[This text in english:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2494 ]
Quella che segue e' la traduzione di un articolo a firma Neil Clark
apparso sul "New Statesman" del 28 aprile di quest'anno, a proposito
del libro:
"Yugoslavism: histories of a failed idea (1918-1992)"
di Dejan Djokic (editor), Hurst & co., 369 pagine, ISBN 1850656630.
Il 4 febbraio 2003, in modo quasi inavvertito, mentre il resto
dell'attenzione del mondo era puntata sulla questione delle ispezioni
in Iraq, un paese è scomparso dalla carta del mondo.
La dissoluzione finale della Jugoslavia e la sua metamorfosi nella
repubblica di Serbia e Montenegro è passata quasi senza commenti sulla
stampa britannica, e quasi nessuno ne ha notato il profondo
significato. E tuttavia si è trattato di un evento che avrebbe
meritato il compianto di democratici, socialisti e progressisti di
tutto il mondo.
"Jugoslavismo. Storie di una idea fallita" è una raccolta di 21
articoli messi assieme da Dejan Djokic, che vuole esplorare la storia
dell'idea jugoslava - o "Jugoslavismo" - fra la creazione del primo
Stato nel 1918 e lo scioglimento della seconda Federazione jugoslava.
Se il libro contiene diversi punti di vista e prospettive, alcuni temi
ricorrenti possono comunque essere individuati.
Il primo e più importante è la sfida all'idea - che si è perpetuata
lungo la storia della nazione ed è diventata tanto di moda in certi
ambienti occidentali degli anni 90 - che la Jugoslavia sia stata in
qualche modo uno stato artificiale. Come Dennison Rusinow afferma
nell'articolo di apertura, il nucleo dell'idea jugoslava, formulato
dapprima attorno al 1830 specialmente dal movimento Illirico croato,
era che gli slavi del sud, avendo la stessa origine etnica e parlando
varietà della stessa lingua, erano nei fatti potenzialmente una
nazione unica e pertanto dotata del diritto naturale all'indipendenza
ed alla libertà in uno Stato proprio. In sintesi, il paese degli slavi
del sud era assai meno artificiale degli Stati che ne hanno preso il
posto dopo il 1990, così entusiasticamente salutati da antijugoslavi
come Margaret Thatcher.
Al tempo della creazione della Jugoslavia quale regno dei Serbi, dei
Croati e degli Sloveni nel 1918, si erano già manifestati due punti di
vista fondamentali per la costruzione della nazione. Lo "jugoslavismo
integrale" favorito dal re Alessandro, messo in pratica dopo che egli
stesso assunse poteri dittatoriali nel 1929, cercava di costruire una
singola nazione ed un singolo senso di appartenenza nazionale, un
paese dove non ci sarebbero più stati Serbi Croati Sloveni ma solo
Jugoslavi. La pallottola di un assassino macedone pagato da fascisti
croati mise fine nel 1934 a questo "integrazionalismo", e alla vita di
re Alessandro.
Il secondo punto di vista fu lo "jugoslavismo", che, secondo le
parole di Rusinow, "riconosceva e approvava la persistenza di separate
entità nazionali e cercava gli espedienti costituzionali per uno Stato
multinazionale di popoli che condividevano interessi ed aspirazioni".
Questa fu la definizione anticentralista dello jugoslavismo che finì
alla lunga per prevalere nell'ultimo mezzo secolo. Comunque,
continuarono gli sforzi per costruire una comune consapevolezza
nazionale.
Nel suo capitolo sulla cultura jugoslava tra le due guerre, Andrew
Wachtel descrive come lo scrittore Ivo Andric e lo scultore Ivan
Mestrovic evitarono sia lo jugoslavismo sovranazionale sia il
nazionalismo separatista a favore di una cultura "sintetica" jugoslava
in grado di "riunire le esistenti culture tribali in una nuova e
dinamica cultura adatta al nuovo Stato". Negli anni '60 questi
tentativi di formare una comune identità jugoslava parevano aver avuto
successo. I matrimoni misti indicavano che un numero sempre maggiore
di cittadini si facevano registrare nei censimenti come jugoslavi. La
guida di Josip Broz Tito aveva dato al paese un alto profilo
internazionale. Le squadre jugoslave di calcio e pallacanestro
conseguivano notevoli successi internazionali ed erano festeggiate da
Spalato a Sarajevo.
E tuttavia, come afferma Dejan Jovic parlando del comunismo jugoslavo,
proprio quando la questione nazionale sembrava essere stata del tutto
superata presso il grande pubblico, la classe dirigente comunista
decise di riaprire la questione. Jovic correttamente considera la
vittoria dell'anti-statista Kardelj e l'abbandono del concetto di Tito
di "fratellanza e unità", alla fine degli anni '60, quale inizio del
processo di disintegrazione della Jugoslavia. Molti credono che
l'inizio della fine sia stata la morte di Tito nel 1980, ma in realtà
la de-titizzazione era cominciata nel 1974, quando la Costituzione di
Kardelj aveva sottratto alla competenza federale tute le questioni
meno gli esteri, la sicurezza e la difesa, ed aveva deciso che il
potere della Federazione derivava dalle Repubbliche, definite "Stati",
e non viceversa. Da allora, qualsiasi espressione pubblica di
jugoslavismo divenne un attentato a questa nuova concezione, e quindi
quasi un'attività anti-socialista.
Allorquando il debole pro-jugoslavo Slobodan Milosevic venne in primo
piano alla fine degli anni'80 a richiedere la modifica delle riforme
di Kardelj, il danno era già stato fatto. La Costituzione del '74
assicurò che Kucan, Tudjman e Izetbegovic fossero capaci, ad un
fischio dell'Occidente, di dichiarare l'indipendenza dalla Federazione
e gettare l'intera regione in una sanguinosa guerra civile.
Nel capitolo conclusivo, un'"orazione funebre" personale per la
Jugoslavia, Aleksa Djilas afferma che se l'Occidente potesse tornare
indietro all'inizio degli anni Novanta, le cose andrebbero
diversamente. Io non ne sono certo. La distruzione di una nazione
militarmente forte e non allineata, sostituita da una serie di
protettorati deboli della NATO e del FMI, conviene perfettamente a chi
governa il nuovo mondo.
La verità, come lo stesso Djilas riconosce, e' che fin quando e'
esistita l'Unione Sovietica, la Jugoslavia aveva una funzione rispetto
all'Occidente, ma una volta abbattuto il muro di Berlino, essa era
solo d'impaccio.
Quello che è chiaro è che è il popolo jugoslavo, che in gran parte non
desiderava il crollo del proprio Paese, che ha perso alla grande.
Mentre aumentano i problemi economici, la novità dell'indipendenza
statale appare meno interessante alla Slovenia, alla Croazia, alla
Macedonia, mentre Serbia e Montenegro sono in condizioni di emergenza.
Il Kosovo è il primo Stato europeo a gestione mafiosa, mentre i poveri
Bosniaci subiscono l'estrema umiliazione di essere governati da Lord
Ashdown.
Attorno al 1830, la nozione di uno Stato unitario degli Slavi del Sud,
proposto dagli Illirici, era una buona idea. Circa duecento anni dopo,
lo è ancora. La Jugoslavia, secondo Djilas, "rimane la più pratica e
sensibile, la più anti-distruttiva risposta alla questione nazionale
degli Slavi del Sud". Essa è, come affermato da Slobodan Jovanovic
all'epoca dell'attacco delle potenze dell'Asse nel '41, il modo
migliore in cui il popolo balcanico può garantirsi l'indipendenza e
proteggersi dal dominio straniero.
[trad. di T. Bellone, che ringraziamo.
Da una segnalazione di K. Kilibarda]
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2494 ]
Quella che segue e' la traduzione di un articolo a firma Neil Clark
apparso sul "New Statesman" del 28 aprile di quest'anno, a proposito
del libro:
"Yugoslavism: histories of a failed idea (1918-1992)"
di Dejan Djokic (editor), Hurst & co., 369 pagine, ISBN 1850656630.
Il 4 febbraio 2003, in modo quasi inavvertito, mentre il resto
dell'attenzione del mondo era puntata sulla questione delle ispezioni
in Iraq, un paese è scomparso dalla carta del mondo.
La dissoluzione finale della Jugoslavia e la sua metamorfosi nella
repubblica di Serbia e Montenegro è passata quasi senza commenti sulla
stampa britannica, e quasi nessuno ne ha notato il profondo
significato. E tuttavia si è trattato di un evento che avrebbe
meritato il compianto di democratici, socialisti e progressisti di
tutto il mondo.
"Jugoslavismo. Storie di una idea fallita" è una raccolta di 21
articoli messi assieme da Dejan Djokic, che vuole esplorare la storia
dell'idea jugoslava - o "Jugoslavismo" - fra la creazione del primo
Stato nel 1918 e lo scioglimento della seconda Federazione jugoslava.
Se il libro contiene diversi punti di vista e prospettive, alcuni temi
ricorrenti possono comunque essere individuati.
Il primo e più importante è la sfida all'idea - che si è perpetuata
lungo la storia della nazione ed è diventata tanto di moda in certi
ambienti occidentali degli anni 90 - che la Jugoslavia sia stata in
qualche modo uno stato artificiale. Come Dennison Rusinow afferma
nell'articolo di apertura, il nucleo dell'idea jugoslava, formulato
dapprima attorno al 1830 specialmente dal movimento Illirico croato,
era che gli slavi del sud, avendo la stessa origine etnica e parlando
varietà della stessa lingua, erano nei fatti potenzialmente una
nazione unica e pertanto dotata del diritto naturale all'indipendenza
ed alla libertà in uno Stato proprio. In sintesi, il paese degli slavi
del sud era assai meno artificiale degli Stati che ne hanno preso il
posto dopo il 1990, così entusiasticamente salutati da antijugoslavi
come Margaret Thatcher.
Al tempo della creazione della Jugoslavia quale regno dei Serbi, dei
Croati e degli Sloveni nel 1918, si erano già manifestati due punti di
vista fondamentali per la costruzione della nazione. Lo "jugoslavismo
integrale" favorito dal re Alessandro, messo in pratica dopo che egli
stesso assunse poteri dittatoriali nel 1929, cercava di costruire una
singola nazione ed un singolo senso di appartenenza nazionale, un
paese dove non ci sarebbero più stati Serbi Croati Sloveni ma solo
Jugoslavi. La pallottola di un assassino macedone pagato da fascisti
croati mise fine nel 1934 a questo "integrazionalismo", e alla vita di
re Alessandro.
Il secondo punto di vista fu lo "jugoslavismo", che, secondo le
parole di Rusinow, "riconosceva e approvava la persistenza di separate
entità nazionali e cercava gli espedienti costituzionali per uno Stato
multinazionale di popoli che condividevano interessi ed aspirazioni".
Questa fu la definizione anticentralista dello jugoslavismo che finì
alla lunga per prevalere nell'ultimo mezzo secolo. Comunque,
continuarono gli sforzi per costruire una comune consapevolezza
nazionale.
Nel suo capitolo sulla cultura jugoslava tra le due guerre, Andrew
Wachtel descrive come lo scrittore Ivo Andric e lo scultore Ivan
Mestrovic evitarono sia lo jugoslavismo sovranazionale sia il
nazionalismo separatista a favore di una cultura "sintetica" jugoslava
in grado di "riunire le esistenti culture tribali in una nuova e
dinamica cultura adatta al nuovo Stato". Negli anni '60 questi
tentativi di formare una comune identità jugoslava parevano aver avuto
successo. I matrimoni misti indicavano che un numero sempre maggiore
di cittadini si facevano registrare nei censimenti come jugoslavi. La
guida di Josip Broz Tito aveva dato al paese un alto profilo
internazionale. Le squadre jugoslave di calcio e pallacanestro
conseguivano notevoli successi internazionali ed erano festeggiate da
Spalato a Sarajevo.
E tuttavia, come afferma Dejan Jovic parlando del comunismo jugoslavo,
proprio quando la questione nazionale sembrava essere stata del tutto
superata presso il grande pubblico, la classe dirigente comunista
decise di riaprire la questione. Jovic correttamente considera la
vittoria dell'anti-statista Kardelj e l'abbandono del concetto di Tito
di "fratellanza e unità", alla fine degli anni '60, quale inizio del
processo di disintegrazione della Jugoslavia. Molti credono che
l'inizio della fine sia stata la morte di Tito nel 1980, ma in realtà
la de-titizzazione era cominciata nel 1974, quando la Costituzione di
Kardelj aveva sottratto alla competenza federale tute le questioni
meno gli esteri, la sicurezza e la difesa, ed aveva deciso che il
potere della Federazione derivava dalle Repubbliche, definite "Stati",
e non viceversa. Da allora, qualsiasi espressione pubblica di
jugoslavismo divenne un attentato a questa nuova concezione, e quindi
quasi un'attività anti-socialista.
Allorquando il debole pro-jugoslavo Slobodan Milosevic venne in primo
piano alla fine degli anni'80 a richiedere la modifica delle riforme
di Kardelj, il danno era già stato fatto. La Costituzione del '74
assicurò che Kucan, Tudjman e Izetbegovic fossero capaci, ad un
fischio dell'Occidente, di dichiarare l'indipendenza dalla Federazione
e gettare l'intera regione in una sanguinosa guerra civile.
Nel capitolo conclusivo, un'"orazione funebre" personale per la
Jugoslavia, Aleksa Djilas afferma che se l'Occidente potesse tornare
indietro all'inizio degli anni Novanta, le cose andrebbero
diversamente. Io non ne sono certo. La distruzione di una nazione
militarmente forte e non allineata, sostituita da una serie di
protettorati deboli della NATO e del FMI, conviene perfettamente a chi
governa il nuovo mondo.
La verità, come lo stesso Djilas riconosce, e' che fin quando e'
esistita l'Unione Sovietica, la Jugoslavia aveva una funzione rispetto
all'Occidente, ma una volta abbattuto il muro di Berlino, essa era
solo d'impaccio.
Quello che è chiaro è che è il popolo jugoslavo, che in gran parte non
desiderava il crollo del proprio Paese, che ha perso alla grande.
Mentre aumentano i problemi economici, la novità dell'indipendenza
statale appare meno interessante alla Slovenia, alla Croazia, alla
Macedonia, mentre Serbia e Montenegro sono in condizioni di emergenza.
Il Kosovo è il primo Stato europeo a gestione mafiosa, mentre i poveri
Bosniaci subiscono l'estrema umiliazione di essere governati da Lord
Ashdown.
Attorno al 1830, la nozione di uno Stato unitario degli Slavi del Sud,
proposto dagli Illirici, era una buona idea. Circa duecento anni dopo,
lo è ancora. La Jugoslavia, secondo Djilas, "rimane la più pratica e
sensibile, la più anti-distruttiva risposta alla questione nazionale
degli Slavi del Sud". Essa è, come affermato da Slobodan Jovanovic
all'epoca dell'attacco delle potenze dell'Asse nel '41, il modo
migliore in cui il popolo balcanico può garantirsi l'indipendenza e
proteggersi dal dominio straniero.
[trad. di T. Bellone, che ringraziamo.
Da una segnalazione di K. Kilibarda]