche loro hanno dato versioni
contrastanti...stavano bevendo il té in
un'altra stanza, sono entrati uomini
mascherati, sono entrati a volto
scoperto con le pistole...menzogne,
menzogne, omertà. E i criminali adesso
siedono nei posti di governo, sono
diventati leaders politici...

I soldati polacchi di KFOR, che quel
giorno fecero la scorta a nostro padre,
sono stati mandati a casa. Con loro
c'era un interprete albanese.

Dentro la base polacca non ci lasciano
neanche entrare.

Quando videro che nostro padre era
scomparso, i polacchi chiamarono gli
americani di KFOR. Nostro padre fu
rapito fra mezzogiorno e l'una. Loro
arrivarono verso le due, e invece di
cercare dentro la scuola, cercarono nei
dintorni. Ci avvertirono verso le otto
di sera, così venimmo a sapere che
nostro padre era svanito nel nulla.

E' chiaro che il rapimento di nostro
padre non è stato casuale, è stato un
crimine organizzato, ha avuto complici
nella scuola. Abbiamo offerto soldi,
la nostra stessa casa, per sapere
qualcosa. Niente."

KURCE

La madre di Dragan Ristic è anziana,
vestita di scuro, ha un fazzoletto in
testa e tiene in braccio una bimba che
sorride, la sua nipotina.

Ci riceve nella sua casa, nel villaggio
di Kurce, vicino Gnjlane. Ha gli
occhi vivi e mobili, il viso nobile e
ancora bello, una voce ferma e dolce,
che ogni tanto si spezza, mentre
racconta un'altra storia di ordinario
orrore.

Suo figlio è scomparso il 22 giugno del
1999.

Era nato il 16 marzo del 1963, a
Gnjlane ed era un ingegnere elettronico.

E' stato rapito a Gnjlane, davanti alla
fabbrica nella quale ricopriva un
ruolo dirigenziale.

Fino alla guerra. Fino a quando, il 9
giugno 1999, la cosiddetta "pace" e
l'ingresso delle forze multinazionali
di KFOR non lasciarono via libera alla
violenza selvaggia dell'estremismo
albanese.

Dragan aveva un figlio di 11 mesi, e
una moglie.

Ora loro stanno in Serbia, e la moglie
impedisce alla nonna di vedere il bimbo.

C'è una foto di Dragan sul televisore.

"Quella foto non posso dartela - dice
l'anziana donna - avevo tante foto di
mio figlio, sono venute tante persone,
ognuno ha portato via una sua foto,
questa è l'ultima che mi rimane. Hanno
chiesto le foto per cercarlo, ma
nessuno ha fatto niente. Ora non ho più
né le fotografie né mio figlio."

La storia comincia il 21 giugno 1999.

"Quando iniziò la guerra - racconta la
madre di Dragan - mio figlio portò la
famiglia in Serbia, sua moglie aveva
paura. Ma lui volle tornare qui, in
Kosovo, nel suo villaggio. Non voleva
abbandonare la sua terra, la sua casa,
a Gnjlane. Quel 21 giugno voleva andare
a vedere la casa e poi passare in
fabbrica.

Mi ha salutato, qui sulla porta, e io
non l'ho fermato...non so perchè. Non
ho sentito nessun pericolo, nessun
presentimento.

A Gnjlane fu bloccato da una macchina
bianca, con quattro uomini, dicevano
di essere della polizia militare. Lo
hanno perquisito, lui li ha lasciati
fare, ha detto che non aveva niente da
nascondere. Lo hanno lasciato andare.
Dragan mi ha telefonato dopo
quest'episodio, ha detto di stare
tranquilla.
Alla sera mi ha chiamato ancora, voleva
dormire a casa sua, a Gnjlane.

Al mattino dopo, verso le 10, gli ho
telefonato, stava per fare una doccia,
non trovava gli asciugamani...poi
voleva andare alla fabbrica.

Gli ho detto: "Non andare da solo,
trova qualcuno che ti accompagni!" Lui
mi ha tranquillizzato. E' l'ultima
volta che ho sentito mio figlio.

E' arrivata la sera, ho provato a
chiamarlo a casa. Niente.

Ho chiamato una vicina. Non l'aveva
visto.

Allora ho chiamato la polizia, mi hanno
detto di rimanere a casa, avrebbero
pensato loro a trovarlo. Dopo un'ora mi
hanno richiamato dicendo che era
stato arrestato il giorno prima.

Non è possibile, ho detto, ho parlato
con lui stamattina...si trattava di un
errore di persona.

Il mattino dopo, il 23 giugno, l'altro
mio figlio è andato fino alla
fabbrica: sono usciti fuori quelli
dell'UCK, che si trovavano all'interno
dell'edificio. Hanno detto: l'abbiamo
arrestato noi, lo teniamo ancora per
un giorno...fino a domattina alle 10'.
Ma il giorno dopo, lui non è tornato.
Abbiamo avvertito i militari della KFOR
che l'UCK aveva rapito Dragan.

Tutto il villaggio di Kusce, circa 200
persone, è venuto con noi a Gnjlane,
davanti al Comune. Quelli di KFOR
volevano evitare incidenti, hanno
mandato fuori un'interprete che ci ha
rassicurati, ha detto che la KFOR avrebbe
liberato Dragan, l'avrebbe riportato da
sua madre. Ha aggiunto che sarebbero
andati a controllare in due prigioni
dell'UCK, una è KORETIN, vicino
Kamenica, l'altra è INTERNAT (un
ex-convitto) a Gnjlane... abbiamo
aspettato, sono tornati quelli di KFOR, ci
hanno detto di non averlo trovato. Hanno
riportato tutti a Kusce, con una scorta
enorme, per evitare incidenti.

L'altro mio figlio è rimasto nella sede
di KFOR, a Gnjlane.

Si è presentato un ufficiale americano.
Parlava in serbo, ha chiesto una
descrizione di Dragan, ha detto: 'Non
ti preoccupare, tuo fratello è in
INTERNAT, lo liberiamo
sicuramente'...il giorno dopo ho
portato una foto di
mio figlio in Comune, è venuto di nuovo
questo militare americano, mi ha
detto: 'Stai tranquilla, fra qualche
giorno lo liberiamo, è in INTERNAT..."

L'americano mi ha abbracciato e
piangeva.

Allora anch'io ho pianto e gli ho
detto: 'Io avevo due figli, se mi aiuti,
se mi fai ritrovare Dragan, da domani
avrò tre figli...tu sarai il mio terzo
figlio'.

Poi sono andata nell'appartamento di
Gnjlane: era tutto a soqquadro, quasi
tutto era stato portato via, mobili,
sanitari... Quel poco che era rimasto,
era già imballato per essere portato
via...ho chiesto ad una vicina albanese
di farmi nascondere quel poco che si
era salvato nel suo appartamento: ha
rifiutato, ha detto che aveva troppa
paura, non poteva aiutarmi.

Arrivarono gli americani, quel solito
ufficiale, con venti uomini... l'ufficiale
disse: 'Noi sappiamo tutto, possiamo
liberarlo, ma non possiamo agire, non
abbiamo ricevuto l'ordine di farlo...'.

Tempo dopo, tramite un albanese che
abita a Draganac, si chiama Ahmet
Kadriu, abbiamo saputo che Dragan era
stato ferito mentre cercava di fuggire
da una prigione dell'UCK, che era
prigioniero e costretto a lavorare
nella centrale elettrica di Obilic.

Quest'albanese diceva di essere stato
presente mentre mio figlio veniva
portato via, davanti alla fabbrica.
Mentre cercavano di rapirlo, lui gridava
e chiedeva "Perchè?", e si dibatteva.
Allora gli hanno legato le mani, e
soltanto a quel punto sono riusciti a
metterlo dentro la macchina.

Questo Kadriu mi ha dato un
appuntamento, ha detto: 'Troverò tuo
figlio, è in Albania. Ma voglio 10.000
marchi...'

Qualche giorno dopo ci ha avvertiti:
'Lo portiamo a Skopje, alla stazione
dei pullmans...ma ora voglio 60.000
marchi...'

Siamo andati a Skopje, ma di mio figlio
non c'era traccia.

Ho detto all'albanese che gli avrei
dato tutti i soldi che voleva, ma solo
dopo aver visto mio figlio. Lui ha
risposto: 'Non sono solo io che
decido... tu devi dare i soldi un mese
prima... comunque tuo figlio è in
Albania, sarà processato'.

Mi ha confermato che era stato ferito
mentre cercava di scappare da Obilic,
insieme ad un altro serbo di Kosovo Polje.

Da quel momento, era gennaio del 2001,
più niente.

Né KFOR, né Croce Rossa, né UNMIK...
nessuno ci ha dato una risposta, una
qualsiasi risposta. E tutti sanno.

E il TMK - che è sempre UCK - sta
ancora dentro alla fabbrica...

Qui, nel paese, c'è stato un altro
rapimento, un funzionario serbo
dell'azienda dell'acqua di Gnilane. Gli
albanesi che lavoravano con lui sono
stati complici del suo sequestro, tutti
lo sanno...

Abbiamo avuto decine di contatti con
ufficiali americani, ognuno di loro è
venuto qui, ha mangiato in casa nostra,
poi mi ha abbracciato e ha detto
"Scusa!"

Adesso spero solo di sapere che il
corpo di mio figlio è uno di quelli
ritrovati nelle fosse comuni di serbi
scoperte negli ultimi tempi, come
quella di Brekovac...vorrei almeno un
luogo in cui piangerlo..."