Rivista L'ERNESTO
N. 2 MARZO-APRILE 2004

EDITORIALE DI
CLAUDIO GRASSI (segreteria nazionale PRC)


La guerra è terrorismo


Quattrocento giorni di morte, di devastazioni, di crimini di guerra.
Tanto tempo è trascorso da quel 20 marzo 2003 che avrebbe dovuto segnare
– secondo le previsioni dei signori americani della guerra e dei loro
alleati – l’inizio di un Blitzkrieg, di una «guerra lampo» destinata a
concludersi «in poche settimane» con la pacificazione dell’Iraq nel
segno della «democrazia» e del libero mercato. I risultati della
decisione di attaccare Baghdad sono sotto gli occhi di tutti. Decine di
migliaia di morti, in massima parte civili inermi, che si aggiungono al
milione di iracheni – per lo più bambini – uccisi dall’embargo e alle
migliaia di vittime dei bombardamenti anglo-americani susseguitisi senza
interruzione nel corso degli ultimi quindici anni; città distrutte; una
popolazione alla fame; un paese nel caos, dove la guerra alimenta ogni
giorno nuova violenza e nuova disperazione. Un crimine contro l’umanità
che ha pochi confronti nel pur tormentato mezzo secolo che ci sta alle
spalle, perché deliberato a freddo dalla leadership di un paese
opulento, senz’altra motivazione al di fuori della volontà di
impossessarsi di un altro paese, per mostrare al mondo la propria
irresistibile potenza e la propria infinita tracotanza. Nessuno può
illudersi: le popolazioni aggredite non dimenticheranno. L’Occidente
semina odio, alimenta una collera inestinguibile, fornisce ragioni a
quanti predicano nuove guerre di religione. E nemmeno noi
dimenticheremo. Non dimenticheremo le menzogne di Bush e di Blair che
hanno accompagnato la preparazione di questa oscenità: gli inesistenti
collegamenti tra Saddam Hussein e bin Laden, le fantomatiche «armi di
distruzione di massa». Non dimenticheremo gli orrori ai quali assistiamo
quotidianamente, né le vere ragioni dell’aggressione anglo-americana
all’Iraq, di cui l’Italia di Berlusconi si è resa complice. Queste
ragioni sono le straordinarie ricchezze naturali irachene (petrolio e
gas), indispensabili per lo sviluppo di altre potenze economiche (a
cominciare dalla Cina e dall’Unione Europea); l’autonomia di Baghdad dai
diktat di Washington (da ultimo Saddam aveva deciso di accettare il
pagamento in euro del petrolio iracheno); l’importanza geopolitica
dell’Iraq nell’area del Golfo (tanto più cruciale dopo la perdita del
controllo dell’Iran e la crisi dei rapporto tra Stati Uniti e Arabia
Saudita); la scelta di sostenere la destra israeliana in un folle
disegno espansionista che minaccia di condurre al genocidio del popolo
palestinese; da ultimo – ma non per importanza – la crisi economica
statunitense, causata da un deficit commerciale fuori controllo, che
minaccia il ruolo del dollaro come valuta di riferimento nel commercio
mondiale.
Non si tratta di novità. È una storia che va avanti da quindici anni a
questa parte, da quando, con la scomparsa dell’Urss, è venuto meno
l’ordine bipolare uscito dalla Seconda guerra mondiale. Finita la Guerra
fredda, il mondo avrebbe potuto imboccare la strada della pace, ma gli
Stati Uniti hanno voluto altrimenti. Tutte le guerre verificatesi dal
1989 sono nate da questo stesso insieme di cause: dalla volontà di
impedire che altri poli di potenza mondiale potessero contendere la
supremazia di Washington; dal tentativo di esportare con le armi la
crisi economica statunitense; dalla pretesa di controllare i rubinetti
del petrolio e del gas, per il proprio consumo interno e per impedire lo
sviluppo delle altre economie. Basta guardare la carta geografica per
capire che a collegare tra loro i teatri di queste guerre – il Medio
Oriente i Balcani, l’Afghanistan – è il fatto che essi si trovino in
zone del pianeta ricche di risorse energetiche o in aree strategiche per
il passaggio dei grandi oleodotti e gasdotti.

La guerra non è solo fonte di terrorismo. E’ TERRORISMO ALL’ENNESIMA
POTENZA.

A un’aggressione illegittima ha fatto seguito un’occupazione altrettanto
illegittima. Quanto è avvenuto è enorme. Uno Stato ha stracciato tutti i
trattati, tutte le convenzioni, ha distrutto i fondamenti stessi del
diritto internazionale. Ha irriso le richieste della comunità
internazionale scatenando una guerra devastante e occupando un altro
Stato sovrano. E ora opera, seminando ancora morte e terrore, per
insediarvi un governo fantoccio, come ha già fatto in Afghanistan, e per
condurre a termine «legalmente» il saccheggio compiuto sino ad oggi
senz’altra copertura che quella fornita dai mortai e dai carri armati.
Tutto – a cominciare dal petrolio – viene privatizzato. Tutto trasferito
nel patrimonio delle imprese titolari degli appalti della
«ricostruzione»: imprese in massima parte americane e finanziatrici
delle campagne elettorali dei Bush; ma anche inglesi, anche italiane.
Una guerra di rapina, come raramente in età moderna era stata
pianificata e realizzata. E una guerra terroristica, in senso proprio,
nella quale modernissimi eserciti (costituiti in gran parte da
mercenari, ormai la seconda forza sul terreno) minacciano di morte
un’intera popolazione per impossessarsi di tutto quel che possiede. E
dunque, tra tanto discorrere di terrorismo, domandiamo: di quale altro
terrorismo ha senso parlare, se non si parte da questa evidenza? Lo
diciamo senza mezzi termini, consapevoli del fatto che anche a sinistra
si tende a sostenere tesi differenti. La guerra non è solo fonte di
terrorismo: è, essa stessa, essa per prima, terrorismo all’ennesima
potenza. Se non si prendono le mosse da qui, tutte le analisi sono
monche e subalterne. Questo è il punto essenziale dal quale cominciare
ogni discussione: i governi guidati da Bush, Blair e Sharon attuano una
politica di guerra e di terrorismo. Questa è la vera centrale del
terrore, sulla quale la Corte Penale Internazionale dovrebbe appuntare
le proprie attenzioni.

L’informazione di guerra.

Si pone qui un altro problema, divenuto cruciale in questi tempi di
guerra. Tolte poche eccezioni, l’apparato informativo si piega alla
manipolazione, accetta di tradire la propria ragion d’essere per
trasformarsi in un gigantesco strumento di menzogna. Pensiamo alla
rappresentazione dei nemici. Quanti hanno ricordato la vera storia di
Bin Laden, finanziato per anni dagli Stati Uniti contro l’Unione
Sovietica, o quella di Saddam, armato sino ai denti perché riconsegnasse
agli americani l’Iran caduto nelle mani degli ayatollah? Tutti diventano
«terroristi» e «dittatori» quando si rivoltano contro la Casa Bianca:
fino quel momento sono campioni di democrazia, alfieri del «mondo
libero». Adesso la stessa cosa avviene – a rovescio – con Gheddafi,
dipinto ancora ieri come un mostro e oggi – senza che nulla sia
cambiato, salvo la collocazione della Libia negli schieramenti
internazionali – restituito a nuova verginità.
E pensiamo a quel che ci è dato di vedere e a quanto invece ci viene
sistematicamente nascosto. Pensiamo alle immagini trasmesse centinaia,
migliaia di volte – dalle Torri di New York ai volti degli ostaggi
catturati in Iraq – e a quelle censurate, invisibili, dunque cancellate
dalla discussione e dalla memoria collettiva. Chi ha visto i morti di
Fallujah? Oltre mille persone trucidate dalle nostre «truppe di pace»,
signor Presidente della Repubblica, capo delle Forze armate e garante
della Costituzione! Mille persone massacrate di cui è vietato persino il
ricordo. E chi ha visto i volti dei loro famigliari, chi ha udito le
loro grida di dolore? Oggi più che mai il mestiere di giornalista è
carico di responsabilità, per ciò che gli organi di stampa dicono e per
ciò che nascondono. E non si può certo dire che sia un bello spettacolo
quello offerto dai giornali e dalle televisioni.

La guerra è razzismo.

Mille morti invisibili, un ostaggio ucciso e prontamente santificato.
Trasformato (suo malgrado) in «eroe nazionale», a beneficio di chi ha
stracciato la Costituzione antifascista per conquistare un «posto al
sole» e accomodarsi a prezzi di saldo al «tavolo dei vincitori». Di
quanti pesi e di quante misure disponiamo nella nostra sconfinata
creatività?
Ne deduciamo un’altra lezione. La guerra non è solo terrorismo, è anche
razzismo. C’è chi muore «da italiano», cioè da Uomo. E chi no. A questo
punto vorremmo proprio sapere come crepa invece un iracheno e quale
valore abbiano – se ne hanno – la sua morte e la sua stessa vita.
Vorremmo ce lo spiegasse, per esempio, il dottor Mauro, direttore di un
giornale nato con l’ambizione di dar voce alla coscienza democratica di
questo paese, alla sua borghesia illuminata e progressista. Ma è vero:
sono trascorsi quasi trent’anni da quel lontano 1976. Il mondo è
cambiato, oggi il principio di eguaglianza è un orpello retorico, noi
siamo «moderni» e vogliamo un «paese normale». Per questo intitoliamo a
tutta pagina «Così muore un italiano» (la Repubblica del 16 aprile 2004)
e offriamo ai più bassi istinti della nostra gente uno specchio nel
quale rimirarsi con soddisfazione, dimenticando i motivi per cui gli
italiani stanno in Iraq e i crimini di cui si rendono complici. La
guerra è anche razzismo. Persino gli ufficiali inglesi – poco inclini,
per tradizione e cultura, a commuoversi per le sofferenze dei popoli
delle colonie – hanno dichiarato di provare imbarazzo dinanzi alle
manifestazioni di disprezzo da parte delle truppe americane nei
confronti della popolazione civile irachena. Hanno detto di non
condividere l’opinione – diffusa tra i marines – secondo cui gli
iracheni sono, testualmente, degli Untermenschen, dei «sotto-uomini»,
come dicevano i nazisti parlando degli ebrei. E hanno aggiunto di non
apprezzare i safari che le truppe americane e mercenarie organizzano
nelle città irachene a caccia dei bad guys, i «ragazzi cattivi» con la
pelle scura da mandare allegramente all’altro mondo, e vediamo stasera
chi ne fa fuori di più.
Non c’è solo questo razzismo, per dir così «conclamato». C’è anche il
razzismo implicito, che si nasconde dietro la ragionevolezza di chi,
pure, ammette che la guerra era «sbagliata», ma poi subito aggiunge che
tuttavia non ci si può ritirare dall’Iraq perché non si possono
«abbandonare gli iracheni a se stessi». Quanta supponenza, quanta
superbia colonialista sottende queste dichiarazioni, rilasciate anche da
molti uomini politici «di sinistra». Si sono descritti scenari di
«guerra civile», e in effetti si è fatto di tutto perché una guerra
civile scoppiasse. Si è predicato in lungo e in largo che la guerriglia
«non ha progetto» e che, ove fosse lasciata arbitra delle sue sorti,
getterebbe il paese nel caos. Gli osservatori imparziali riportano
resoconti diversi, dai quali emerge che il caos è quello provocato dalle
truppe di occupazione. Raccontano di città lasciate in preda allo
sciacallaggio. Parlano di un «fronte comune» tra sciiti e sunniti, di
una coesione nazionale tra le maggiori componenti della popolazione
irachena. Descrivono un paese che reagisce, resistendo all’occupazione
con dignità.

In Iraq opera una resistenza, conseguenza di una guerra e di
un’occupazione illegittime.

Resistenza: intorno a questa parola si sta combattendo, nel civile
Occidente, un’altra battaglia politica. Se a sollevarsi contro
l’occupante sono gli italiani, la loro si chiamerà Resistenza, con tanto
di maiuscola. Se a combattere contro l’invasore sono degli arabi, il
loro sarà invece soltanto terrorismo, pura criminalità. Tanto più se tra
gli invasori ci siamo anche noi.
«Banditi, criminali e terroristi»: così – rinnovando i fasti della
propaganda nazifascista – definiscono la resistenza irachena i teorici
dell’esportazione della «democrazia» a suon di bombe, a cominciare dal
geniale ministro americano della Difesa, quel Donald Rumsfeld che l’anno
scorso pronosticava la fine delle ostilità in capo a «due-tre settimane,
un mese al massimo». Da ultima gli ha risposto per le rime Naomi Klein,
in una corrispondenza da Baghdad che pubblichiamo integralmente
nell’ultima pagina. Quella di Rumsfeld, ha commentato Klein, «è una
pericolosa illusione. La guerra contro l’occupazione viene oggi
combattuta in campo aperto, da comuni cittadini che difendono le loro
case e i loro quartieri: è scoccata l’ora dell’Intifada irachena».
Dicevamo che sarebbe bene che anche noi meditassimo su queste parole.
Siamo stati sempre critici nei confronti di uno slogan – quello che ha
descritto la logica della guerra irachena evocando l’immagine di una
presunta «spirale guerra/terrorismo» – che ci è parso sin dall’inizio
impreciso e riduttivo. Oggi le ragioni della nostra critica sono ancora
più forti. Si dice che la guerra è la risposta bellica alla minaccia
terroristica. Noi replichiamo che tale spiegazione è fuorviante, tant’è
vero che la strategia della guerra «preventiva e infinita» concepita dai
consiglieri neo-conservatori di Bush (attivi già ai tempi della
presidenza di Bush padre) precede di gran lunga la sfida lanciata dal
«terrorismo internazionale». Come dicevamo in precedenza, questa
strategia obbedisce a finalità del tutto indipendenti da tale sfida. Non
solo. Anche il termine terrorismo dev’essere approfondito. È tutt’altro
che pacifico che cosa esso designi (tant’è che nessuna legislazione ne
fornisce una definizione univoca e condivisa), mentre è chiaro che gli
atti correntemente definiti «terroristici» sono di varia natura e
costituiscono un insieme affatto eterogeneo. Che cos’hanno in comune le
stragi messe a segno da al-Qaida (sulle cui origini, struttura e
finalità regna peraltro lo stesso fitto mistero che avvolge gli
attentati dell’11 settembre) con le azioni dei kamikaze palestinesi
(spinti alla disperazione dalla guerra di annientamento scatenata da
Sharon) o dello stesso commando suicida di Nassiriya (diretto – ci
piaccia o meno – contro una forza di occupazione)? Ferma restando la
nostra dura opposizione nei confronti di qualsiasi azione militare che
colpisce vite innocenti, e ribadite ancora una volta la condanna dei
comunisti rispetto al terrorismo e la nostra estraneità a tutte le forme
di lotta che non si rapportano con le grandi masse popolari, riteniamo
incolmabile la distanza che separa forme di lotta anche criticabili di
popolazioni invase e prive di mezzi idonei, da una risposta militare in
grande stile, che implica l’impiego di un potente e sofisticato apparato
bellico. Al contrario, crediamo che molto abbiano in comune con queste
ultime proprio i bombardamenti effettuati da una forza di aggressione
come quella che il 20 marzo del 2003 scatenò l’inferno su Baghdad
uccidendo migliaia di civili nello spazio di una notte e gli assassini
di Stato perpetrati da Israele contro i dirigenti di Hamas, lo sceicco
Yassin prima, il suo successore Rantisi poi. Sharon e Bush sono in tutto
e per tutto parenti di bin Laden, e precisamente nella capacità di
cogliere la somiglianza delle loro strategie terroristiche passa oggi il
discrimine tra la sinistra e la destra.
Chi perde di vista queste differenze e queste analogie non ha poi
bussole per discernere e per giudicare. Da una parte non può cogliere la
vera ragion d’essere di una guerra che nasce dalla crisi di
accumulazione del capitalismo americano (se davvero esiste una
«spirale», questa coinvolge semmai la guerra e il neoliberismo).
Dall’altra, non può nemmeno riconoscere il ruolo svolto dalla resistenza
irachena, che infatti la teoria della «spirale guerra/terrorismo»
cancella del tutto. Il risultato di questa rimozione è
straordinariamente grave. Non solo non si comprende che se gli Stati
Uniti sono in difficoltà e debbono differire a data da destinarsi altre
guerre di aggressione, questo è dovuto proprio alla tenuta della
resistenza irachena, così come ai suoi successi si debbono il rilancio
del movimento per la pace che il 20 marzo ha riempito le città di tutto
il mondo e le speranze che Bush faccia la fine di Aznar. C’è ancora
dell’altro: c’è il fatto che evocare l’immagine di un rapporto circolare
tra terrorismo e guerra finisce con lo schiacciare il terrorismo sulla
resistenza, accreditando uno degli aspetti salienti della
interpretazione della guerra diffusa da quanti la legittimano. Sono i
Rumsfeld e i Wolfowitz, sono le loro caricature nostrane – i Martino, i
Frattini, i Selva – a non tollerare che si parli di resistenza irachena,
a ripetere istericamente che si tratta di «banditi», di «terroristi». Lo
stesso fanno, assumendosi pesantissime responsabilità, i dirigenti del
Triciclo, coerenti con la decisione sbagliata di non votare contro il
rifinanziamento della missione italiana in Iraq.

Riflettere sulla storia, SI’. Liquidarla, NO.

Questo discorso ci induce a tornare sul dibattito apertosi nel nostro
partito sul tema della nonviolenza. È evidente infatti che la
valutazione della resistenza irachena incrocia il tema della violenza e
della nonviolenza, e che quest’ultimo tema (dibattuto sullo sfondo di
una opinabile critica del potere) chiama in causa la discussione sul
Novecento. Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine in questa intricata
materia, cominciando da un’affermazione del Segretario rispetto alla
quale ci troviamo in disaccordo. Nel corso di una intervista al
manifesto, Bertinotti ha dichiarato: «Penso che non solo Lenin, ma tutti
i grandi del movimento operaio del 900 siano morti e non solo
fisicamente».
Non siamo d’accordo a proposito della morte «non solo fisica» dei
massimi riferimenti teorici e politici del movimento operaio e comunista
del Novecento. Al contrario, pensiamo che Lenin e Gramsci rimangano – al
pari dello stesso Marx e di altri grandi pensatori e dirigenti operai –
fonti insostituibili e indispensabili della nostra riflessione e pratica
politica. Crediamo che per una condivisibile tensione verso una ricerca
autonoma e spregiudicata non servano giudizi così liquidatori. Pensiamo
anzi che l’autonomia della ricerca presupponga il massimo di
accumulazione teorica, dunque la più concreta relazione con le fonti
ispiratrici di una riflessione. E riteniamo sbagliato il messaggio
“pedagogico” che discende da queste parole. Che cosa rischia di
desumerne un giovane che si avvicini al nostro partito o a un movimento
di lotta avverso allo stato di cose esistente? Rischia di trarne l’idea
dell’autosufficienza del senso comune, cioè esattamente il contrario di
quel che l’asprezza del conflitto e la complessità dei contesti in cui
esso si dispiega impongono.
Gramsci – quel Gramsci che noi consideriamo ben vivo e alle pagine del
quale non cessiamo di fare ricorso, rinvenendovi sempre suggestioni di
inestimabile valore – era solito ricordare la necessità di uno studio
costante, perseverante, metodico. Quanta modestia in quelle parole, che
nulla toglievano alla grandezza di chi le scriveva: che, anzi, di quella
grandezza erano segno! Questo rimane il modello al quale guardiamo e al
quale crediamo debbano continuare a ispirarsi le nuove generazioni di
compagni/e, tanto più in una fase storica come l’attuale, nella quale si
tratta di risalire la china, di ricostruire riferimenti e orientamenti
dopo una sconfitta di proporzioni epocali. Il motivo di questo nostro
convincimento è semplice. La capacità di resistere all’offensiva
dell’avversario dipende in gran parte dall’accumulazione di esperienza,
ma l’esperienza non è solo quella che ciascuno può fare di persona.
Questa sarebbe ben poca cosa, a fronte dell’enormità e della difficoltà
del compito. L’esperienza della quale ci si deve appropriare, che
dobbiamo far diventare nostro patrimonio vivente, è anche quella
compiuta da chi ci ha preceduto nel cimento. Per questo i frutti dello
studio ne costituiscono una componente essenziale; per questo il
contributo che ciascun compagno darà alla nostra lotta sarà tanto più
rilevante quanto più esso risulterà dalla sua capacità di far vivere,
riplasmandoli dentro la sua esperienza personale, gli insegnamenti
ricavati dalla lettura e dall’approfondimento delle opere fondamentali
dei padri del movimento operaio, comunista e socialista.

C’è di più. Abbiamo l’impressione che la precipitosa dichiarazione di
morte di cui stiamo discutendo si collochi nel quadro di critica al
Novecento che da qualche tempo costituisce un tema ricorrente della
discussione politica anche a sinistra. Abbiamo già avuto occasione di
dire la nostra a questo riguardo, ma la persistenza del discorso ci
obbliga a ritornare brevemente sulla questione. Anche in questo caso
esprimiamo una critica. Come si fa a non tenere conto che parliamo di un
intero secolo ricco di storia, di conflitti, di contraddizioni: un
secolo nel quale l’umanità ha compiuto anche straordinarie esperienze di
progresso e ha sperimentato, per la prima volta nella propria storia, di
abitare un mondo, un solo immenso teatro di lotte, di fatiche e di
speranze? Il Novecento è stato innanzi tutto questo: il tempo nel quale
è venuto a maturità il sentimento dell’unità del genere umano, il
sentimento dell’uguaglianza, del diritto inviolabile di ciascuno di
essere riconosciuto e di vivere da essere umano. Certo, ne sono
risultate violenze sconvolgenti, alle quali si sono accompagnati anche
tragici errori da parte del movimento operaio, errori che impongono
analisi critiche serie, riflessioni rigorose. Ma ciò è accaduto proprio
perché sconvolgente, dirompente, incontenibile era la portata
rivoluzionaria di questa novità, che ha segnato un punto di non ritorno
nella storia degli uomini. Mandare al macero il secolo che si è appena
chiuso significa fare terra bruciata alle nostre spalle. Significa anche
non valorizzare le gigantesche conquiste del movimento operaio – la
vittoria sul nazifascismo, l’emancipazione delle masse contadine in
Cina, la liberazione di Cuba, lo sviluppo dello Stato sociale e di
quelle lotte anticoloniali i cui risultati si vorrebbe oggi azzerare con
le nuove guerre imperialistiche – nonché dimenticare le enormi
responsabilità che gravano sull’avversario, le incommensurabili colpe di
cui si sono macchiate, nel corso del Novecento, le borghesie europee.
Ebbene, a simili vedute rispondiamo che il tempo delle autocritiche
unilaterali per noi è trascorso. Ora basta davvero con i mea culpa a
senso unico: provvedano anche altri a mettere in discussione la propria
storia.

Qualcuno ha mai chiesto, per esempio, all’on. Casini di parlare della
storia della Democrazia Cristiana nell’America Latina? Della
compromissione con il fascismo in Cile e in Salvador, con i massacri, le
torture, le nefandezze degli squadroni della morte? Qualcuno ha mai
sentito qualche alto prelato parlare delle scelte compiute da Pio XII
mentre milioni di ebrei passavano per le camere a gas e i forni
crematori? O dell’attività svolta dalla Chiesa cattolica nel dopoguerra
in favore dei criminali nazisti riparati in Sud America? E che dire poi
delle ambigue e reticenti prese di distanza dell’on. Fini dal fascismo?
Appena ieri Benito Mussolini era a suo giudizio il più grande statista
del Novecento.
Non siamo noi a doverci scusare. Abbiamo passato questi ultimi quindici
anni a far luce sui momenti bui della storia del comunismo sovietico e
asiatico. Continueremo senza indulgenze in questa ricerca. Ma diciamo
con chiarezza che i comunisti italiani non debbono chiedere scusa di
nulla a nessuno. Hanno costruito la democrazia di questo paese. Hanno
combattuto il fascismo pagando un prezzo altissimo in termini di vite
umane, di torture, di anni di galera. Lo hanno liberato dalla dittatura
più infame che la storia italiana ricordi. Hanno dato un contributo
fondamentale alla redazione di una Costituzione che tutto il mondo ci
invidia e che, non per caso, gli eredi del fascismo e della borghesia
più retriva di questo paese intendono smantellare. Non siamo noi a
doverci scusare, sono i nostri avversari che oggi ritengono di poterci
trascinare sul banco degli imputati solo perché la forza delle armi
gliene fornisce, per il momento, la possibilità. Noi la nostra storia la
difendiamo senza incertezze. Anche da chi, a sinistra, tende ad
accodarsi allo spirito dei tempi.

Per tutte queste ragioni non vediamo nemmeno la necessità di procedere a
una critica indiscriminata nel confronti del potere. Non ci persuade
l’approccio per così dire «metafisico» che tende a ispirarla. E non ci
trovano concordi nemmeno i riferimenti storici che talvolta
l’accompagnano. Si sostiene che il potere in quanto tale genererebbe
oppressione. È questa una impostazione classicamente anarchica, che non
ci appartiene. Consideriamo il potere un mezzo. E poiché siamo ben
consapevoli che sussiste inevitabilmente uno stretto rapporto tra mezzi
e fini, riteniamo che la natura del potere sia in larga misura
determinata dagli obiettivi che si cerca di perseguire: cioè dall’idea
di società che si vuole costruire. I comunisti si battono per una
società senza sfruttamento dell’uomo da parte di altri uomini, senza
dinamiche di dominio e di sopraffazione, per una società che rispetti il
diritto di ciascuno di vivere libero, cioè disponendo dei mezzi
necessari per soddisfare i propri bisogni e per realizzare le proprie
aspirazioni. Serve un potere per riuscire a cambiare la forma di società
esistente con quella alla quale aspiriamo? E serve un potere perché la
nuova società – una volta costituita – possa svilupparsi respingendo
l’attacco delle forze che l’avversano? Rispondiamo di sì, ad entrambe
queste domande. Proprio perché siamo convinti che la società
capitalistica sia fondata sulla sopraffazione, sappiamo che le classi
che oggi godono di questa organizzazione sociale non si lascerebbero
sottrarre senza colpo ferire i vantaggi di cui fruiscono. E non si
rassegnerebbero facilmente ad esserne deprivate.

Per questo ci pare del tutto incomprensibile questa posizione secondo la
quale i comunisti non dovrebbero lottare per conquistare il potere.Una
critica indiscriminata del potere porta con sé gravi rischi di
subalternità. Non c’è mai, nella realtà, un vuoto di potere. Non ci sono
relazioni sociali, economiche, politiche (e il femminismo ci ha
insegnato: nemmeno relazioni personali, familiari, amorose) scevre da
elementi riconducibili a rapporti di forza. Per tale ragione, perdere di
vista questo terreno o, peggio, decidere di astenersene, per rimanere
puri e incontaminati, significherebbe semplicemente rinunciare alla
lotta politica, abbandonare il progetto della trasformazione
rivoluzionaria di questa società in vista della liberazione di quanti
oggi – masse sconfinate e crescenti – lavorano sotto padrone,
subordinati al potere del capitale e, non di rado, alla violenza delle
armi che ne puntellano il dominio.

La nonviolenza come scelta politica “qui ed ora”.

La violenza: siamo così al tema dei temi, che ci ha impegnati in questi
mesi in una discussione intensa e che è stata al centro dei due convegni
di Venezia, quello sulle foibe e quello direttamente dedicato alla
nonviolenza. Come abbiamo già detto, abbiamo ritenuto sbagliata questa
accelerazione anche per le modalità con cui si è dispiegata. Nel
convegno sulle foibe il compagno Bertinotti ha parlato di una nostra
presunta «angelizzazione» della Resistenza che non ci trova concordi.
E per quanto concerne il convegno di Venezia sulla nonviolenza, esso è
stato pensato e promosso secondo un discutibile stile di lavoro che non
vorremmo diventi usuale all’interno del nostro partito. Lo diciamo con
serenità ma anche, come sempre, con franchezza: non si organizza un
convegno di approfondimento se non si programma di mettere a confronto
posizioni diverse. Tutto ciò vale in generale, indipendentemente dalla
natura dei temi dibattuti. Ma è tanto più vero quando si tratta di temi
che rivestono un connotato strategico e che coinvolgono snodi portanti
delle culture politiche che convivono nel nostro partito, garantendo la
ricchezza del suo dibattito interno.
Detto questo, siamo sempre più convinti che il confronto tra noi debba
proseguire, al riparo da strumentalizzazioni e da precipitazioni
politiche immediate. Se davvero pensiamo che le questioni di volta in
volta discusse siano rilevanti, dobbiamo fare tutti in modo che la
ricerca si sviluppi senza forzature che inevitabilmente la coarterebbero
e impoverirebbero. Nessuno può dirsi in possesso di certezze granitiche,
nessuno quindi può permettersi di considerare con sussiego le posizioni
altrui e – tanto meno – di discriminarle.

Riguardo al merito della questione, non vi torneremo qui ancora una
volta. I compagni hanno seguito il dibattito sulle pagine di Liberazione
e del manifesto e hanno potuto tirarne le somme rileggendo i contributi
raccolti nel libro pubblicato dal quotidiano del partito. Ci limitiamo
quindi a una considerazione.
Alla fine di questo grande dibattito sulla nonviolenza, l’impressione è
che sia ben difficile comprendere il senso di questa discussione. Non si
è concordi nemmeno sul suo registro fondamentale: se cioè si sia
trattato davvero di una discussione politica, o se invece abbiano preso
il sopravvento prospettive di ordine etico o addirittura religioso:
indubbiamente legittime, ma distinte dal campo del ragionamento politico
che compete a un partito. Diciamo questo perché non siamo sicuri di aver
colto nemmeno la ragion d’essere del dibattito, le sue motivazioni di
fondo. Potremmo dunque chiudere qui, dicendo semplicemente che in questo
momento l’unico approccio pertinente alla questione è secondo noi
l’intransigente denuncia della illegittimità della guerra di aggressione
– quintessenza della violenza politica – scatenata dagli Stati Uniti e
dai loro alleati contro l’Iraq. Ma una considerazione ulteriore ci pare
opportuna. Non vorremmo che tutta questa discussione sulla nonviolenza
si risolvesse in una uscita estemporanea, come è avvenuto con la
discussione sull’imperialismo sviluppatasi nei mesi che precedettero
l’ultimo Congresso nazionale. Allora – i compagni lo ricordano bene –
buona parte dei gruppi dirigenti del partito ritennero di assumere in
modo immediato la tesi negriana della fine dell’imperialismo, concepita
(da Negri) quale conseguenza del (presunto) esaurimento della dimensione
statuale della politica e dello sradicamento (altrettanto presunto) del
capitale da qualsiasi ancoraggio nazionale. Questa tesi fu accolta da
tanti compagni con tale entusiasmo che si volle introdurla in un
documento congressuale, facendo di essa addirittura il quadro di
riferimento delle analisi internazionali del partito. Il risultato è che
chi aveva assunto questa ipotesi – duramente confutata dagli eventi –
dovette assistere, nel giro di poche settimane, a una plateale
retromarcia dello stesso Toni Negri, approdato poco dopo l’uscita di
Impero a una ferma critica dell’imperialismo statunitense. Il quale
imperialismo evidentemente era ed è ancora ben vivo, come del resto
sanno perfettamente i rappresentanti di popoli, governi, associazioni e
movimenti che si sono riuniti a Bombay in occasione del Social forum
mondiale, e che hanno sottoscritto un documento conclusivo nel quale la
denuncia dell’imperialismo occidentale ne costituisce l’asse politico
centrale. L’imperialismo esiste ancora e questo fatto dovrebbe indurci a
maggiore cautela anche quando parliamo di «globalizzazione». Esiste,
produce guerre e massacri. E ci ammonisce a non dare per scontato
nemmeno il fatto che in un paese come il nostro la lotta di classe abbia
definitivamente archiviato modalità oggi, per fortuna, inattuali. Certo,
l’Italia non si trova attualmente nella situazione del Venezuela di
Chavez né della Cuba di Fidel. Non è esposta – come accade invece a
questi due paesi, ai quali confermiamo la nostra solidarietà
internazionalista – all’immediata minaccia di colpi di Stato o di
invasioni. Ma basta forse questo a garantirci che – posta dinanzi al
rischio di essere spodestata – la parte più reazionaria della borghesia
italiana (che, non dimentichiamolo, non ha esitato, ancora pochi anni
fa, a rispondere alle lotte operaie con la strategia della tensione e
delle stragi) si astenga dal far ricorso alla violenza militare? Ci
chiediamo allora che cosa ne sarebbe – in tale sciagurata eventualità –
di tutto questo dibattito sulla nonviolenza. Così come ci domandiamo – e
domandiamo – che cosa dovrebbero fare il governo venezuelano o cubano
qualora il conflitto dovesse precipitare e le forze reazionarie passare
alle vie di fatto.

Quale programma per cacciare Berlusconi.

Non è un caso che il discorso ci abbia ricondotto – in chiusura – alle
questioni internazionali e alla guerra. Quest’ultima costituisce la
cifra più drammatica dell’attuale situazione politica mondiale, ed è
quindi inevitabile che ogni riflessione torni su di essa. In questo caso
è anche utile, poiché ci offre l’occasione per poche considerazioni
conclusive in ordine allo scenario politico interno e al problema della
costruzione di un fronte politico delle opposizioni in grado di liberare
il paese da Berlusconi e dal suo governo. Perché parlare della guerra ci
conduce al contesto nazionale? Per il fatto che uno degli aspetti più
sconcertanti e preoccupanti del panorama politico italiano in questi
ultimi mesi è rappresentato proprio dalla titubanza con la quale gran
parte delle forze di opposizione (a cominciare dai partiti che si
rifanno all’Ulivo) hanno avanzato critiche nei confronti della guerra
anglo-americana e della scelta del governo italiano di prendervi parte.
Come dicevamo, consideriamo grave la decisione dei partiti del Triciclo
di non votare contro il rifinanziamento della missione italiana in Iraq.
Grave, ma purtroppo coerente con molte altre recenti prese di posizione
(dalla pseudo-manifestazione bipartisan al Campidoglio, all’invocazione
di «unità nazionale» da parte del presidente della Commissione europea
in margine alla vicenda degli ostaggi italiani) e del tutto in linea con
le opzioni di politica internazionale dei governi ulivisti, dal vertice
Nato di Washington del ’99 (che sancì la trasformazione in chiave
offensiva dell’alleanza atlantica) alla partecipazione italiana ai
bombardamenti «umanitari» sul Kosovo, poi rivendicati dal Manifesto per
l’Europa di Romano Prodi e celebrati dall’on. D’Alema come la «pagina
più bella della storia italiana contemporanea». Dello stesso presidente
dei Ds ricordiamo una dichiarazione di qualche mese fa. Nel corso di una
intervista – rilasciata al Corriere della Sera poco dopo la svolta di
Rifondazione comunista, che ha riaperto la prospettiva di un accordo
delle opposizioni contro Berlusconi – D’Alema affermò di considerare
«non negoziabile» la politica estera dell’Ulivo. Bene. Vorremmo ora
commentare queste sue parole, alla luce degli ulteriori sviluppi della
situazione internazionale e delle recenti prese di posizione dei Ds e
del Triciclo.
Come abbiamo scritto, noi consideriamo la guerra contro l’Iraq uno
spartiacque. Riteniamo quindi pregiudiziale, in vista della ricerca di
accordi di governo tra l’Ulivo e Rifondazione comunista, che tutte le
forze del centrosinistra abbandonino ogni ambiguità ed esprimano la più
ferma denuncia della illegittimità dell’aggressione anglo-americana e
della partecipazione italiana a questa guerra. Quanto all’insieme della
politica estera, consideriamo indispensabile che tutte le opposizioni
dichiarino intollerabili le continue violazioni del diritto
internazionale da parte di Israele e si impegnino sin d’ora affinché il
nostro paese (come tale e in quanto membro dell’Unione Europea) eserciti
sul governo israeliano la massima pressione perché venga immediatamente
interrotta la costruzione del Muro in Cisgiordania, perché la parte già
costruita venga subito smantellata, e perché venga ufficialmente
ritirato il piano di definitiva acquisizione di parte dei Territori
occupati promulgato da Sharon in accordo con Bush.

Sin qui per quanto concerne la politica estera. Ma occorre anche
prendere tempestivamente posizione su tutte le questioni cruciali
dell’agenda politica interna. Certo, i risultati del test europeo e
amministrativo sono di grande importanza in vista del prosieguo dei
rapporti tra le forze politiche e sociali dell’opposizione al governo
Berlusconi. Ma a maggior ragione, qualora dovesse determinarsi un
risultato positivo per le opposizioni, diverrebbe improrogabile
discutere intorno a un programma condiviso e realmente alternativo. A
questo riguardo, non possiamo non giudicare negativamente la situazione
attuale. Il dibattito, anche tra le forze che si collocano alla sinistra
del Triciclo, non decolla, mentre vengono determinandosi sviluppi
preoccupanti. È evidente che – preso atto del bilancio sempre più
fallimentare del governo sul terreno politico ed economico – la Cisl, la
Confindustria di Montezemolo e influenti ambienti vaticani si stanno
riposizionando, lanciando segnali più o meno espliciti di apertura alle
opposizioni. È chiaro altresì che parti importanti del centrosinistra
sono sensibili a questi richiami. La stessa Cgil, che continua a
svolgere un ruolo importante di opposizione alle politiche neoliberiste
del governo e di sostegno al movimento per la pace, ha tuttavia
segnalato una evoluzione problematica attraverso recenti dichiarazioni
(da parte del suo Segretario generale) di apprezzamento della nuova
leadership confindustriale e di velata critica dell’attuale dirigenza
della Fiom.
Tanto più è urgente, in tale contesto, che Rifondazione comunista si
faccia carico di lanciare (insieme alle altre forze della sinistra di
alternativa) un’offensiva sui contenuti nella consapevolezza che dar
vita a un accordo di basso profilo, dai contenuti arretrati, non
compiutamente alternativo alla gestione reazionaria messa in campo dalle
destre, sarebbe devastante. Lo sarebbe per il partito, che rischierebbe
di smarrire il rapporto di fiducia con la propria base sociale, sin qui
mantenuto nonostante tante difficoltà. Lo sarebbe per la sinistra, che
si vedrebbe presto travolta dal risentimento del proprio popolo, deluso
per l’ennesima volta da forze politiche e sociali non abbastanza
determinate nel tutelarne diritti, ragioni e interessi. E lo sarebbe,
infine, per tutto il paese, esposto al concreto pericolo di ricadere in
mano a una destra non solo incapace di governare, ma anche – come si è
puntualmente verificato in ogni passaggio delicato degli ultimi tre anni
– disposta a gettare la democrazia italiana nella guerra e
nell’avventura.

21 aprile 2004


La rivista L'ERNESTO

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In questo numero articoli di: L. Magri, G.Minà, E.Collotti, G.Chiesa,
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