Troviamo in internet e diffondiamo, per conoscenza, questo intervento
di C. Bazzocchi e G. Marcon dell'ICS. Esso risale a quasi due anni fa
ma rimane molto attuale, sia perche' nessuno dei nodi qui illustrati e'
stato sciolto nel frattempo, sia perche' esso contiene numerose
informazioni utili.

L'articolo non manca, comunque, di contraddizioni e punti controversi.
- Esso non tratta in nessun punto la problematica della disinformazione
strategica, cioe' dell'utilizzo dei media (occidentali in primis) a
scopi politici e militari. Questa omissione risulterebbe strana, vista
l'ampia documentazione esistente in materia, se non venissero citate
qui come fonti affidabili proprio alcune di quelle che la
disinformazione la praticano costantemente nell'ambito della loro
attivita' professionale (es. Paolo Rumiz di "Repubblica").
- Nell'articolo si stigmatizza l'attitudine occidentale di attribuire
esclusivamente un carattere "etnico" (razziale) alla crisi jugoslava;
tuttavia a questa giusta considerazione non fa seguito una analisi fino
in fondo strutturale dell'atteggiamento criminale dell'Occidente e
delle cause piu' profonde dello squartamento del paese (la geostrategia
nella fase post-Ottantanove).
- La critica perentoria, e doverosa, del "nazionalismo" non si salda,
in questo articolo, ad una sua inquadratura nella prospettiva storica:
non si dice che le forze micronazionaliste sulle quali l'Occidente si
e' appoggiato nei Balcani sono le stesse che persero la Seconda Guerra
Mondiale: non si dice cioe' che le secessioni degli anni Novanta
rappresentano il capovolgimento degli esiti della Guerra di Liberazione
(1941-1945) con la vittoria (militare, politica ed ideologica) dei
neonazisti - ustascia, pan-albanesi, eccetera.
- La stessa critica del "nazionalismo" non ha esito possibile poiche'
omette di affrontare il nodo della Jugoslavia: di quello Stato
ANTInazionalista per definizione, e dei suoi valori costitutivi.

Mancando di far luce su questi aspetti, l'analisi di Bazzocchi e Marcon
risulta alla fine monca, improntata ad una sorta di mero idealismo
("democrazia", " diritti", eccetera), e viziata di rigurgiti
lombrosiani (i "signori della guerra"...). Da una parte, ci
interesserebbe sapere cosa scriverebbero oggi gli autori, rispetto alla
cancellazione formale della Jugoslavia dalla cartine geografiche - un
fatto enorme, del quale attendiamo ancora di leggere un commento
(qualsivoglia!) da sinistra... Dall'altra, dobbiamo registrare con
interesse interventi ancor piu' recenti degli stessi esponenti
dell'ICS, improntati ad un sano spirito critico ed autocritico sul
ruolo perverso dell'"aiuto umanitario", come lo abbiamo visto all'opera
in tutti questi anni nei Balcani... e, purtroppo, anche molto al di la'
dei Balcani.

Italo Slavo


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http://www.lostraniero.net/febbr02/marcon.html


Dopo dieci anni di guerre jugoslave

di Claudio Bazzocchi e Giulio Marcon


Sono passati dieci anni dalla prima guerra jugoslava (il
conflitto tra la Slovenia e la Federazione Jugoslava nel
luglio 1991) e negli ultimi mesi sono comparsi i primi
bilanci storiografici di un decennio1 che ha visto per la
prima volta, dopo il 1945 l’Europa colpita da una guerra
lunga e feroce, costellata da vittime innocenti, pulizia etnica,
devastazioni umanitarie. Impotenza e ignavia,
corresponsabilità e complicità hanno caratterizzato
l’atteggiamento e i comportamenti politici dei governi
europei. Fino al ricorso, nel 1999, da parte della Nato,
alla cosiddetta "guerra umanitaria" che ha creato altre
sofferenze, devastazioni, vittime, senza assicurare per questo una
vera stabilità all’Europa sud-orientale. È il bilancio
di una storia ormai conclusa? Pare di no: proprio gli ultimi due
anni trascorsi indicano come siano ancora molte le ferite
da rimarginare, le tensioni non sopite, i conflitti
aperti, gli scontri politici ancora non decisi. I rischi —
nonostante l’uscita di scena dei tre "signori della
guerra": Izetbegovic, Tudjiman e Milosevic — di un ritorno
di guerre, violenze, tensioni, non sono affatto scomparsi.
Il nazionalismo secessionista in Montenegro, la fragile
pace in Macedonia, il fallimento dell’accordo di Dayton in Bosnia,
la precarietà della situazione interna in Serbia (divisioni
politiche del Dos, il raggruppamento che ha sconfitto
Milosevic, insieme alle spinte disgregative di Vojvodina,
Kosovo, Sangiaccato, Valli di Presevo) e l’incertezza
dello status futuro del Kosovo segnalano i nodi di crisi e
le ferite ancora aperte.

Il 2000 è stato un anno di grandi cambiamenti nell’area
balcanica con la caduta di Milosevic in Serbia, la fine
del regime di Tudjman in Croazia e l’uscita di scena del
vecchio Izetbegovic in Bosnia-Erzegovina. I tre leader
nazionalisti della ex-Jugoslavia non ci sono più ma,
nonostante questo, nell’ultimo anno i nodi delle questioni
balcaniche irrisolte sono venuti al pettine, dall’ambiguità
dell’Accordo di Dayton alla questione albanese, a dimostrazione
che il problema dell’instabilità regionale non risiede
tanto nella figura di uno o più leader, quanto nella cultura
politica nazionalistica, che ancora nell’area è lo strumento
delle classi dirigenti per legittimare il proprio potere e, con
esso, gli interessi affaristico-mafiosi. Si può allora
dire che, a dieci anni dall’inizio delle guerre
balcaniche, il processo di disintegrazione della
Jugoslavia è ben lungi dalla sua conclusione, anche perché
non si tratta di un conflitto etnico ma, come ha scritto
lo storico Stefano Bianchini, di uno "scontro prettamente
politico per l’accesso alle risorse, attraverso la ridefinizione
del territorio e le forme di lealtà individuali e di gruppo"2.

Ecco, nel merito, alcuni dei nodi ancora aperti.


Kosovo: quale status futuro?

Un fallimento perfetto, questo il titolo di un articolo
della prestigiosa rivista statunitense "Foreign Affairs",
nell’ottobre del 1999, a proposito della politica
occidentale di pacificazione in Kosovo. Due anni dopo,
tale perentorio giudizio non può che essere confermato:
gli eventi che si sono succeduti sino ad oggi non fanno
che evidenziare le gravi difficoltà seguite alla fine della
guerra nel giugno del 1999. Senza contare gli effetti devastanti che
l’istigazione occidentale del nazionalismo albanese ha avuto
nell’apertura di altre aree di crisi limitrofe come in
Macedonia e in Serbia meridionale.

Nel 1999 chi si è opposto alla guerra della Nato sulla
Federazione Jugoslava ha denunciato il pericolo della
grave instabilità che essa avrebbe creato nell’area,
riaprendo tutti i giochi balcanici oltre gli Accordi di
Dayton. L’indipendenza del Kosovo avrebbe infatti
legittimato le aspirazioni territoriali e politiche delle
leadership nazionaliste dei Balcani, dai croati ai serbi di Bosnia,
dagli albanesi macedoni ai musulmani del Sangiaccato.
Purtroppo quella previsione si è drammaticamente avverata:
la guerra ha aumentato a dismisura l’instabilità regionale
aprendo la ferita macedone e legittimando la feroce
pulizia etnica albanese nei confronti della minoranza
serba e rom in Kosovo. Persino la questione croata in
Erzegovina ha conosciuto punte di ripresa fra il 2000 e il 2001.

A novembre 2001 si sono tenute le elezioni per le
istituzioni dell’autogoverno del Kosovo, in seguito alla
stesura del Constitutional Framework da parte del
Rappresentante Speciale per il Kosovo del Segretario
generale delle Nazioni Unite, che ha stabilito le istituzioni
provvisorie di autogoverno del Kosovo. I poteri della
nuova Assemblea e del governo del Kosovo sono limitati e
non possono decidere sullo status finale del Kosovo. La
gestione dell’Assemblea sarà una prova decisiva (anche per
la possibilità di creare una classe dirigente nazionale)
per la Lega Democratica del Kosovo di Rugova che ha ottenuto
la maggioranza relativa — 47 seggi, dei 120 seggi dell’Assemblea.
Anche i serbi hanno partecipato alle elezioni, seppure non
massicciamente, e buono è stato il risultato della
coalizione serba Povratak (Ritorno), che ha ottenuto l’11%
con 22 seggi. Il Partito Democratico che fa riferimento
all’Uçk ha ottenuto il 25% con 26 seggi, collocandosi
all’opposizione rispetto al partito di Rugova. In ogni
caso la decisione sul futuro assetto del Kosovo (che per ora,
secondo la risoluzione 1244 dell’Onu, è parte integrante
della Repubblica Federale di Jugoslavia) non potrà essere congelata
a lungo, pena il riesplodere delle tensioni e l’irrigidimento
della politica sulla sola questione nazionale. Il Kosovo
ha invece bisogno di partecipazione democratica e di una
classe dirigente all’altezza per risolvere gli esplosivi
problemi sociali ed economici, acuiti dal sistema perverso
degli aiuti umanitari internazionali.


Montenegro: l’incognita nazionalista

Il cambio di scenario politico in Serbia ha indebolito le
aspirazioni indipendentiste di Podgorica, che non può più
utilizzare, di fronte alla comunità internazionale,
l’"argomento Milosevic" a sostegno della secessione. Il
ruolo internazionale del presidente montenegrino
Djukanovic, quale interlocutore unico dell’Occidente, è
così uscito notevolmente ridimensionato dall’ascesa di
Kostunica. Inoltre il separatismo montenegrino è uscito
ulteriormente indebolito dalle elezioni del 22 aprile 2001, in cui
la coalizione di governo ha ottenuto solo il 42% dei voti con
una maggioranza di soli due seggi. Tali risultati rendono
molto difficile per Djukanovic indire il referendum per la
secessione, ora che la comunità internazionale è tesa a
sostenere con grande sforzo il processo di
democratizzazione in Serbia e non intende certo complicare
il nuovo corso politico serbo appoggiando la secessione.
L’uscita del Montenegro dalla Federazione Jugoslava avrebbe conseguenze
molto gravi sulla stabilità del paese e dell’intera area
in quanto investirebbe il Kosovo, il Sangiaccato e la
Vojvodina, a quel punto unica superstite della vecchia
compagine jugoslava.

Ora che Djukanovic non è più l’interlocutore privilegiato
dell’Occidente nell’area in funzione "anti-Milosevic" la
comunità internazionale deve finalmente denunciare il
carattere criminale della sua posizione di potere, fondato
su rapporti strettissimi con le mafie del contrabbando
internazionale. Questo significa avviare programmi di
cooperazione che dal basso, a partire dalla società civile
montenegrina, avviino una riflessione sulla natura della democrazia
in Montenegro, che possa affrancare il paese dalle mafie e da
una classe dirigente corrotta, che continua a usare il
nazionalismo e la secessione come arma propagandistica e
di legittimazione del proprio potere.


La Serbia: la difficile transizione

L’uscita di scena di Milosevic ha aperto una significativa
fase di transizione democratica per la Serbia, anche se
rimangono sul tappeto una serie di fattori di forte
instabilità, di tensione e di scontro che potrebbero
alimentare nuove violenze e guerre. Sul fronte geopolitico,
la questione del futuro status del Kosovo rimane uno dei punti
centrali per la ricomposizione del conflitto
interjugoslavo: la sua "non" soluzione rischia di
prolungarsi per un periodo ancora lungo. Da non
sottovalutare anche alcune spinte secessioniste — guidate dalle
leadership nazionaliste del gruppo etnico maggioritario, quello
ungherese — che periodicamente riaffiorano nella provincia
della Vojvodina. E anche l’accordo di pace raggiunto nel
2001 con la comunità albanese nel sud della Serbia (valli
di Presevo) interessata nel 2000 da una violenta
guerriglia albanese, ha ancora un’applicazione difficile e
stentata. Molte sono le incognite sul campo. Sul fronte
politico l’eterogeneità della coalizione che ha sconfitto
Milosevic (la Dos guidata dal presidente Kostunica, che raggruppa
18 partiti diversi) sta producendo pesanti divisioni e fratture
che potrebbero portare a uno scontro interno di difficile
previsione.

Di fronte ad alcune scelte (la consegna di Milosevic al
tribunale dell’Aja, le leggi sulle privatizzazioni e la
liberalizzazione del mercato del lavoro, la gestione del
rapporto con il Montenegro) le differenziazioni sono state
radicali e incomponibili. L’eventuale secessione del
Montenegro dalla Repubblica Federale di Jugoslavia (al momento meno
probabile di qualche mese fa) può acuire spinte centrifughe
e gravi lotte interne al sistema politico serbo, nonché
produrre un effetto "domino" sulle altre aree a rischio
della Serbia (Sangiaccato e Vojvodina). Da ricordare anche
le incognite derivanti dalla grave situazione economica e
sociale del paese: l’altissima percentuale di
disoccupazione, i bassi livelli produttivi e 700mila
profughi che non sono potuti ritornare nei loro paesi d’origine,
evidenziano i nodi critici di un malessere sociale che può
rapidamente mutarsi in conflitti e nella ripresa di un consenso
intorno al nazionalismo delle vecchie classi dirigenti. È
quello — ad esempio — che è avvenuto, di fronte a
situazioni analoghe, in altri paesi dell’Europa
centro-orientale.


Bosnia e Dayton: la "pace di carta"

Il punto chiave per l’applicazione degli Accordi di
Dayton, siglati alla fine del 1995, è quello del ritorno
dei profughi. A sei anni dalla loro firma si può dire che
il famoso Annesso VII, quello che stabilisce le modalità
del rientro dei profughi, non è stato applicato, tanto da
far dire ai vari analisti internazionali che l’impianto di
Dayton è sostanzialmente fallito.

Alla fine della guerra gli sfollati in Bosnia Erzegovina
erano circa 1.000.000, mentre i profughi — che avevano
abbandonato il Paese — erano 1.300.000. Dai dati ufficiali
disponibili, risulta che gli sfollati presenti oggi in
Bosnia Erzegovina sono ancora 518.000, mentre i profughi
ancora fuori dal Paese sono oltre 900.000. 260.000 sono invece i
profughi presenti in Bosnia Erzegovina. Nel 2000 sono
stati solo 67.000 i rientri di profughi in territori
dominati da un’etnia differente.

Va inoltre considerato che la grande maggioranza dei
profughi rientrati non è tornata nelle proprie case
pre-guerra, ma si è insediata nelle aree dove i propri
gruppi etnici esercitano il controllo militare. Vi sono
quindi molte situazioni in cui i ritornanti hanno occupato
case di persone a loro volta rifugiate. Si moltiplicano così,
anche nei rientri, i casi di occupazione illegale di case e
proprietà.

Le cifre confermano il fallimento di Dayton. Dietro alle
cifre dobbiamo però vedere le politiche della comunità
internazionale in Bosnia-Erzegovina. In questi anni sono
state attuate politiche di ricostruzione e di cooperazione
allo "sviluppo" che non hanno fatto altro che rafforzare
le élite nazionalistiche al potere, che si sono
trasformate in vere e proprie "borghesie compradore". Banca
mondiale e Fondo monetario non hanno risparmiato nemmeno la Bosnia
e hanno imposto un governo colonialista dell’economia, tanto
che, per esempio, il governatore della Banca centrale
bosniaca viene nominato dall’Fmi, secondo quanto decretato
dalla Costituzione bosniaca imposta a Dayton, e non può
essere bosniaco, né di un paese confinante. Non
dimentichiamo che, ancora una volta, i prestiti del Fondo
Monetario servono solamente per rimborsare i vecchi
debiti. In queste condizioni pare ben difficile aspettarsi la nascita
di una classe dirigente e di una società civile autonoma in
grado di creare istituzioni veramente democratiche, che
possano garantire l’applicazione di Dayton. La sconfitta
del Sda (il partito nazionalista musulmano di Izetbegovic)
e la vittoria dei socialdemocratici alle ultime elezioni
politiche hanno aperto naturalmente nuovi spiragli e
aspettative di un cambiamento radicale che però si scontrano
con le resistenze e le difficoltà del quadro geopolitico ed
economico.

In Bosnia rimane tuttora irrisolta la questione croata,
che rende la Federazione croato-musulmana una doppia
entità con amministrazioni parallele. Dal 1995
fortunatamente molte cose sono cambiate. La Croazia ha deciso
di tagliare tutte le sovvenzioni a favore delle strutture parallele
della Erzeg-Bosna. Il tacito accordo fra i due partiti
nazionalisti, Hdz (il partito nazionalista croato) e Sda,
per mantenere il controllo sulle rispettive e separate
economie all’interno dei segmenti croato e bosniaco della
federazione è crollato da quando Hdz e Sda si sono
trasformate in forze d’opposizione. Un’ala moderata
all’interno dell’HdzBih (il partito nazionalista della
componente croata della Bosnia) ha iniziato a collaborare attivamente
con le autorità internazionali all’interno del quadro
federale. Si pensi all’ultimo sindaco di Mostar dell’Hdz,
Neven Tomic, che molto si è speso nell’ultimo anno per
l’effettiva riunificazione della città. Bisogna però dire
che l’Unione Europea e gli Stati Uniti non hanno mai agito
negli anni passati per rompere il rapporto fra il regime nazionalista
di Zagabria e gli estremisti croato-bosniaci, né quindi
hanno mai voluto indagare sui poteri economici e criminali
in Bosnia e a Mostar, sia croati sia musulmani. Solo
nell’aprile 2001 l’Alto Rappresentante ha inviato le
truppe Sfor (la forza multinazionale internazionale
incaricata di far rispettare gli accordi di Dayton) nella
banca in cui stanno3 i conti dei maggiori leader nazionalisti
croati di Mostar e in cui passano tutti i fondi illegali
dell’amministrazione parallela di Mostar a opera dell’Hdz.

L’ultima iniziativa dell’Alto Rappresentante (istituito
dagli accordi di Dayton, per sovrintendere la loro
applicazione) volta a controllare le banche dell’economia
parallela e criminale del nazionalismo croato-bosniaco va
sicuramente nella direzione di tagliare finalmente
l’intreccio criminale fra economia e potere, ma arriva al culmine
di una serie di atti politici contro i partiti nazionalistici,
vere e proprie forzature che hanno favorito la propaganda
del leader nazionalista croato-bosniaco Jelavic, il quale
ha potuto gridare al complotto della comunità
internazionale contro i croati.

L’Ufficio dell’Alto Rappresentante dovrebbe occuparsi solo
degli impegni generali degli Accordi di Dayton, mentre ai
governi occidentali, in particolare all’Unione Europea,
tocca il compito di rafforzare le strutture e le
istituzioni dello stato bosniaco in un quadro di
cooperazione alla pari che non debba sempre vedere gli esponenti della
politica bosniaca come figli minori da seguire e
addirittura forzare, ma come veri e propri rappresentanti
di uno stato sovrano. Non è insomma possibile spendere
tutte le proprie risorse per far vincere le elezioni ai
moderati — per sorprendersi poi se questo non avviene — o
per promulgare decine di leggi senza l’accordo delle forze
politiche in quadro di scarsa sostenibilità democratica.


La Macedonia, il nazionalismo e la questione albanese

In Macedonia, come ha recentemente scritto l’analista
Francesco Strazzari, si scontrano tre progetti di Stato,
che creano i tre lati di un triangolo in cui stanno le
autorità macedoni, gli albanesi insorti e la comunità
internazionale: "Su un lato, le autorità statali,
tradizionalmente controllate dalla maggioranza di lingua
macedone, invocano motivazioni di ordine geopolitico per le quali
solo uno Stato unitario della popolazione di nazionalità
macedone e degli altri cittadini ha possibilità di
esistere. Gli albanesi insorti, sul lato opposto, vedono
la Macedonia stabile solo se collocata sui pilastri dei
due maggiori gruppi etnici che vi vivono — macedoni e
albanesi — tenuti insieme da un patto federativo a base territoriale
che riconosca loro lo status di "nazione costitutiva". Per
contro, gli albanesi di governo smussano i toni, anche a
coprire un passato recente di nazionalismo. Sul terzo
lato, l’opinione prevalente su scala internazionale guarda
alla Macedonia come a un "primogenito" dei Balcani, il cui
padre è il multiculturalismo e la cui madre è la "società
civile". Questa rappresentazione si scontra con una storia
di convivenza che da queste parti non è melting pot (con
l’eccezione degli strati urbani più istruiti) ma piuttosto
giustapposizione, caleidoscopio e mosaico di villaggi e
quartieri cittadini. Questa struttura si regge tradizionalmente
su una complessità di identità sociali, regionali ed
etniche che i progetti nazionalisti albanesi e macedoni puntano a
semplificare, riassorbendole in uno schema di scontro4."

Il violento conflitto della primavera del 2001 fra la
guerriglia albanese dell’Uçk macedone e l’esercito
macedone ha portato agli accordi di Ohrid in agosto, in
cui in sostanza, nonostante le dichiarazioni di principio
in cui si affermano i valori del "civic state", ha consolidato
l’idea di stato per "comparti etnici". La guerriglia
albanese è riuscita nel suo intento forzando una situazione
(fondata, naturalmente, su una oggettiva discriminazione sofferta
dalla componente albanese della Macedonia) che, dopo l’uscita
di scena di Milosevic e la sconfitta elettorale dell’Uçk
in Kosovo nel 2000, la vedeva sconfitta dalla pace e dalla
ripresa delle relazioni fra Macedonia e Jugoslavia.

Negli ultimi anni la pace in Macedonia era stata garantita
da un patto di potere fra il partito nazionalista macedone
(Vmro-Dpmne) e quello albanese (PdSh). I meccanicanismi
della clientela territoriale hanno così caratterizzato il
governo del paese, in cui la dimensione predatoria di
questo accordo di potere polarizzava sempre più il tessuto
sociale del paese, stretto fra interessi criminali, capi-mafia
territoriali e ingenti traffici illeciti fra Serbia
meridionale, Kosovo, Montenegro, Macedonia e Albania del
nord. In questo contesto la ripresa delle guerriglie nel
sud della Serbia e in Macedonia rappresenta un mezzo in
grado di accelerare il corso della politica in quell’area
che "si nutre di interscambiabilità di ruoli, mentre la
polarizzazione diventa palpabile e favorisce le segmentazioni dello
spazio sociale in cui prevale la fiducia ad personam"5 che
riesce a rispondere anche all’insicurezza sociale
provocata dalle riforme strutturali imposte dal Fondo
Monetario Internazionale e dalla devastante crisi
economica.

Il 16 novembre 2001 sono stati approvati gli emendamenti
alla Costituzione macedone decisi dall’Accordo di Ohrid
dell’agosto 2001. Gli emendamenti accolgono le principali
richieste della parte albanese che finalmente può
considerarsi nazione costitutiva e vede riconosciuta, anche
nel testo costituzionale, la possibilità di utilizzare l’albanese
come lingua ufficiale in tutti i distretti in cui gli albanesi
superino il 20% della popolazione6. Nonostante gli
emendamenti costituzionali non possiamo purtroppo dire che
il nodo della questione macedone sia stato risolto. Esso
infatti rimanda all’instabilità di tutta l’area e ai
problemi irrisolti dei paesi vicini, in cui le strutture
mafiose giocano un grande ruolo e rappresentano un pericolo
ben maggiore degli odi ancestrali, se odi ancestrali sono mai esistiti
nei Balcani.


Economie sofferenti: la difficile via allo sviluppo

Una vera ricognizione sui Balcani a dieci anni dall’inizio
delle guerre jugoslave dovrebbe fare il punto sulle reti
di traffici illeciti, sui legami delle élites politiche
con i soggetti criminali e mafiosi. In questo contesto le
dinamiche dell’economia di guerra e delle economie illecite,
assieme all’interazione di queste con le politiche internazionali,
sono fattori imprescindibili della guerra e del
post-conflitto, e informano tutto il processo di
ricostruzione dello stato nelle varie repubbliche sorte
dalla Jugoslavia. In sostanza, l’instabilità nella regione
balcanica non è solo lo strascico dei conflitti appena
conclusi, né l’effetto di quelli ancora irrisolti. Nei
paesi del sud-est Europa è al lavoro un modello sociale
fondato su un mix di nazionalismo e liberismo sfrenato, che ha tolto
qualsiasi spazio alla politica, intesa come partecipazione
collettiva al progetto democratico fondato su un’idea di
cittadinanza laica. Questa mancanza toglie ogni respiro a
quei progetti che nella terminologia tecnica i vari attori
della comunità internazionale sono soliti chiamare di
"democratization". La democratizzazione di una società,
infatti, non dovrebbe essere solo cosa che riguardi i
diritti umani, o la formazione di un personale politico non corrotto.
Democratizzazione nei Balcani dovrà significare radicale
messa in discussione del modello politico ed economico per
ridare spazio alla politica — "civile" e democratica — e
con essa alla partecipazione della cittadinanza.

Nei Balcani si rispecchia anche l’immediato futuro di
tutte le società europee ed il loro rimosso:
flessibilizzazione del lavoro, la deregolamentazione
legale di vaste aree dell’economia e dei rapporti lavorativi,
la perdita di legittimità dello stato, l’aumento della
disoccupazione e della sottoccupazione, l’intervento sempre più
energico delle società multinazionali e l’alto tasso di
violenza e crimine ordinari.

Basterà scorrere i dati macroeconomici dei paesi sorti
dalla dissoluzione jugoslava per capire che non stiamo
assistendo a nessuna transizione.

La disoccupazione è a percentuali altissime: oltre il 40%
in Bosnia e oltre il 30% in Macedonia e Repubblica
Federale di Jugoslavia e quasi il 25% in Croazia. La
Macedonia ha avuto una contrazione del 4% della propria
crescita economica nel corso del 1999. Tra il 1990 e il 1995
il Pil in termini reali si è ridotto di quasi il 30%, il volume
dei traffici commerciali è sceso del 40% e i consumi sono caduti
ad un tasso del 5% annuo. Si calcola che nella Repubblica
Federale di Jugoslavia a causa delle conseguenze della
guerra con la distruzione di infrastrutture e industrie —
saranno necessari 15 anni per ritornare ai livelli
produttivi prebellici. La. Le stime riguardo alla
disoccupazione parlano di 800.000 persone senza lavoro (oltre
il 35% della popolazione attiva) e ben il 60% della popolazione vive
al di sotto della soglia di povertà. Nel ’99 la produzione
industriale è diminuita del 23% e ora continua a essere a
livelli nettamente inferiori a quelli anteguerra. Inoltre
va ricordata la situazione drammatica dei profughi (circa
800.000) che vivono in Frj e che non riescono a tornare
alle loro case in Kosovo, in Bosnia e nelle Krajine. Oggi
la situazione della Croazia, dopo l’avvento del governo
democratico di Racan (gennaio 2000), sembra sulla via
della lenta ripresa. Va ricordato che solo un anno fa la produzione
industriale era il 20% di quella del 1990; i livelli
produttivi di dieci anni fa dunque sembrano ancora
lontanissimi. La disoccupazione è oltre il 22% (settembre
2000). A un tasso d’inflazione contenuto (non superiore al
4%) corrisponde però un pesante debito estero: 9,9157
miliardi (giugno 2000). In Croazia il 40% della
popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Oggi
quella della Bosnia è un’economia di sussistenza con
larghe sacche di povertà: i dati riportati mostrano l’elevato
tasso di disoccupazione nelle due entità territoriali bosniache.
La disoccupazione è oltre il 40% nella Federazione mentre
senza i finanziamenti internazionali come già ricordato-
la percentuale del Pil nel 1999 avrebbe fatto registrare
un desolante 1%. Il Pil procapite bosniaco è il 3,3% di
quello degli Stati Uniti. Va ricordato che degli aiuti
internazionali (più di 5miliardi tra il 1995 e il 1998)
arrivati circa il 20% è andato disperso, male utilizzato o
finito nelle reti dell’economia illegale e mafiosa. Solo
il 10% di questo aiuto è stato destinato ai settori
produttivi che oggi arrivano solo al 28% di quelli del 1991, l’anno
precedente allo scoppio della guerra. Riguardo ai profughi
bosniaci va ricordato che in Bosnia Erzegovina erano
rientrati nel 1999 circa 395.000 dei profughi che avevano
abbandonato il paese durante la guerra. In Montenegro
centro di numerosi circuiti mafiosi e criminali — oltre il
40% della popolazione montenegrina vive sotto la soglia
della povertà e le perdite finanziarie per gli effetti delle
sanzioni sull’economia generale del Montenegro sono state stimate
approssimativamente in 6.39 miliardi di dollari. In Kosovo,
dopo la cospicua assistenza della Federazione Jugoslava,
la sopravvivenza dell’area è ancora legata all’aiuto della
comunità internazionale per almeno molti anni.7

Si tratta di situazioni di disagio sociale ed economico
assai preoccupanti che possono portare a un allargamento
vertiginoso delle aree di povertà e di sottosviluppo, fino
a una vera e propria "terzomondizzazione" di una parte dei
Balcani.


Il Patto di Stabilità e le politiche di aiuto della
comunità internazionale

Le politiche messe in campo dall’Unione Europea e dal
Patto di Stabilità si sono rilevante insufficienti e
contraddittorie. Si sono concentrate su pochi interventi
"strutturali" (vie di comunicazione, infrastrutture,
impianti produttivi, produzioni di energia, ecc.) che
hanno privilegiato l’intervento delle imprese dei paesi di
appartenenza dei donatori e si sono rivolte a rafforzare lo sviluppo
dei famosi "corridoi" funzionali al controllo geostrategico
(vie di approvvigionamento, trasporti di merci, controllo
militare, ecc.) dell’Europa sudorientale. Poco è stato
indirizzato alla costruzione di economie sane e
sostenibili, grazie alla formazione del capitale sociale e
umano, di uno sviluppo locale, dell’economia sociale,
dell’integrazione transfrontaliera. In mancanza di ciò, le
politiche economiche occidentali di aiuto promosse dal Patto di
Stabilità rischiano di alimentare interventi "spot"
che non sedimentano economia "reale", ma solo meccanismi
drogati di spartizioni di commesse e risorse di un’economia di
"carta" e molte volte "affaristico-mafiosa".

Il Patto di Stabilità non può essere una sorta di Piano
Marshall per i Balcani di stampo para-coloniale, ma
dovrebbe essere un volano per la cooperazione all’interno
dell’area balcanica affinché i vari paesi possano dar vita
ad accordi e istituzioni comuni, in modo da poter
contrattare con le aree più forti dell’Unione condizioni
di scambio e riconoscimento reciproco delle rispettive
tradizioni e culture. Molti soldi sono stati promessi dalla comunità
internazionale all’interno del Patto di Stabilità (10.000
miliardi di lire solo dall’Unione Europea nel periodo
2000-2006), ma ben pochi sono stati effettivamente spesi.
Inoltre ciò che è stato realizzato è andato soprattutto a
sostegno degli interventi per le infrastrutture e le vie
di comunicazione: si tratta di ben il 90% dei fondi finora
stanziati. Solo le briciole sono andate alla ricostruzione
sociale e agli interventi di sviluppo umano. Sembrano così
confermate le linee di tendenza di una strategia della
ricostruzione verso l’area balcanica che invece di privilegiare
interventi a favore dell’integrazione e della cooperazione
nell’Unione europea e tra i paesi dell’area propone un
approccio estemporaneo e di breve respiro, legato magari a
qualche interesse economico o di penetrazione commerciale.
Altri, le organizzazioni non governative, le comunità
locali, il terzo settore, ecc.— hanno proposto una diversa
strada: un sostegno economico e una strategia cooperativa
che valorizzino l’impatto integrativo, la formazione del capitale
sociale e delle risorse umane, lo sviluppo della comunità e
delle democrazie locali, la costruzione di piani territoriali,
l’economia sociale. È questa la strada di uno sviluppo
umano e sostenibile che assicuri la transizione e
l’integrazione nella pace di tutti i Balcani.


Le alternative della società civile: integrazione,
cooperazione, ricostruzione "dal basso"

Queste considerazioni richiamano il nodo dell’integrazione
europea. Un processo certo e rapido di integrazione
europea stempererebbe le prospettive secessioniste del
Montenegro, e darebbe forza ai moderati in in Macedonia, togliendo
respiro all’estremismo albanese dell’Uçk in quel
paese così come in Kosovo. Bosnia, Croazia e Serbia, nella
prospettiva europea, ritroverebbero inoltre le ragioni della
cooperazione regionale.

Una strada da seguire, dunque, per la pacificazione
dell’area è quella dell’integrazione europea, con la messa
al bando ogni geopolitica o pretesa di condizionamento
occidentale, ogni civetteria con qualsiasi nazionalismo
locale. L’integrazione non può avvenire seguendo i
parametri tradizionali, economici, contabili, di reddito. Non si
può affrontare il tema dell’integrazione dei Balcani e
dell’Europa del dopo ’89 come se fossimo rimasti alle procedure
contabil-finanziarie di quindici anni fa quando dovevano
accedere alla Comunità Europea il Portogallo o la Spagna.

A fianco e prima dei parametri economici ne vadano
individuati altri che riguardano gli standard dei diritti
umani e delle minoranze e in campo sociale (servizi per i
disabili, pensioni, servizi socio-sanitari, tassi di
istruzione), ambientale (aree protette, difesa e gestione delle foreste
e dei corsi d’acqua, gestione rifiuti, servizi idrici,
interventi per il disinquinamento), di democrazia reale,
di presenza e partecipazione della società civile
organizzata. Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la
possibilità di superare il vuoto progettuale che
caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche
molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il
vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione
incardinato a nostro giudizio su tre concetti di fondo:
l’opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale
criterio di rinascita economica, l’autogoverno delle
comunità come strada per ricostruire coesione e identità
sociale, la cooperazione dal basso come strategia per rafforzare un
tessuto civile e istituzionale democratico e sano.

Una strategia di questo genere deve però mettere in
discussione il processo di integrazione così come si è
verificato fino a questo momento sia per l’est europeo sia
per le regioni più povere dell’Europa del sud. Occorre che
i paesi balcanici non siano costretti a rincorrere il
modello di sviluppo dei paesi più ricchi rinunciando alle
proprie vocazioni produttive, ai propri stili di vita e a
un sistema economico che riesca a mantenere commisurate le
colture alle culture.

Il ripensamento del modello di sviluppo, nel momento in
cui entrano nell’Unione paesi con una storia economica e
sociale peculiare, dovrà essere sollecitato da quelle Ong
che da anni fanno cooperazione con i paesi del
Mediterraneo e dell’area balcanica. Ricordiamo allora la
base di riflessione rappresentata dai Rapporti sul Mediterraneo,
editi dal Cnel dal 1993 al 1999 e curati da Bruno Amoroso. Il
modello dei quattro anelli della solidarietà, proposto in
quei rapporti e nei vari studi di Amoroso, per un’Europa
fondata sulla cooperazione solidale fra le aree che la
compongono, piuttosto che sulla competizione, dovrà essere
preso in seria considerazione dalle Ong che praticano la
cooperazione allo sviluppo nel Mediterraneo.

Allo stesso modo la società civile dei Balcani dovrà
cooperare assieme ai movimenti sociali di tutta Europa per
affermare proprio il principio che lo sviluppo deve essere
commisurato alla realtà e alle potenzialità produttive
specifiche di ogni territorio, coinvolgendo risorse
intellettuali e sociali in ogni luogo.

È venuto il momento perché si crei un network di
organizzazioni europee della società civile impegnate a
favore dei diritti umani e della pace, della cittadinanza
attiva e della solidarietà, dello sviluppo e della
cooperazione, che aspirano perciò ad un’Europa oltre i
confini — che abbatta definitivamente i muri che ancora
esistono tra Est e Ovest — fondata sui valori per cui si
impegnano.

L’impegno dovrà essere allora quello di costruire a
partire dalla società civile — attraverso la cooperazione,
la collaborazione, il dialogo — una rete di organizzazioni
della società civile, della cittadinanza e delle comunità
locali al fine di favorire iniziative comuni di
cooperazione, scambio, formazione e di sensibilizzazione —
tra organizzazioni della società civile e reti delle
comunità locali — sull’idea di "un’Europa dal basso".


Alcune conclusioni

In questi anni le cancellerie europee e la comunità
internazionale in genere hanno condiviso l’idea delle
guerre jugoslave come guerre etniche e religiose, con
cause e motivi di odio secolare ed endemico. Da queste
guerre — questo l’assunto della diplomazia internazionale
— si sarebbe potuto uscire solo con un compromesso fra le varie
parti in causa, rappresentate dai tre principali leader
nazionalisti: Izetbegovic, Milosevic e Tudjman. La
linea-guida che ha ispirato le diplomazie è stata, a
proposito della Bosnia, quella della spartizione del paese
in cantoni a predominanza etnica, anche a costo di enormi
spostamenti di popolazione. In sostanza si dice: tre nazionalismi
irrimediabilmente in lotta tra loro producono un conflitto
insanabile, tenuto a bada nei cinquant’anni precedenti
solo dalla repressione comunista, che può essere
ricomposto solo dal compromesso e quindi dalla spartizione
del territorio. È una linea che non ammette l’esistenza di
espressioni sociali contro la guerra, di interessi
materiali che entrano in gioco, di prospettive di sviluppo
economico, di problemi di giustizia sociale, di nodi di riforma dello
stato e delle istituzioni, ma solo una "grande questione
etnica" che assorbe tutto il resto. È la "questione
etnica" che legittima le leadership nazionalistiche —
anch’esse interessate a non aprire il dibattito sui temi
prima citati — e fa proprio il modo di procedere di
Izetbegovic, Milosevic e Tudjman. Questo è stato
l’atteggiamento della comunità internazionale per gran
parte degli anni Novanta. La guerra nella ex-Jugoslavia è
stata invece una guerra in cui le classi dirigenti al potere dei vari
stati sorti nel 1991, dalla Slovenia alla Macedonia, hanno
utilizzato il conflitto per legittimare il proprio potere
e spartirsi senza controllo democratico le spoglie della
Jugoslavia e organizzare, tramite la guerra stessa,
colossali traffici di armi, droga, valuta, carburante,
esseri umani, ecc…8.

Nei Balcani ci siamo trovati quindi di fronte ad un
nazionalismo che mirava a dissolvere le tradizionali
strutture dello Stato e le solidarietà politiche e sociali
sul territorio, facendo leva sull’odio etnico fomentato ad
arte. La divisione, infatti, non è la causa della guerra,
è invece la guerra a causare la divisione, una particolare
forma di guerra, basata sulla violenza contro i civili, il 90% di
tutte le vittime. Come d’altronde avviene in quasi tutte le
guerre degli anni Novanta. Quelli che nelle guerre
tradizionali vengono considerati effetti collaterali,
nelle nuove guerre sono dunque gli atti principali volti a
fomentare l’odio e a proporre nuove forme di soggezione e
di potere politico fondato sulla divisione etnica. La pulizia etnica,
il saccheggio dei beni, la requisizione delle proprietà e i
campi di concentramento sono dunque gli strumenti di una
precisa e razionale strategia.

Oggi, nei Balcani non ci sono primavere dei popoli né
assistiamo al portato di guerre e rivendicazioni secolari.
La dissoluzione della ex-Jugoslavia è la risposta perversa
a problemi molto moderni che agitano l’Europa in questa
fine secolo. A partire della globalizzazione che —
alimentando spinte identitarie, fondative, escludenti — ha
portato a drammatico compimento quella che ormai tutti
chiamano la "crisi dello Stato". A ciò non sono estranee
le politiche del Fondo Monetario Internazionale che anche
nella Jugoslavia degli anni Ottanta hanno imposto privatizzazioni,
drastici tagli allo stato sociale e alle politiche statali di
sostegno all’economia e alle fasce deboli della
popolazione. A queste contraddizioni della "modernità" le
classi dirigenti ex-comuniste della Jugoslavia hanno
risposto con il nazionalismo e la guerra.

Dobbiamo inoltre tenere presente anche il fatto che i
paesi balcanici non sono paesi "in via di sviluppo" e
"arretrati", da modernizzare. Sono paesi assolutamente
moderni nel senso della modernità industriale: produzione
di massa, intenso e deleterio sfruttamento delle risorse
naturali, etica della prestazione, disciplina del lavoro.
Ora, essi condividono — purtroppo per loro — con noi lo
stesso immaginario postmoderno e consumista fatto di bisogni
narcisistici che vengono continuamente alimentati e di
valori, comportamenti, ecc. plasmati dalle nuove forme
drogate della comunicazione pubblicitaria. Il "logo" è
molto al lavoro anche a Sarajevo e a Belgrado, e non solo
a Ottawa e a New York. Niente di diverso dalle nostre
società, se non che in quei paesi ci sono molti meno soldi
per i consumi che sono a esclusivo appannaggio delle élites
al potere. L’immaginario sociale è lo stesso: noi "occidentali"
condividiamo con quei paesi le contraddizioni (e le conseguenze)
della globalizzazione e della crisi della dimensione
comunitaria e dello stato.

Il problema della democrazia, della politica e dello stato
diviene così fondamentale nei Balcani, come in tutta
Europa. La prospettiva dell’integrazione europea, così
come già abbiamo affermato sopra, può essere la chiave di
volta per affrontare la questione balcanica e per aprire
uno scenario di riflessione sulla politica, sulla sua destrutturazione
a causa dei processi di globalizzazione. Sempre di meno la
politica decide, influisce e determina questi processi
economici, finanziari e sociali transnazionali.

Su questo tema, il mondo delle organizzazioni non
governative e della solidarietà internazionale ha una
grande responsabilità. In questi dieci anni la retorica
dei diritti umani associata all’aiuto umanitario,
totalmente slegata da qualsiasi problematica di carattere economico
e sociale, ha preso il sopravvento su tutto il resto:
contraddizioni economiche e politiche, cause dei
conflitti, ingiustizie, ecc. Anche a livello filosofico si
è andato affermando il cosmopolitismo giuridico (Habermas,
uno dei suoi più tenaci propugnatori), fondato sul nuovo
diritto umanitario al posto del vecchio diritto fondato
sugli stati nazionali. In base a questo "diritto umanitario",
ora sarebbe lecito intervenire con le armi laddove lo stato viola
i diritti umani dei propri cittadini9. In realtà, la
"retorica dei diritti umani", quasi sempre in salsa
occidentale e sempre "a geometria variabile", ha
neutralizzato la politica, l’analisi dei processi sociali,
la dimensione economica dei conflitti che sono alla base
di questi e delle possibilità di costruire scenari
alternativi. Tutto, nei Balcani è stato riportato al conflitto
etnico e alla retorica dell’umanitarismo e dell’ingerenza
(umanitaria). La depredazione degli appartamenti è stata chiamata
pulizia etnica, l’intreccio tra mafia e politica viene
definito corruzione e mancanza di senso dello stato, il
conflitto fra classi dirigenti per la spartizione di uno
stato in dissoluzione è stato definito "guerra etnica".

Langer ricordava (e praticava) la necessità di costruire
"ponti" per evitare conflitti e guerre e affermare una
prospettiva di cooperazione e di pace. In Alto Adige, come
nei Balcani. L’Europa è la strada da seguire. La speranza
è che la prospettiva dell’integrazione europea, su basi
ovviamente diverse da quelle liberiste, possa riaprire a
est come a ovest gli spazi della politica. I diritti umani sono
sempre un grande progetto politico di ogni società costituita:
"se una società è una società democratica, una
società in cui il rispetto della dignità di ciascuno fa
parte del modo di stare insieme, allora i diritti di tutti saranno
garantiti"10. Integrazione europea e sviluppo locale sono
insomma i cardini su cui la società civile europea e le
Ong dovranno impostare i loro programmi di intervento per
ripristinare ciò che la retorica dei diritti astratti ha
frantumato: l’effettiva costituzione democratica di una
società e l’autogoverno dei cittadini, aldilà degli odi
etnici veri o presunti, e del controllo mafioso del
territorio.


Note

1 Si consiglia per un bilancio dei conflitti degli anni
Novanta un recente lavoro che ricostruisce l’intero
periodo: Joze Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999,
Einaudi 2001.

2 S. Bianchini, Le strategie dell’Italia verso Est. Alla
ricerca di un ruolo fra politiche regionali e integrazione
europea, in S. Bianchini — M. Dassù, Guida ai paesi
dell’Europea centrale orientale e balcanica. Annuario
politico-economico 2001.

3 Dopo che l’alto rappresentante in BiH Wolfgang Petrisch
decise di imporre la gestione temporanea sulla
Hercegovacka banka il team anticorruzione accompagnato dai
carabinieri italiani entrò il 7 aprile nella sede della
Hercegovacka banka a Mostar e nello stesso tempo in tutte
le filiali in Bosnia. All’ inizio non ci furono problemi e gli
impiegati accettarono di sottomettersi al controllo degli
stranieri. Però dopo poco la sede della Hercegovacka banka
di Mostar fu circondata da croati, che iniziarono a
lanciare pietre e uova contro gli internazionali. Poi
alcune automobili dello Sfor furono rovesciate e bruciate.
Alcuni dei rappresentanti della comunità internazionale
furono feriti. Nello steso tempo iniziarono simili proteste in altre
città erzegovesi: Posusje, Grude, Medjugorje e Siroki Brijeg.

4 F. Strazzari, Il triangolo macedone, pag. 28, in
"Limes", Macedonia/Albania. Le terre mobili. 2/2001

5 Ibid. pag. 34

6 Bisogna ricordare che questo diritto era già stato
acquisito tramite una legge dello stato macedone. Ora è la
stessa costituzione a sancire l’ufficialità della lingua
albanese.

7 Dati tratti da: Ics, Dossier sulla ricostruzione dei
Balcani, Roma 2001.

8 Su questo hanno scritto pagine definitive Paolo Rumiz e
Mary Kaldor. Si veda: P. Rumiz, Maschere per un massacro,
Editori Riuniti, 1999 (2’ ed.); e M. Kaldor, Le nuove
guerre, Carocci, 1999.

9 Anche in Italia il dibattito si è acceso sulle questioni
del cosmopolitismo giuridico. Si veda D.Zolo, Chi dice
umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi 2000;
AA.VV. L’ultima crociata?, Libri di Reset, Roma 1999; P.
Barcellona, Quale politica per il Terzo Millennio?, Dedalo
2000.

10 P. Barcellona, Quale politica per il Terzo Millennio?,
cit., pag. 132.