[ The original text, in english:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3432 ]


Cari compagni, vi invio in allegato una mia recente traduzione di un
reportage di una Americana da Falluja. Leggere e diffondere è doveroso!
Curzio
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Cronache da Falluja

[ Da più di un mese, le truppe statunitensi di occupazione
hanno preso d'assedio la città di Falluja. Mentre l'opinione pubblica
occidentale viene distratta da rapimenti di "civili", ai quali viene
dato il massimo risalto mediatico, i morti tra la popolazione locale
sono centinaia. I cecchini USA sparano tranquillamente anche sulle
madri di famiglia, sulle ambulanze, bombardano gli ospedali, sicuri di
non dover rispondere a nessuno, a nessun “Tribunale Speciale per i
Crimini di Guerra nell’ex Iraq”... ]

Cecchini USA a Falluja colpiscono alla schiena un uomo disarmato, … una
vecchia signora con la bandiera bianca, … bambini che fuggono dalle
loro case, …e l’ambulanza con la quale stavamo cercando di soccorrere
una donna che stava partorendo prematuramente…

by Jo Wilding

Centro di Osservazione sull’Occupazione in Iraq
http://www.occupationwatch.org/article.php?id=4105
13 aprile 2004

(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)


Camions, autocisterne per carburanti, carri armati stanno bruciando
sull’autostrada ad est verso Falluja. Un flusso continuo di ragazzini e
uomini va e viene da un autocarro, che non è bruciato, smontandolo
completamente.
Noi prendiamo la via del ritorno tramite Abu Ghraib, Nuha e Ahrar che
imprecano in Arabo, vicino a veicoli pieni di gente con qualche
masseria, che vanno verso la direzione opposta, vicino a posti di
ristoro improvvisati lungo la strada, dove ragazzini buttano cibo
attraverso i finestrini del bus per noi e per le persone bloccate
dentro Falluja.

Il bus sta seguendo una macchina con il nipote di uno sceicco locale e
con una guida che ha contatti con i Mujahedin e ha dato loro
spiegazioni. La ragione per cui mi trovo sul bus è che un giornalista
di mia conoscenza è comparso da me verso le 11 della notte,
raccontandomi che a Falluja le cose erano disperate, che aveva portato
fuori bambini con le membra spappolate, che i soldati USA andavano in
giro minacciando la gente, che se ne dovevano andare via al tramonto
altrimenti venivano ammazzati, ma anche quando le persone fuggivano con
quello che potevano trasportare, venivano fermate ai posti di blocco
dell’esercito USA alla periferia della città, e non lasciate uscire,
intrappolate, a guardare il tramonto del sole.

Egli mi diceva che i veicoli di soccorso e i mezzi di informazione
erano stati mandati via. Mi diceva che esisteva la necessità di portare
dentro qualche aiuto sanitario, e che vi sarebbe stata miglior
possibilità per degli stranieri occidentali di ottenere questo,
passando attraverso i posti di blocco americani. Il resto delle vie era
controllato da gruppi armati che tenevano sotto tiro le strade che
avremmo percorso. Avremmo preso con noi una certa quantità di
medicinali, e così si poteva portare qualche aiuto e quindi usare il
bus per portare fuori la gente che sentiva il bisogno di fuggire.

Vi risparmierò come è maturata la decisione di passare all’azione,
tutte le domande che ci siamo poste e voi vi potrete risparmiare le
accuse di pazzia, su cosa ci aveva spinto a fare questo: se non lo
facevamo noi, chi l’avrebbe fatto?
In un qualche modo, siamo arrivati tutti interi.

Abbiamo ammassato il materiale nel corridoio e i pacchi sono stati
aperti immediatamente, le coperte sono state le più gradite. Non si
tratta proprio di un ospedale, ma di una clinica, di un gabinetto
medico privato che accoglie la gente liberamente, dato che i
bombardamenti aerei hanno distrutto il principale ospedale della città.
Un altro ambulatorio è stato improvvisato in un garage. Non vi sono
anestetici. Le sacche di sangue si trovano in un frigorifero per bibite
e i medici le riportano a temperatura ambiente sotto un getto di acqua
calda in una toilette in condizioni antigieniche.

Vengono avanti donne che urlano, che pregano, che si colpiscono il
petto e il volto.
“Ummi, mamma mia”, una grida. La porto da Maki, un esperto e attivo
direttore della clinica, mi conduce al letto di un bambino di circa
dieci anni che giace con una pallottola piantata nella testa. Un
bambino più piccolo, nel letto vicino, è stato appena curato per una
identica ferita. Un cecchino USA ha colpito lui e la sua nonna mentre
uscivano dalla loro casa per abbandonare Falluja.

Le luci vanno via, il ventilatore si blocca, e nell’improvviso silenzio
qualcuno tiene ferma la fiamma di un accendi sigarette per il dottore
che continua ad operare. L’elettricità alla città è stata tagliata per
giorni e quando il generatore è scarso di carburante, devono
amministrarselo fino al suo rifornimento. Dave mette subito a
disposizione la sua torcia elettrica. I bambini non ce l’hanno fatta a
sopravvivere.

“Vieni,” mi dice Maki e mi precede da solo in una stanza dove si trova
una donna anziana con una ferita addominale da proiettile, che è stata
suturata. Un’altra donna con una gamba che le è stata fasciata, il
letto sotto il suo piede inzuppato di sangue, tiene una bandiera bianca
stretta convulsamente nelle sue mani, ed è sempre la stessa storia:
“Stavo abbandonando la mia casa per fuggire a Baghdad, quando sono
stata colpita da un cecchino USA.” Qualche zona della città è nelle
mani dei marines USA, altre parti in quelle dei combattenti resistenti
locali. Le loro case si trovavano nella zona controllata dagli
Americani, e loro sono risolute nel dire che i cecchini erano marines
USA..

I cecchini non sono solo la causa della carneficina, ma anche
paralizzano le ambulanze e i servizi di soccorso. L’ospedale più
importante, dopo quello principale che è stato bombardato, si trova
nella zona Statunitense e viene isolato dalla clinica per mezzo dei
cecchini. L’ambulanza è stata riparata quattro volte dopo essere stata
danneggiata da proiettili. Corpi stanno giacendo per le strade, dato
che nessuno può andare a raccoglierli senza rischiare di venire colpito.

Qualcuno ci ha detto che siamo stati folli a venire in Iraq; veramente
qualcuno ci ha anche detto che noi siamo stati completamente insani di
mente per essere venuti a Falluja, e ora ci sono persone che mi
propongono di mettersi sul retro del camioncino per andare vicino ai
cecchini, e raccogliere gente malata e ferita, la cosa più pazza che si
sia mai vista. Comunque, io so che se non lo facciamo noi, nessuno lo
farà.

Lui sta portando una bandiera bianca con la mezza luna rossa; non
conosco il suo nome. Gli uomini che noi sorpassiamo ci salutano con
cenni della mano quando il conducente spiega dove stiamo andando. Nel
camioncino il silenzio è terribile, nella terra di nessuno al bordo del
territorio dei Mujahedin, confine che corre, dalla nostra vista,
attorno l’ultimo angolo e la linea dei marines dietro il muro accanto;
nessun uccello, nessuna musica, nessun segnale che qualcuno sia ancora
vivo, finché si apre un cancello dalla parte opposta e appare una donna
che ci fa dei segni.

Noi ci dirigiamo verso la breccia nel muro, da dove possiamo vedere la
macchina, con schegge di mortaio sparse tutte intorno. I piedi sono
visibili, incrociati, nella strada. Io penso che lui sia sicuramente
morto. I cecchini sono del tutto allo scoperto, due di loro sull’angolo
dell’edificio. Io credo che fino ad ora non ci abbiano visto, e quindi
è necessario fare in modo che sappiano che noi siamo qui.

“Hello,” urlo con il massimo della mia voce. “Potete sentirmi?”
Loro lo possono fare sicuramente, sono a circa 30 metri da noi, forse
meno, e di certo si possono sentire le mosche che ronzano volando a
cinquanta passi. Io mi ripeto, senza indugio, che mi devo decidere di
espormi un po’ di più.

“Noi siamo un gruppo di soccorso medico. Vogliamo portare via questo
uomo ferito. È OK anche per noi uscire fuori e andare da lui? Potete
darci un segnale che questo è OK anche per voi?”

Io sono sicura che mi hanno sentito, ma assolutamente non mi
rispondono. Forse non mi hanno capito del tutto, e allora ripeto la
richiesta. Dave urla con il suo accento Statunitense. Urlo anch’io.
Finalmente credo di udire un grido di risposta. Non ne sono sicura,
rilancio l’appello.

“Hello.”

“Si.”

“Possiamo uscire fuori e andare da lui?”

“Si”

Lentamente, le mani alzate, noi andiamo fuori. La nube nera delle
mosche che si solleva ad accoglierci trasporta con sé un odore
sgradevole, caldo, acido. Irrigidito, le sue gambe sono pesanti. Io le
lascio a Rana e a Dave, la nostra guida lo alza da sotto le anche. Il
Kalashnikov è attaccato ai capelli e alla mano dal sangue appiccicoso e
non vogliamo portare l’arma con noi, perciò le pongo sopra il mio piede
in modo da alzarlo per le spalle e allora il sangue sgorga dal foro
nella schiena. Lo portiamo fino al camioncino meglio che possiamo, e
cerchiamo di scacciare le mosche.

Penso che indossasse dei sandali visto che ora risulta scalzo, non ha
più di 20 anni, con addosso dei pantaloni di imitazione Nike e una
maglietta da football a strisce nere e blu, con un grande 28
stampigliato sulla schiena. Come gli aiutanti sanitari della clinica
portano il giovane combattente fuori dal camioncino, un fluido giallo
esce dalla sua bocca, e allora lo girano, a faccia in alto; nella
clinica si fa il vuoto durante il passaggio di fronte a tutto questo, e
saliamo sulla rampa che porta ad una camera mortuaria improvvisata.

Ci laviamo le mani dal sangue e andiamo all’ambulanza. Vi sono persone
bloccate in un altro ospedale che hanno bisogno di andare a Baghdad. A
sirene spiegate, con le luci intermittenti innescate, ci ammucchiamo
sul pavimento dell’ambulanza, con le mani che tengono fuori dei
finestrini carte di identità e passaporti. Riempiamo l’ambulanza con
alcune persone, uno con il petto fasciato con nastro adesivo e una
flebo, un altro su una barella, con le gambe che hanno spasmi violenti,
tanto che le ho dovute immobilizzare, quando lo abbiamo portato fuori.

L’ospedale è meglio attrezzato della clinica per curarli, ma non ha
ottenuto sufficiente materiale per poterli accogliere in modo
appropriato e l’unica possibilità è di inviarli a Baghdad con il
nostro bus, il che significa che dobbiamo tornare alla clinica. Noi
siamo stivati sul pavimento dell’ambulanza, nel caso che ci sparino
addosso. Nisareen, una dottoressa di circa la mia età, non può
trattenersi dal pianto, quando noi ce ne andiamo.

Il dottore si precipita fuori di corsa per incontrarmi: “Potete andare
a prendere una signora incinta, che sta partorendo prematuramente?”

Azzam guida, Ahmed nel mezzo gli indica la direzione, ed io, la
straniera ben riconoscibile, sventolo dal finestrino il mio passaporto.
A volte schegge sfiorano la mia mano, quando avviene lo schianto di una
pallottola sull’ambulanza, che fa staccare qualche parte di plastica,
che vola attraverso il finestrino.

Ci arrestiamo, spegniamo la sirena, conserviamo la luce blu
lampeggiante, stiamo in attesa, gli occhi puntati sulla silhouette di
uomini in uniforme dei marines USA, agli angoli degli edifici.
Arrivano diversi colpi. Noi ci pieghiamo a terra, più bassi possibile,
e posso vedere piccole scintille rosse che colpiscono sferzando vicino
al finestrino, vicino alla mia testa. Qualcuno, è difficile da
ammettere, sta tirando contro l’ambulanza; comincio a bestemmiare. Cosa
altro devi fare quando qualcuno ti spara addosso? Una gomma scoppia con
un rumore fragoroso e un sobbalzo al veicolo.

Sono indignata. Noi stiamo tentando di andare a prendere una donna che
sta dando alla luce un bambino senza alcun conforto medico, senza
elettricità, in una città sotto assedio, in una ambulanza chiaramente
contraddistinta, e voi ci sparate addosso! Come osate?

Come osate far questo?

Azzam afferra l’asta del cambio, ed innesta la retromarcia, un altro
pneumatico esplode quando noi passiamo sul cordolo al centro della
strada, e allora procediamo come ubriachi quando fuggiamo dietro
l’angolo. Io procedo imprecando. Le ruote si stanno smantellando, le
gomme scoppiate stanno bruciando sulla strada.

Appena arriviamo, uomini corrono fuori con una barella ed io scrollo il
capo in segno di non necessità. Loro hanno individuato i nuovi fori dei
colpi e corrono a vedere se tutto è OK. Voglio sapere se vi sia
qualche altra via per uscire da qui. La, maaku tarieq. Non vi sono
altre possibilità. Ci dicono che abbiamo fatto la cosa giusta. Ci
dicono di aver riparato l’ambulanza almeno quattro volte, che la
sistemeranno ancora, ma che il radiatore è andato e i cerchi delle
ruote sono deformati, e intanto la donna nella sua casa nell’oscurità
sta dando alla luce il bambino, da sola! Io l’ho abbandonata, senza
speranza!

Non possiamo uscire fuori nuovamente. Primo, perché non abbiamo più
ambulanze, e poi ora è buio e questo comporta che il nostro aspetto di
stranieri non può mettere al riparo da guai la gente che esce con noi o
le persone che andiamo a prelevare.
Maki è il direttore sanitario del posto di soccorso. Lui afferma di
aver odiato Saddam, ma che adesso odia molto più gli Americani.

Stiamo per toglierci i camici blu, quando da qualche parte, al di là
dell’edificio di fronte, il cielo comincia ad esplodere. Alcuni minuti
dopo una macchina arriva di corsa alla clinica. Io lo sento urlare,
prima di poter vedere che non vi è un solo lembo di pelle sul suo corpo
che sia integro. È ustionato dalle testa ai piedi. Di sicuro non si
potrà fare nulla per lui, che sarà destinato a morire disidratato,
entro pochi giorni.

Un altro uomo è trasportato fuori dalla macchina su una barella.
Cluster bombs, dicono, bombe a grappolo, anche se non si capisce se
questo riguarda un solo ferito o entrambi. Ci dirigiamo a piedi verso
l’abitazione di Mr Yasser, aspettando ad ogni angolo che qualcuno
controlli la strada prima di attraversarla. Una palla di fuoco cade da
un aereo, si divide in tante palle più piccole di intensa e brillante
luce bianca. Ho pensato che si trattasse di bombe a grappolo, perché
queste sono sempre presenti nella mia mente, ma sono svanite subito,
come razzi al magnesio, incredibilmente lucenti ma di vita breve,
fornendo dall’alto un’immagine istantanea della città.

Prima di tutto, Yasser ci invita a presentarci, a dire chi siamo noi.
Io mi presento come un’apprendista avvocato. Un'altra persona mi
domanda se io sono esperta di diritto internazionale. Loro desiderano
conoscere le leggi sui crimini di guerra, cosa significa crimine di
guerra. Rispondo che so qualcosa sulle Convenzioni di Ginevra, che la
prossima volta che li incontrerò porterò loro qualche altra
informazione, e che esiste anche la possibilità che qualcuno traduca
tutto questo in Arabo.

Noi solleviamo la questione di Nayoko. Questo gruppo di combattenti non
ha nulla a che vedere con quelli che trattengono gli ostaggi
Giapponesi, ma mentre stanno ringraziandoci per quello che abbiamo
fatto questa sera, noi ribadiamo che Nayoko ha fatto molto per i
bambini di strada e come questi le vogliono bene. Loro non possono
promettere nulla, ma cercheranno di sapere dove si trova e di
persuadere il gruppo a lasciare andare lei e gli altri. Non posso
proprio pensare che questo farà qualche differenza. A Falluja sono
occupati a combattere una guerra. I gruppi non sono fra loro
coordinati. Ma vale la pena di tentare.

Gli aeroplani volano sopra le nostre teste tutta la notte, e mentre
sonnecchio credo di essere in un volo a lunga distanza, la costante
nota bassa di un drone, di un velivolo telecomandato da ricognizione,
si confonde con le convulse vibrazioni dei jets e con il ritmo stupido
degli elicotteri, solo interrotto dalle esplosioni.

Alla mattina con palloncini gonfiati costruisco cani, giraffe ed
elefanti per i più piccoli, per Abdullah, Aboudi, che sono visibilmente
stressati dai rumori degli aerei e dalle esplosioni. Soffio palloncini
che loro seguono con gli occhi. Finalmente, finalmente scorgo un
sorriso. Perfino i ventenni, i trentenni ridono, uno di questi, un
conducente di ambulanza, dice che anche lui è molto abile, ma con il
Kalashnikov.

Questa mattina i medici sembrano stravolti. Nessuno di loro ha dormito
più di un paio di ore alla notte, da una settimana. Uno ha goduto solo
di otto ore di sonno negli ultimi sette giorni, trascurando di andare
ai funerali di suo fratello e di sua zia, in quanto la sua presenza era
indispensabile in ospedale.

“I morti non li possiamo aiutare” ha affermato Jassim “Io mi devo
preoccupare degli ammalati e dei feriti!”

Usciamo nuovamente, Dave, Rana ed io, questa volta con un camioncino.
Vi sono alcune persone malate vicino alla linea dei marines, che hanno
bisogno di essere evacuate. Nessuno osa uscire dalla propria casa,
visto che i marines stanno sui tetti degli edifici e sparano su tutto
ciò che si muove. Saad ci procura una bandiera bianca, ci esorta a non
preoccuparci, che lui ha controllato la strada che afferma essere
sicura, che i Mujahedin non ci spareranno addosso, che la pace sta su
di noi, questo ragazzino dodicenne, con la faccia coperta da una
keffiyeh, dalla quale spuntano brillanti occhi neri, alto quasi quanto
il suo AK47.

Noi urliamo ancora verso i soldati, tenendo alta la bandiera con una
mezzaluna rossa disegnata sopra con lo spray. Due scendono
dall’edificio, ne controllano il lato da questa parte, e Rana borbotta,
“Allahu akbar. Prego, non sparate su costoro.”
Saltiamo giù e spieghiamo loro che dobbiamo portare via dalle
abitazioni alcune persone malate e loro invitano Rana ad andare e a
portare via la famiglia della casa, sul tetto della quale loro sono
piazzati. In una stanza, senza cibo ne’ acqua da quasi 24 ore, stanno
una trentina di donne e bambini.

Il più anziano dei marines ci dice: “Tra non molto andremo a far
pulizia nelle case.”

“Cosa significa, far pulizia nelle case?”

“Entrare casa per casa, alla ricerca di armi.” Lui guarda l’orologio,
non mi dice quando questo comincerà, è chiaro, ma che in appoggio
stanno per arrivare attacchi aerei. “Se dovete fare quello che dovete
fare, allora sbrigatevi!”

Per prima cosa, scendiamo per la strada , dove siamo stati inviati. Vi
è un uomo, a faccia in giù, in una bianca dishdasha, una piccola
macchia rossa rotonda sulla schiena. Corriamo da lui. Ancora le mosche
sono arrivate per prime. Dave si posiziona alle sue spalle, io lo
prendo alle ginocchia, e come noi tentiamo di stenderlo sulla barella,
la mano di Dave passa sul suo petto, sulla cavità lasciata dal
proiettile che è entrato in modo così netto nella sua schiena da fargli
scoppiare il cuore.

Nelle sue mani non ci sono armi. Solo quando arriviamo noi, saltano
fuori i suoi figli, piangendo, urlando. Urlano “Era disarmato.Era
disarmato! Era appena uscito dal cancello, e loro lo hanno colpito.” E
poi, nessuno di loro aveva osato andare fuori. Nessuno di loro aveva
avuto il coraggio di raccogliere il suo corpo, sconvolti, terrorizzati,
costretti a violare le tradizioni di avere immediatamente cura del
corpo dei morti. Loro non potevano sapere che noi saremmo arrivati,
quindi era inconcepibile che qualcuno potesse aver recuperato l’arma,
lasciando però il corpo.

Era disarmato, un uomo di 55 anni, colpito alla schiena!

Gli copriamo la faccia, lo portiamo sul furgoncino. Non abbiamo nulla
per coprire il suo corpo. La donna sofferente viene aiutata ad uscire
dalla casa, le bambine piccole le stanno tutte attorno abbracciandola e
sussurrano, “Baba. Baba.” Papà. Tutte tremanti, ci lasciano andare, le
mani alzate, dietro l’angolo dove le facciamo entrare dentro la cabina
del furgoncino, facendo scudo alle loro teste, in modo che lo possano
vedere nel retro, il corpo morto di un uomo grosso che invita ad essere
abbracciato.

Ora la gente si riversa fuori delle case, nella speranza che noi li
possiamo scortare in salvo lontano dalla linea del fuoco, bambini,
donne, uomini, che ci domandano ansiosi se li possiamo portare via
tutti, o solo le donne e i bambini.
Andiamo a chiedere. Il giovane marine ci informa che gli uomini in età
per poter combattere non possono andarsene. Io desidero sapere, qual è
l’età giusta per poter combattere. Lui ci pensa un po’ su. Tutti
quelli sotto i quarantacinque anni. Non vi sono limiti al basso.

Questo mi sgomenta; tutti questi uomini dovrebbero rimanere
intrappolati in una città che sta per essere distrutta. Non tutti fra
loro sono combattenti, non tutti sono armati. Questo sta avvenendo
fuori dalla vista del mondo, lontano dallo sguardo dei media, dato che
molti dei media sono profondamente vincolati ai marines o girano al
largo dai sobborghi. Prima che noi possiamo comunicare l’informazione
ricevuta, due esplosioni disperdono la folla nelle strade laterali
dentro alle loro case.

Rana, con i marines, sta evacuando la famiglia dalla casa da loro
occupata. Comunque il camioncino non può ripartire. I componenti
della famiglia si stanno nascondendo dietro le mura della loro casa.
Noi aspettiamo, visto che nulla possiamo fare. Aspettiamo nella terra
di nessuno. Al momento, i marines ci osservano attraverso i loro
cannocchiali, forse lo stanno facendo anche i combattenti locali.

Prendo dalle mie tasche un fazzoletto, mentre me ne sto seduta come un
idiota, non posso fare nulla in nessun posto, sparatorie ed esplosioni
si moltiplicano dappertutto, e faccio sventolare il fazzoletto con
decisione. Penso che sia sempre meglio sembrare assolutamente non
minacciosi e completamente neutrali, cosicché nessuno si senta da noi
infastidito tanto da spararci addosso. Però non possiamo restare
troppo a lungo.
Rana è stata via secoli. Dobbiamo andarcene e la sollecitiamo a
sbrigarsi. Nel gruppo vi è un ragazzo. Lei sta parlando con loro, che
gli permettano di uscire subito!

Un uomo ci invita ad usare la sua automobile della polizia per
trasportare qualche persona, una coppia di anziani, uno dei quali
cammina a stento, i bambini più piccoli. L’auto ha perso una porta.
Chissà se era realmente una macchina della polizia o la macchina era
stata prelevata abusivamente e finita proprio qua? La questione non è
di portare via più gente, ma più in fretta. Loro escono furtivamente
dalle case, si accalcano vicino al muro, ci seguono, le mani sempre in
alto, e camminano per la strada , tenendosi per mano, stringendo la
mano dei bambini, portando borse.

Il camioncino torna indietro e all’interno ci si muove a fatica, quando
arriva un’ambulanza da qualche parte. Un giovane ci fa segnali
dall’uscio di una porta di quello che è rimasto di una casa, il suo
torace è nudo, una fasciatura lorda di sangue attorno ad un braccio,
probabilmente si tratta di un combattente, ma questo non fa differenza
se uno è ferito e disarmato. Non è indispensabile soccorrere i morti.
Come ha detto il dottore, la morte non ha bisogno di aiuto, ma, se sarà
appena possibile, faremo anche questo. Nell’Islam, è molto importante
seppellire i morti subito.
Dato che sicuramente siamo OK con i soldati, e qui c’è un’ambulanza,
corriamo giù a prelevarlo.

L’ambulanza ci segue. I soldati cominciano ad urlare in Inglese di
fermarsi, puntando contro le armi. Il mezzo sta movendosi velocemente.
Stiamo tutti urlando, segnalando di fermarsi, ma sembra che per il
conducente sentirci e vederci richieda un’eternità. Finalmente si
ferma. Si ferma, prima che venga aperto il fuoco.
Noi tiriamo fuori le barelle e corriamo, trascinandocele dietro. Rana
si stringe sul davanti con l’uomo ferito e Dave ed io ci rannicchiamo
vicino ai corpi. Lui mi dice che ha avuto allergie da bambino, e che
ha perso molto il senso dell’olfatto. Ripensandoci, sto desiderando le
allergie dell’infanzia e caccio la mia testa fuori dal finestrino.

Il bus è sul punto di partire, portando a Baghdad la gente ferita,
l’uomo con le ustioni, una delle donne che era stata colpita al collo e
ad una spalla da un cecchino, e molti altri. Rana dichiara di volersi
trattenere per aiutare. Dave ed io non abbiamo esitazioni: ci fermiamo
anche noi. “Se non lo faccio io, chi lo farà?” è diventato casualmente
il nostro motto, ed io mi rendo conto assolutamente di questo, dopo
l’ultima nostra incursione, di quanta gente, di quante donne e bambini
stanno ancora nelle loro case, o perché non hanno avuto la possibilità
di andarsene perché spaventati a morte ad uscire dalle porte, o perché
hanno scelto di rimanere.

Appena abbiamo preso questa nostra comune decisione, Azzam ci dice
invece che dobbiamo andare via. Lui non ha contatti con ogni gruppo
armato, solo con qualcuno. Vi sono molti motivi per i quali
bisognerebbe prendere accordi con tutti. Noi dobbiamo riportare
indietro a Baghdad la gente, al più presto possibile. Se noi veniamo
sequestrati o ammazzati diventeremo la causa di molti problemi, e
allora è cosa migliore che noi saliamo sul bus e che partiamo con lui
immediatamente.

Io sono incazzata e addolorata nel salire sul bus, quando il dottore ci
ha chiesto di andare e portare via quanta più gente possibile. Ho in
odio il fatto che un medico qualificato non possa muoversi con
l’ambulanza, mentre io mi posso muovere, solo perché posso sembrare la
sorella di un cecchino o uno dei suoi amici, ma questo è quello che
succede oggi e che succedeva ieri, e mi sento come un traditore che sta
fuggendo, ma non vedo come potrei scegliere diversamente. Vi è una
guerra oggi, e come straniera devo fare quello che mi è stato detto,
per cui devo andarmene.

Jassim è spaventato e sgomento. Egli arringa di continuo Mohammed,
cerca di tirarlo fuori dalla cabina di guida, mentre stiamo per
muoverci. La donna con la ferita d’arma da fuoco è sul sedile
posteriore, l’uomo con le ustioni le sta davanti, e viene ventilato con
un cartone degli scatoloni vuotati, la sua fleboclisi endovenosa
oscilla di continuo sul binario appeso al soffitto del bus. Fa caldo.
Per lui deve essere insopportabile.

Saad viene nel bus per augurarci buon viaggio. Stringe la mano di Dave
e poi la mia. Io trattengo la sua fra le mie e gli raccomando “Dir
balak”, abbi cura di te, come non potessi dire niente di più stupido ad
un Mujahedin preadolescente con un AK47 nell’altra sua mano, i nostri
occhi che si incontrano e si fissano, i suoi colmi di fuoco e di
terrore.

Perché non posso portarlo via? Perché non posso portarlo da qualche
parte dove possa essere un bambino? Perché non posso fargli una giraffa
con i palloncini e dargli qualche pennarello da disegnare e dirgli di
non dimenticarsi di usare lo spazzolino da denti? Perché non posso
incontrare la persona che ha messo il fucile nelle mani di questo
piccolo bambino? Perché non posso esprimermi con qualcuno su quello che
è dovuto a un bambino? Devo abbandonarlo in questo posto dove si
trovano uomini armati pesantemente che lo circondano e molti di loro
non sono al suo fianco? E senza dubbio io lo faccio. Io sto per
abbandonarlo, come in ogni parte del mondo si abbandonano i soldati
bambini.

La via del ritorno è carica di tensione, il bus si va quasi a bloccare
in una buca nella sabbia, la gente sta scappando usando qualsiasi
mezzo, anche ammassati sul rimorchio di un trattore, teorie di macchine
e di camioncini e di autobus che trasportano la gente verso l’incerto
rifugio di Baghdad, file di uomini in veicoli tutti in coda che
ritornano indietro, dopo aver portato in salvo le loro famiglie, o per
combattere o per aiutare altra gente a scappare. Il conducente, Jassim,
il padre, non ascolta Azzam e prende una strada differente in modo che
all’improvviso non seguiamo più la macchina di testa che ci fa da guida
e percorriamo una strada che è controllata da un diverso gruppo armato,
uno di quelli che ci conosce.

Una folla di uomini agita le armi per bloccare il bus. In certo qual
modo questi pensano evidentemente che vi siano soldati Americani nel
bus, come se non ce ne fossero abbastanza nei carri armati e negli
elicotteri, e vi sono uomini che escono dalle loro auto urlando “Sahafa
Amreeki,” giornalisti Americani. I passeggeri gridano dai finestrini,
“Ana min Falluja,” sono di Falluja. Uomini armati entrano nel bus e
vedono che è tutto vero, che vi sono ammalati e feriti e persone
anziane, Iracheni, e allora si calmano e ci fanno cenno di proseguire.

Noi ci fermiamo ad Abu Ghraib e ci scambiamo i posti, gli stranieri
davanti, gli Iracheni meno visibili, via le keffiyeh in modo da
assumere un aspetto più occidentale. I soldati Americani sono così
contenti di vedere occidentali, che non pensano troppo agli Iracheni
che stanno con noi, perquisiscono gli uomini e il bus, non
perquisiscono le donne perché non vi sono fra loro donne soldato che lo
possono fare. Mohammed continua a chiedermi se le cose stanno andando
in modo OK. “Al-melaach wiyana,” lo rassicuro. Gli angeli stanno con
noi. Lui si mette a ridere.

E quando arriviamo a Baghdad, depositandoli all’ospedale, Nuha scoppia
in lacrime quando viene portato fuori l’uomo ustionato, che si lamenta
e geme dal dolore. Lei pone le sue braccia attorno a me e mi chiede di
essere sua amica. Lei mi dice che la faccio sentire meno isolata, meno
sola.

E le notizie via satellite annunciano che si è ottenuto il cessate il
fuoco, e George Bush
aveva parlato alle truppe, la Domenica di Pasqua, “Io so che quello che
stiamo facendo in Iraq è giusto!” Sparare alla schiena di uomini
disarmati davanti alla porta di casa, davanti alle loro famiglie, è
giusto!? Sparare a nonne con la bandiera bianca, è giusto!?
Sparare a donne e a bambini che stanno fuggendo dalle loro case, è
giusto!? Fare fuoco sulle ambulanze, è giusto!?

Bene George, ora ho conosciuto abbastanza. Io so quello che appare,
quando tu brutalizzi la gente al punto che non hanno più nulla da
perdere. Io so quello che appare, quando un’operazione chirurgica viene
eseguita senza anestetico, visto che gli ospedali sono distrutti o
sotto il fuoco dei cecchini, e la città è sotto assedio e assolutamente
non è possibile portarle soccorso. Io so quello che si sente, anche
troppo. Io so quello che appare quando pallottole traccianti ti passano
sopra la testa, anche se ti trovi dentro ad una ambulanza. Io so quello
che appare quando un uomo giace a terra senza più torace e comincia a
puzzare e so quello che appare quando sua moglie e le sue bambine si
riversano fuori dalla loro casa.

Quello che appare è un crimine e una vergogna per tutti noi!

Jo Wilding
Centro di Osservazione sull’Occupazione in Iraq

http://www.occupationwatch.org/article.php?id=4105