Bertinotti contro la "violenza" partigiana

Le recenti dichiarazioni del segretario di Rifondazione Comunista
Fausto Bertinotti in materia di resistenza, violenza politica e “foibe”
hanno aperto un dibattito non solo all’interno del partito di
Bertinotti, ma che coinvolge tutti coloro che si identificano ancora
con i valori dell’antifascismo e di un’ideologia di sinistra.
Prima di esprimere la nostra opinione, riteniamo sia il caso di
sintetizzare quanto detto da Bertinotti a Venezia il 13 dicembre.

SINTESI DELL’INTERVENTO DI BERTINOTTI.
Tra le varie cose Bertinotti ha sostenuto che quando si parla di foibe
non ha senso parlare dei crimini del fascismo né fare la contabilità
dei morti perché non è che noi (sottintendendo il movimento comunista)
siamo migliori perché abbiamo ammazzato meno dei fascisti, ma perché
abbiamo un’altra visione del mondo, che abbiamo sbagliato nell’assumere
una posizione negazionista sulle nostre violenze con l’angelizzazione e
la retorica della resistenza. Che oggidì non è più valido il Brecht di
“noi che avremmo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non
si poté essere gentili”, ma soltanto il Brecht di “felice il popolo che
non ha bisogno di eroi”. Che il nostro nemico di oggi non è il
fascismo, ma sono la guerra ed il terrorismo.
In merito allo specifico delle “foibe”, le ha definite come un fenomeno
che investe la Venezia Giulia nel passaggio da guerra a pace. Non
servono a nulla i numeri, perché non ci sono dubbi sul fenomeno. Ci
sono due tesi manipolatorie delle cifre: quella che alza i numeri parla
di genocidio, quella che li diminuisce vuole dimostrare che si è
trattato soltanto di fascisti puniti giustamente. Invece Bertinotti
assume le tesi di Pupo e Spazzali, che contestano le due precedenti,
dicendo che si è trattato di un tipo di violenza concentratasi a
Trieste nel trapasso cruento del potere. Ma al di là del furore
popolare, si è trattato di una violenza politica organizzata legata
alla storica idea della conquista del potere tramite la distruzione dei
nemici.
Se questa interpretazione è giusta non si devono trovare
giustificazioni analizzando gli orrori del fascismo, perché un orrore
non ne giustifica un altro. Il terrorismo non è giustificabile neppure
in caso di guerra.
Il movimento deve scegliere la strada della non violenza e non
giustificare la violenza.

Queste dichiarazioni di Bertinotti, che sono già di per se stesse di
una certa gravità (e le analizzeremo in seguito nei particolari),
assumono una valenza diversa se teniamo conto di altri interventi che
le hanno precedute. Ma sono gravi soprattutto perché Bertinotti ha dato
per scontati certi fatti che scontati non sono, fidandosi
esclusivamente di quanto scritto da Pupo e Spazzali e non accettando di
considerare altre posizioni e chiarimenti di tipo storico.

“OFFENSIVA MEDIATICA”.
Su “Liberazione” del 1/11/03, un articolo di Rina Gagliardi risponde
all’“offensiva mediatica” promossa dal “Riformista” e da “Repubblica”
riguardo al problema del terrorismo e della lotta armata. Leggiamo
innanzitutto ciò che Giuseppe D’Avanzo ha scritto sulla Repubblica: “Il
nodo della violenza politica come strumento legittimo di lotta, l’idea
della politica come forza, non è stata ancora né sciolta né rimossa
negli ambiti più radicali della sinistra”. Gagliardi prosegue
riferendosi sia a D’Avanzo sia al Riformista “entrambi chiedono abiura
e pentimento, entrambi caricano il tema della violenza sulla sola
sinistra radicale, entrambi, soprattutto, rappresentano la non violenza
come rinuncia, moderatismo, rientro nell’ordine esistente e garantito
delle cose”.
Alcune delle “risposte” di Gagliardi comunque non ci piacciono molto,
ad esempio: “In verità non è mai stato vero che i gruppi armati che
insanguinarono l’Italia negli anni ‘70 e ‘80 fossero una propaggine
organica della sinistra, o una costola del PCI. Nella cultura politica
delle BR (…) il cattolicesimo ebbe per esempio un ruolo assai
significativo. Così come lo ebbe l’idea (di radice anarchica) del gesto
esemplare, a partire dal quale il popolo si sarebbe sollevato contro il
potere”. Interpretazione questa che, oltre a non essere esatta
storicamente, è anche di dubbia correttezza politica, in quanto tende a
scaricare certo tipo di responsabilità esclusivamente su forze
politiche estranee al passato dell’autrice dell’articolo.
Che ci sia una “offensiva mediatica” contro la sinistra in generale e
contro la Resistenza in particolare, lo abbiamo visto anche in una
recente trasmissione televisiva, dove, partendo dalla presentazione del
recente libro di Pansa, si passava alla critica della Resistenza in
quanto tale e non solo per gli eccessi che inevitabilmente una guerra
porta con sé, fino ad arrivare all’intervista con uno degli
organizzatori della manifestazione in sostegno alla resistenza irachena
del 13 dicembre, inquietante esempio di connubio tra associazioni di
destra e associazioni di sinistra che si schierano contro
l’imperialismo.
L’intervento di un esponente di una delle associazioni organizzatrici
(di sinistra, va precisato) si basava sul fatto che loro ritengono
sempre validi i principi ed i valori della Resistenza italiana, e che
pure il popolo iracheno, che si trova sotto un regime di occupazione
militare straniera ha diritto alla propria lotta di liberazione; ma
queste (giuste, a parer nostro) affermazioni sono state poi
strumentalizzate dal conduttore e da alcuni degli ospiti in studio, che
sono saltati alla conclusione che quelli che oggi riconoscono ancora i
valori della Resistenza, sono quelli che legittimano i terroristi che
ammazzano i nostri carabinieri in missione all’estero.
In questa “offensiva mediatica” riteniamo di inserire infine
un’intervista rilasciata a “Repubblica” da Pietro Ingrao e ripresa da
“Liberazione” il 5 novembre scorso, nella quale parte dalla condanna
per le azioni delle Brigate Rosse e finisce col parlare di lotta armata
e Resistenza. Così ha dichiarato Ingrao:
“Non mi è mai passato per la mente – anche quando agivo nel pieno della
Resistenza italiana – di uccidere Agnelli e, nemmeno nel periodo della
cospirazione, di attentare alla vita di Mussolini”. Ed anche: “Durante
decenni e decenni di militanza comunista non mi è mai passato in mente
il progetto di assassinare Agnelli e nemmeno Mussolini o Hitler. Non
era per umanitarismo. Hitler mi appariva un potere collettivo,
l’espressione di una classe. Bisognava contrapporre a ciò un altro
potere collettivo e solo ciò poteva veramente sconfiggerlo”.

Purtroppo le posizioni di Bertinotti a Venezia ci sembrano quasi un
cedimento di fronte all’offensiva mediatica denunciata da Gagliardi,
che, accogliendo le posizioni di Ingrao, vuole dimostrare l’estraneità
del partito da frange “terroristiche”, come le nuove Brigate Rosse.

NOSTRE VALUTAZIONI.
Abbiamo qui dunque alcuni punti da cui partire per le nostre
valutazioni politiche. Che oggi noi (e parlo come persona ancora legata
ad ideali comunisti) si sia contrari alla violenza come metodo di lotta
politica, è perfettamente condivisibile; che si condannino azioni
violente come gli omicidi Biagi e D’Antona è pure fuori di dubbio; che
ci si dichiari distanti dai metodi delle nuove Brigate Rosse, non ci
piove sopra. Però finisce qui: perché noi abbiamo il diritto di parlare
per noi che facciamo politica oggi in questo paese con questo governo,
che non sarà il massimo della democrazia ma non è ancora diventato
dittatura. Mentre non possiamo arrogarci il diritto di parlare, noi che
viviamo tranquilli nelle nostre tiepide case, come avrebbe detto Primo
Levi, di come avrebbero dovuto comportarsi i partigiani nel 1945, o
anche di come dovrebbero comportarsi, oggi, altri popoli che vivono
delle pesanti oppressioni.

Analizziamo ora la questione specifica della Resistenza e delle
“foibe”. Nella vecchia accezione che non si può gettare via il bambino
con l’acqua sporca, diciamo che non possiamo rinnegare la Resistenza ed
i suoi valori solo perché all’interno del movimento partigiano ci sono
state persone che hanno commesso dei crimini o delle azioni comunque
riprovevoli. Per quanto riguarda la questione delle “foibe”, diciamo
che un grossissimo danno lo hanno fatto certi storici (parliamo di Pupo
e Spazzali, che pure sono stati citati da Bertinotti come suoi termini
di riferimento) che, avallando la semplificazione divulgativa di autori
come Oliva e Rumici, hanno sancito (non si sa in base a cosa si siano
investiti del ruolo di riformatori della lingua italiana) che nel
concetto di “foibe” si possono comprendere le “violenze di massa a
danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi
nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della
Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di
vittime” (“Foibe”, edito da Bruno Mondadori). E che, di conseguenza,
sono “negazionisti” e “riduzionisti” tutti coloro che invece ritengono
che si possano definire “infoibati” soltanto coloro che letteralmente
furono uccisi e gettati nelle foibe, in gran parte per vendette
personali o nella jacquerie istriana del settembre ‘43, fenomeni che,
per questo motivo, non possono essere addebitati al movimento
partigiano o comunista nel suo insieme, dato che furono, appunto,
iniziative di tipo individuale e non programmate.
Se non accettiamo il discorso generalizzatore delle “foibe” come un
fenomeno unitario, ma analizziamo i vari modi di morte degli
“scomparsi” (la maggior parte dei triestini e goriziani che furono
arrestati e non rientrarono dalla prigionia erano militari internati
nei campi e morti di tifo o di stenti, oppure processati come criminali
di guerra e condannati a morte), cade anche il discorso di dover fare
autocritica su questi fatti. Perché come noi tutti condanniamo
l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, ma non possiamo
fare autocritica su questo, dato che è un episodio che non ci
appartiene (sta a chi ha ucciso Moro fare -se lo credono- autocritica
sul loro operato), così come il partigiano che ha ucciso per vendicare
i torti subiti personalmente, ha operato come singolo, e la
responsabilità dei suoi gesti non può ricadere su tutto il movimento,
partigiano o comunista, che non può fare autocritica su qualcosa che
non gli appartiene.
Poi andrebbe anche chiarita la questione dei “martiri” delle foibe. Una
morte ingiusta, per quanto deprecabile, non può in alcun caso
riabilitare una persona che operò in modo criminale in vita. Altrimenti
ci troveremmo a dover considerare “martire” anche Mussolini, poiché la
sua esposizione in piazzale Loreto non rappresenta certo una delle
pagine migliori della Resistenza. Ma questo discorso non può
prescindere da un altro fatto che invece Bertinotti ha dichiarato che
non si deve fare: la “contabilità” dei morti. Come possiamo, se non
proprio contabilizzando (orrenda espressione) i morti, comprendere
quanto sia sbagliato parlare di martiri per gente che spesso si macchiò
di crimini orrendi?
Ma l’affermazione più grave tra tutte quelle fatte da Bertinotti a
Venezia, è che oggi il nostro nemico non è più il fascismo, ma guerra e
terrorismo. Come se oggi non esistessero più i fascisti, come se il
capitalismo non potesse ancora servirsi di loro per opprimere le classi
inferiori nel momento in cui le leggi della democrazia non fossero più
sufficienti. Un’affermazione che appare ancora più grave se
consideriamo che nello stesso giorno a Roma si svolgeva la
manifestazione filoirachena bipartisan cui abbiamo accennato prima: e
perché mai Rifondazione dovrebbe espellere i propri iscritti che hanno
partecipato a quella manifestazione mista destra/sinistra, se il
fascismo non è più nostro nemico?
E poi, chi è che le scatena, le guerre? Nascono forse da sole, o è
piuttosto la logica imperialista del capitale a scatenare le guerre,
oggi come ieri?

Un’analisi corretta e sintetica della situazione c’è venuta invece
dall’esponente dei Comunisti italiani Galante, nel corso di una
conferenza tenutasi a Trieste il 10 dicembre. Sintetizzando, ha detto
che, avendo il movimento comunista perso la guerra fredda, adesso per
distruggerlo definitivamente sono necessarie altre cose. Fondamentali
in questo la criminalizzazione della Resistenza e la distruzione dei
valori portati avanti da essa. Da qui le campagne sulle foibe, sul
triangolo rosso; in quest’ottica rientrano i testi di Pansa e di Oliva.
Ma ci sembrerebbe terribilmente grave che in questa campagna
s’inseriscano anche le posizioni del segretario di Rifondazione che,
per dimostrare la propria estraneità alle attività delle nuove Brigate
Rosse, vada a compiere quell’abiura chiesta dal “Riformista” e da
“Repubblica”, giungendo al punto da inserirsi nell’operazione di
demonizzazione della Resistenza e del movimento comunista portato
avanti dalle persone indicate prima.

Infine un accenno polemico. Perché la cosiddetta “autocritica” che
Bertinotti intende portare avanti per “disangelizzare” la Resistenza,
ripudiando il “negazionismo” delle violenze commesse dai suoi
esponenti, parte dalla condanna delle “foibe” e non da quella del
“triangolo rosso”, delle uccisioni sommarie di Milano e del Piemonte,
eccetera? Forse perché condannando partigiani non italiani ma jugoslavi
è più facile, per motivi etnici, scaricare la responsabilità dalle
proprie spalle?
Dato che Bertinotti si basa sui testi di Pupo e Spazzali e non ne
considera altri, ignora però che proprio nelle nostre regioni, dato che
l’esercito partigiano aveva preso in un certo qual senso il potere ed
esercitava, quindi, un minimo di controllo, le esecuzioni sommarie
furono di gran lunga inferiori che altrove, proprio perché i comandi
jugoslavi non permisero quanto accadde invece in Italia, dove questo
controllo da parte delle autorità non ci fu.

Ma perché prima di fare affermazioni di tale valenza politica, un
segretario di partito non si informa meglio?


Claudia Cernigoj
Redazione de "La Nuova Alabarda" (Trieste)