www.resistenze.org - popoli resistenti - bosnia - 07-05-04
Da www.balkanpeace
traduz. a cura di E. Vigna ( Associazione SOS Yugoslavia)
Documentazione su Srebrenica
Quel che segue è l’analisi di un italiano che fu realmente sul terreno
bosniaco durante la guerra, ed in particolare nel corso della caduta di
Srebrenica.
Si può essere d’accordo oppure no con l’analisi politica, ma si
dovrebbe davvero leggere il resoconto di come Srebrenica cadde, su chi
sono le vittime i cui corpi sono stati sino a questo punto ritrovati, e
la ragione per cui l’autore crede che i serbi volessero sopraffare e
conquistare Srebrenica, mettendone in fuga i musulmani bosniaci,
piuttosto che avere nei loro confronti qualunque proponimento di
commettere una carneficina. E’ anche piuttosto istruttivo il confronto
Srebrenica e Krajina, così come la relazione mediatica che con esso ha
attinenza diffusasi tra la “stampa libera” in Occidente.
Vi sono scarsi dubbi sul fatto che almeno 2000 musulmani bosniaci
perirono nel combattere l’esercito serbo bosniaco. Permane tuttavia la
domanda, QUANDO si verificò la maggioranza di tali perdite? Stando
all’analisi sottostante, ciò avvenne prima della caduta definitiva di
Srebrenica; dove i musulmani opposero pochissima resistenza nell’estate
del 1995.
Carlos Martins Branco
Vorrei esprimere le mie opinioni riguardo gli eventi di Srebrenica.
Invio qui un articolo che ho scritto tempo fa , che rispecchia un modo
di accostarsi alla questione molto diverso da quello trasmesso dai
media occidentali, e dalla CNN in particolare. Ero UNMOs Deputy Chief
Operations Officers del UNPF (a livello di luogo in cui si svolgono le
azioni) e le mie informazioni si fondano sui rapporti successivi alle
operazioni militari dell’UNMOs che in quei giorni venivano spediti a
Srebrenica per posta, e su alcuni verbali dell’ONU non resi noti
all’opinione pubblica. Le mie fonti non sono Ruder & Finn Global Public
Affairs, che non include il mio nome nel suo database. Non voglio
dibattere di numeri e questioni simili. Tali argomenti non mi
interessano in alcun modo. Non vi sono informazioni attendibili, e le
cifre sono state usate e manipolate a fini propagandistici, non sono
orientati ad una seria comprensione del conflitto iugoslavo.
L’articolo si fonda su informazioni VERE e include la mia analisi degli
eventi. La storia è più lunga di quella dell’articolo, ho tuttavia
tentato di essere il più conciso possibile. Spero contribuisca a fare
ulteriore chiarezza su ciò che realmente accadde a Srebrenica e quel
che si celava al di sotto degli eventi, specialmente per quel che
riguarda l’atteggiamento dei mussulmani bosniaci. Credo fermamente che
Srebrenica possa costituire una sorta di modello, di esempio di
condotta bellica delle due fazioni che si combattono nel conflitto: da
una parte i musulmani bosniaci che provocano i serbi, tentando in tutti
i modi di convincere la comunità internazionale ad intervenire con la
forza contro i serbi in modo da risolvere la questione militare;
dall’altro lato la mancanza di intelligence all’interno della
leadership serba, che fornisce così ai musulmani le giustificazioni ed
i motivi che cercavano. So bene che ad alcuni di voi non piaceranno i
contenuti dell’articolo. Mi dispiace per loro.
L’accaduto di Srebrenica è stato un inganno?
Sono passati anni da quando l’enclave musulmana Srebrenica, è caduta
nelle mani dell’esercito serbo in Bosnia. Molto è stato scritto su tale
questione controversa. Nondimeno, la maggioranza dei resoconti si è
limitata ad una generica esposizione mediatica dell’accaduto,
apportandovi uno scarso rigore analitico. Un dibattito su Srebrenica
non può limitarsi al genocidio e alle fosse comuni, che costituiscono
un’evenienza quasi banale da un capo all’altro dell’ex-Jugoslavia.
Un’analisi rigorosa degli eventi deve prendere in considerazione il
retroterra culturale, le circostanze che hanno fatto da sfondo, così da
comprendere le reali motivazioni che hanno condotto alla caduta
dell’enclave.
La zona di Srebrenica, come quasi tutta la Bosnia orientale, è
caratterizzata da un terreno molto accidentato ed aspro. Scoscese
vallate con fitte foreste e profondi precipizi rendono impossibile il
passaggio ai mezzi di trasporto da guerra, avvantaggiando decisamente
le forze difensive. Date le risorse alla portata di entrambe le parti
e le caratteristiche del terreno, parve verosimile che l’esercito
bosniaco (ABiH) avesse la forza necessaria per attuare una strategia
difensiva, se si fosse fatto pieno ricorso al vantaggio offerto dalla
configurazione del territorio. Tuttavia, ciò non accadde.
Stabilito il vantaggio militare delle forze difensive, risulta molto
difficile spiegare l’assenza di una resistenza militare. Le forze
musulmane non instaurarono un sistema di difesa effettivo, e non
tentarono nemmeno di trarre vantaggio della loro artiglieria pesante,
sotto controllo delle forze delle Nazioni Unite (ONU), in un momento in
cui avrebbero avuto ogni ragione per fare ciò.
La mancanza di una risposta militare si colloca in netto contrasto con
l’assetto offensivo che caratterizzò le azioni delle forze di difesa
durante le precedenti situazioni di assedio, connotate dai tipici
“raids” violenti sferrati contro i villaggi serbi circostanti
l’enclave, causando in tal modo perdite gravose fra la popolazione
civile serba.
Ma in questo caso, con l’attenzione dei media che convergeva sull’area,
la difesa militare dell’enclave avrebbe svelato l’autentica situazione
delle zone di sicurezza, provando così che queste ultime non erano mai
state autenticamente demilitarizzate com’era stato rivendicato e come
si sosteneva, ma che al contrario davano protezione e nascondiglio ad
unità altamente militarizzate. Una resistenza militare avrebbe messo a
repentaglio l’immagine di “vittima” così accuratamente costruita, il
cui mantenimento i musulmani consideravano di capitale importanza.
Dall’inizio alla fine dell’intera operazione fu chiaro che esistevano
disaccordi radicali fra i leaders dell’enclave. Da un punto di vista
strettamente militare regnava il caos totale. ORIC, il carismatico
comandante di Srebrenica, era assente.
Il governo di Sarajevo non ne autorizzò il ritorno, così da poter
guidare la resistenza. Il potere militare cadde fra le mani dei suoi
luogotenenti, i quali avevano una lunga storia di incompatibilità. La
mancanza di una chiara leadership da parte di Oric condusse ad una
situazione di totale inettitudine. Gli ordini contraddittori dei suoi
successori paralizzarono completamente le forze sotto assedio.
Anche la condotta dei leaders politici risulta interessante. Il
presidente locale SDP, Zlatko Dukic, in un’intervista con gli
osservatori dell’Unione Europea, spiegò che Srebrenica era parte di una
transazione d’affari, di un negoziato che coinvolgeva una via di
supporto logistico verso Sarajevo, passante attraverso VOGOSCA. Affermò
anche che la caduta dell’enclave faceva parte di un’operazione militare
orchestrata per screditare l’Occidente e persuadere i paesi islamici,
al fine di ottenerne l’appoggio. Questa era dunque la motivazione per
cui ORIC si era tenuto a distanza dalle sue truppe. Tale tesi fu anche
sostenuta dai sostenitori locali del DAS. Correvano anche molte voci di
rapporti commerciali all’interno della popolazione locale dell’enclave.
Un altro aspetto curioso fu l’assenza di una reazione militare da parte
del 2° Corpo dell’esercito musulmano, che non fece nulla per attenuare
la pressione militare sull’enclave. Era risaputo che l’unità serba
nella regione, i “Drina Corps” fosse esausta, e che l’attacco a
Srebrenica sarebbe stato possibile soltanto mediante l’aiuto di unità
provenienti da altre regioni.
Ciononostante, Sarajevo non mosse un dito per sferrare un attacco che
avrebbe diviso le forze serbe ed esposto i punti vulnerabili creati
dalla concentrazione delle risorse attorno a Srebrenica. Un tale
attacco avrebbe ridotto la pressione militare gravante sull’enclave.
E’ anche importante notare il patetico appello del presidente di
Opstina, Osman Suljic, il 9 luglio, che implorava gli osservatori
militari di dire al mondo che i serbi stavano impiegando armi chimiche.
Il medesimo gentiluomo accusava più tardi i media di trasmettere false
notizie riguardo la resistenza delle truppe nell’enclave, richiedendo
un diniego da parte dell’ONU. Secondo Suljic, le truppe mussulmane non
rispondevano e non avrebbero mai risposto con l’artiglieria pesante.
Allo stesso tempo, egli lamentava la mancanza di derrate alimentari e
sottolineava la situazione dal punto di vista umanitario. Stranamente,
agli osservatori non fu mai permesso di ispezionare i depositi di
stoccaggio cibo. L’enfasi mostrata dai leaders politici sulla mancanza
di risposta militare e sull’assenza di provviste alimentari suggerisce
vagamente una politica ufficiale che iniziava a delinearsi, a
distinguersi.
Alla metà del 1995, il protrarsi della guerra aveva scoraggiato
l’interesse pubblico. Vi era stata una sostanziale riduzione nella
pressione dell’opinione pubblica delle democrazie occidentali. Un
incidente di tale rilievo avrebbe nondimeno fornito per settimane nuovo
materiale scottante per i media, risvegliando l’opinione pubblica ed
incitando nuove passioni. Sarebbe così stato possibile prendere due
piccioni con una fava: si sarebbe potuta rivelare la pressione in modo
da togliere l’embargo, ed allo stesso tempo sarebbe stato difficile per
i paesi occupanti ritirare le loro forze, un’ipotesi quest’ultima
avanzata dai vertici dell’ONU, e cioè da personalità come Akashi e
Boutros-Boutros Ghali.
Nei musulmani albergava da sempre una segreta speranza riguardo il
sollevamento dall’embargo. Ciò era divenuto l’obiettivo principale del
governo di Sarajevo, alimentato dal voto al Senato e Congresso USA a
favore di tale misura. Tuttavia, il presidente Clinton pose il veto
alla decisione e richiese una maggioranza dei due terzi in entrambe le
Camere.
Il collasso delle enclaves costituì la pressione decisiva di cui la
campagna necessitava. A seguito di tale caduta, il Senato statunitense
votò con un maggioranza di oltre due terzi a favore dell’eliminazione
dell’embargo. Era chiaro, inevitabile, che prima o poi le enclaves
sarebbero cadute sotto il controllo serbo. Vi era consenso fra i
negoziatori (l’amministrazione USA, l’ONU e i governi europei) sul
fatto che fosse impossibile mantenere le tre enclaves mussulmane, e che
queste ultime si sarebbero dovute cedere in cambio di territori della
Bosnia centrale. In molteplici occasioni, fu Madeleine Albright a
proporre a Izetbegovic tale scambio, basato sulla proposta del gruppo
di contatto. All’inizio del 1993, primo momento di crisi dell’enclave,
Karadzic aveva proposto ad Izetbegovic di scambiare Srebrenica con le
zone periferiche attorno a Vogosca. Tale scambio includeva il movimento
di popolazioni in entrambe le direzioni. Questo era l’obiettivo cui
miravano i negoziati segreti, per evitare pubblicità indesiderata. Ciò
implicava che i paesi occidentali accettassero ed incoraggiassero la
separazione etnica.
La verità è che sia gli americani che il presidente Izetbegovic erano
tacitamente convenuti alla decisione che non aveva senso insistere con
la permanenza di tali enclaves isolate in una Bosnia divisa. Nel 1995
nessuno credeva più nell’inevitabilità di una divisione etnica del
territorio. Nel mese di giugno 1995, prima dell’operazione militare in
Srebrenica, Alexander Vershbow, assistente speciale del presidente
Clinton, dichiarava che “l’America dovrebbe incoraggiare i bosniaci a
pensare in termini di territori con maggiore coerenza e compattezza
territoriale.” In altre parole ciò stava a significare che si sarebbero
dovute dimenticare le enclaves. L’attacco a Srebrenica, attuato senza
aiuto da parte di Belgrado, fu del tutto inutile, e ha esemplificato al
massimo grado il fallimento politico della leadership serba.
Nel mentre, i media occidentali esacerbavano la situazione trasformando
le enclaves in una potente icona ad uso e consumo dei media; situazione
che Izetbegovic avrebbe presto esaminato attentamente.
La CNN trasmetteva quotidianamente le immagini di fosse comuni per
migliaia di corpi, ottenute da satelliti spia. Nonostante la precisione
microscopica nella localizzazione di tali fosse, risulta certo che
nessuna scoperta ha sinora confermato tali sospetti. Poiché non
sussistono più restrizioni di movimento, è inevitabile che si facciano
congetture, che si mediti sul perché esse non siano state ancora
mostrate al mondo.
Se vi fosse stato un piano premeditato di genocidio, invece di
attaccare in un’unica direzione, da sud verso nord – che lasciava adito
all’ipotesi di fuga verso nord e ovest, i serbi si sarebbero insediati
in maniera tale da impedire a chiunque di sfuggire loro. I posti di
osservazione dell’ONU a nord dell’enclave non furono mai disturbati e
protrassero la loro attività anche al termine delle operazioni militari.
Esistono ovviamente fosse comuni alla periferia di Srebrenica, come nel
resto della ex-Yugoslavia, laddove hanno avuto luogo i combattimenti,
ma non sussistono argomenti ragionevoli per la campagna che è stata
montata, e nemmeno per i numeri avanzati dalla CNN.
Le fosse comuni sono riempite da un numero limitato di corpi da
entrambe le parti, conseguenza di battaglie e combattimenti animati, ma
non risultato di un piano premeditato di genocidio, come si è invece
verificato per le popolazioni serbe di Krajina nell’estate del 1995,
quando l’esercito croato portò a termine uno sterminio di massa di
tutti i serbi che là si trovavano.
In questo caso, i media serbarono un silenzio assoluto, nonostante il
fatto che il genocidio si fosse protratto lungo un periodo di tre mesi.
L’obiettivo di Srebrenica era la pulizia etnica e non il genocidio, a
differenza di ciò che accadde in Krajina, dove benché non vi fosse
stata azione militare, l’esercito croato decimò i villaggi.
Nonostante si sapesse che le enclaves erano già una causa persa,
Sarajevo insistette nel trarre dividendi politici dal fatto. La
ricettività che era stata creata negli occhi dell’opinione pubblica
rendeva più semplice vendere la tesi del genocidio.
Quel che rivestì ancora una maggiore importanza della tesi del
genocidio e dell’isolamento politico dei serbi fu il ricatto teso
all’ONU: o quest’ultimo avrebbe unito le forze del proprio contingente
a quelle del governo di Sarajevo nell’economia del conflitto (quel che
in seguito si verificò) oppure l’organismo ONU sarebbe stato
completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica, inducendola
successivamente ad appoggiare la Bosnia.
Srebrenica fu il colmo che indusse i governi occidentali a cercare e
raggiungere un accordo per la necessità di porre fine alla loro
condizione di neutralità ed intraprendere un’azione militare
schierandosi con una delle due parti in conflitto. Fu la goccia che
fece traboccare il vaso, ciò che unì l’Occidente nel suo desiderio di
rompere “la bestialità serba”. Sarajevo era conscia di mancare della
capacità militare necessaria a distruggere i serbi. Era necessario
creare le condizioni attraverso le quali la comunità internazionale
avrebbe agito per essa. Srebrenica assunse un ruolo vitale in tale
processo.
Srebrenica rappresenta un atto all’interno di una serie attuata dai
leaders serbi, che intendevano provocare l’ONU, dimostrando in questo
modo la loro impotenza. Fu un errore strategico che sarebbe costato
loro caro. Fra i due contendenti, colui che traeva tutto il suo
guadagno dal dimostrare l’impotenza delle Nazioni Unite era la
leadership di Sarajevo e non quella di Pale. Nel 1995 era chiaro che il
mutamento dello status quo richiedesse un intervento potente in grado
di rovesciare il potere militare serbo.
Srebrenica fu uno di tali pretesti, conseguenza della ristrettezza di
vedute dei leaders serbi bosniaci.
Guidate con sapienza, le forze assediate avrebbero potuto difendere
l’enclave con facilità, almeno per molto tempo ancora. Si rivelò
conveniente lasciare che l’enclave cadesse in tal modo.
Poiché l’enclave era condannata a cadere, si preferì lasciare che ciò
accadesse nella maniera più vantaggiosa. Ma ciò sarebbe stato fattibile
soltanto se Sarajevo avesse avuto iniziativa politica e libertà di
movimento, eventualità che non si sarebbe mai verificata attorno al
tavolo dei negoziati. La caduta deliberata dell’enclave potrebbe
apparire come un terribile atto di orchestrazione machiavellica, ma la
realtà è che il governo di Sarajevo aveva molto da guadagnare, come fu
dimostrato. Srebrenica non fu un intrigo, un disegno senza conseguenze.
I serbi ottennero una vittoria militare che ebbe però effetti
collaterali altamente negativi sul piano politico, che portarono al
loro definitivo ostracismo.
Potremmo aggiungere una singolare nota conclusiva. Non appena le
postazioni degli osservatori Onu furono attaccate e si rivelarono
impossibili da mantenere, le forze si ritirarono. Le barricate
innalzate dall’esercito musulmano non fecero passare le truppe. Queste
ultime non furono trattate come soldati in fuga dal fronte, ma
piuttosto con una sordida differenziazione.
Non soltanto i musulmani si rifiutarono di combattere per difendere
loro stessi, essi obbligarono altri a combattere in loro nome. In un
caso, il comandante di un veicolo olandese decise, dopo alcune
conversazioni con l’ABiH, di oltrepassare la barriera. Un soldato
musulmano lanciò una granata da mano i cui frammenti lo ferirono a
morte. L’unico soldato ONU che morì nell’offensiva di Srebrenica fu
ucciso dai musulmani.
Carlos Martins Branco European University Institute
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Badia Fiesolana, Italia
Da www.balkanpeace
traduz. a cura di E. Vigna ( Associazione SOS Yugoslavia)
Documentazione su Srebrenica
Quel che segue è l’analisi di un italiano che fu realmente sul terreno
bosniaco durante la guerra, ed in particolare nel corso della caduta di
Srebrenica.
Si può essere d’accordo oppure no con l’analisi politica, ma si
dovrebbe davvero leggere il resoconto di come Srebrenica cadde, su chi
sono le vittime i cui corpi sono stati sino a questo punto ritrovati, e
la ragione per cui l’autore crede che i serbi volessero sopraffare e
conquistare Srebrenica, mettendone in fuga i musulmani bosniaci,
piuttosto che avere nei loro confronti qualunque proponimento di
commettere una carneficina. E’ anche piuttosto istruttivo il confronto
Srebrenica e Krajina, così come la relazione mediatica che con esso ha
attinenza diffusasi tra la “stampa libera” in Occidente.
Vi sono scarsi dubbi sul fatto che almeno 2000 musulmani bosniaci
perirono nel combattere l’esercito serbo bosniaco. Permane tuttavia la
domanda, QUANDO si verificò la maggioranza di tali perdite? Stando
all’analisi sottostante, ciò avvenne prima della caduta definitiva di
Srebrenica; dove i musulmani opposero pochissima resistenza nell’estate
del 1995.
Carlos Martins Branco
Vorrei esprimere le mie opinioni riguardo gli eventi di Srebrenica.
Invio qui un articolo che ho scritto tempo fa , che rispecchia un modo
di accostarsi alla questione molto diverso da quello trasmesso dai
media occidentali, e dalla CNN in particolare. Ero UNMOs Deputy Chief
Operations Officers del UNPF (a livello di luogo in cui si svolgono le
azioni) e le mie informazioni si fondano sui rapporti successivi alle
operazioni militari dell’UNMOs che in quei giorni venivano spediti a
Srebrenica per posta, e su alcuni verbali dell’ONU non resi noti
all’opinione pubblica. Le mie fonti non sono Ruder & Finn Global Public
Affairs, che non include il mio nome nel suo database. Non voglio
dibattere di numeri e questioni simili. Tali argomenti non mi
interessano in alcun modo. Non vi sono informazioni attendibili, e le
cifre sono state usate e manipolate a fini propagandistici, non sono
orientati ad una seria comprensione del conflitto iugoslavo.
L’articolo si fonda su informazioni VERE e include la mia analisi degli
eventi. La storia è più lunga di quella dell’articolo, ho tuttavia
tentato di essere il più conciso possibile. Spero contribuisca a fare
ulteriore chiarezza su ciò che realmente accadde a Srebrenica e quel
che si celava al di sotto degli eventi, specialmente per quel che
riguarda l’atteggiamento dei mussulmani bosniaci. Credo fermamente che
Srebrenica possa costituire una sorta di modello, di esempio di
condotta bellica delle due fazioni che si combattono nel conflitto: da
una parte i musulmani bosniaci che provocano i serbi, tentando in tutti
i modi di convincere la comunità internazionale ad intervenire con la
forza contro i serbi in modo da risolvere la questione militare;
dall’altro lato la mancanza di intelligence all’interno della
leadership serba, che fornisce così ai musulmani le giustificazioni ed
i motivi che cercavano. So bene che ad alcuni di voi non piaceranno i
contenuti dell’articolo. Mi dispiace per loro.
L’accaduto di Srebrenica è stato un inganno?
Sono passati anni da quando l’enclave musulmana Srebrenica, è caduta
nelle mani dell’esercito serbo in Bosnia. Molto è stato scritto su tale
questione controversa. Nondimeno, la maggioranza dei resoconti si è
limitata ad una generica esposizione mediatica dell’accaduto,
apportandovi uno scarso rigore analitico. Un dibattito su Srebrenica
non può limitarsi al genocidio e alle fosse comuni, che costituiscono
un’evenienza quasi banale da un capo all’altro dell’ex-Jugoslavia.
Un’analisi rigorosa degli eventi deve prendere in considerazione il
retroterra culturale, le circostanze che hanno fatto da sfondo, così da
comprendere le reali motivazioni che hanno condotto alla caduta
dell’enclave.
La zona di Srebrenica, come quasi tutta la Bosnia orientale, è
caratterizzata da un terreno molto accidentato ed aspro. Scoscese
vallate con fitte foreste e profondi precipizi rendono impossibile il
passaggio ai mezzi di trasporto da guerra, avvantaggiando decisamente
le forze difensive. Date le risorse alla portata di entrambe le parti
e le caratteristiche del terreno, parve verosimile che l’esercito
bosniaco (ABiH) avesse la forza necessaria per attuare una strategia
difensiva, se si fosse fatto pieno ricorso al vantaggio offerto dalla
configurazione del territorio. Tuttavia, ciò non accadde.
Stabilito il vantaggio militare delle forze difensive, risulta molto
difficile spiegare l’assenza di una resistenza militare. Le forze
musulmane non instaurarono un sistema di difesa effettivo, e non
tentarono nemmeno di trarre vantaggio della loro artiglieria pesante,
sotto controllo delle forze delle Nazioni Unite (ONU), in un momento in
cui avrebbero avuto ogni ragione per fare ciò.
La mancanza di una risposta militare si colloca in netto contrasto con
l’assetto offensivo che caratterizzò le azioni delle forze di difesa
durante le precedenti situazioni di assedio, connotate dai tipici
“raids” violenti sferrati contro i villaggi serbi circostanti
l’enclave, causando in tal modo perdite gravose fra la popolazione
civile serba.
Ma in questo caso, con l’attenzione dei media che convergeva sull’area,
la difesa militare dell’enclave avrebbe svelato l’autentica situazione
delle zone di sicurezza, provando così che queste ultime non erano mai
state autenticamente demilitarizzate com’era stato rivendicato e come
si sosteneva, ma che al contrario davano protezione e nascondiglio ad
unità altamente militarizzate. Una resistenza militare avrebbe messo a
repentaglio l’immagine di “vittima” così accuratamente costruita, il
cui mantenimento i musulmani consideravano di capitale importanza.
Dall’inizio alla fine dell’intera operazione fu chiaro che esistevano
disaccordi radicali fra i leaders dell’enclave. Da un punto di vista
strettamente militare regnava il caos totale. ORIC, il carismatico
comandante di Srebrenica, era assente.
Il governo di Sarajevo non ne autorizzò il ritorno, così da poter
guidare la resistenza. Il potere militare cadde fra le mani dei suoi
luogotenenti, i quali avevano una lunga storia di incompatibilità. La
mancanza di una chiara leadership da parte di Oric condusse ad una
situazione di totale inettitudine. Gli ordini contraddittori dei suoi
successori paralizzarono completamente le forze sotto assedio.
Anche la condotta dei leaders politici risulta interessante. Il
presidente locale SDP, Zlatko Dukic, in un’intervista con gli
osservatori dell’Unione Europea, spiegò che Srebrenica era parte di una
transazione d’affari, di un negoziato che coinvolgeva una via di
supporto logistico verso Sarajevo, passante attraverso VOGOSCA. Affermò
anche che la caduta dell’enclave faceva parte di un’operazione militare
orchestrata per screditare l’Occidente e persuadere i paesi islamici,
al fine di ottenerne l’appoggio. Questa era dunque la motivazione per
cui ORIC si era tenuto a distanza dalle sue truppe. Tale tesi fu anche
sostenuta dai sostenitori locali del DAS. Correvano anche molte voci di
rapporti commerciali all’interno della popolazione locale dell’enclave.
Un altro aspetto curioso fu l’assenza di una reazione militare da parte
del 2° Corpo dell’esercito musulmano, che non fece nulla per attenuare
la pressione militare sull’enclave. Era risaputo che l’unità serba
nella regione, i “Drina Corps” fosse esausta, e che l’attacco a
Srebrenica sarebbe stato possibile soltanto mediante l’aiuto di unità
provenienti da altre regioni.
Ciononostante, Sarajevo non mosse un dito per sferrare un attacco che
avrebbe diviso le forze serbe ed esposto i punti vulnerabili creati
dalla concentrazione delle risorse attorno a Srebrenica. Un tale
attacco avrebbe ridotto la pressione militare gravante sull’enclave.
E’ anche importante notare il patetico appello del presidente di
Opstina, Osman Suljic, il 9 luglio, che implorava gli osservatori
militari di dire al mondo che i serbi stavano impiegando armi chimiche.
Il medesimo gentiluomo accusava più tardi i media di trasmettere false
notizie riguardo la resistenza delle truppe nell’enclave, richiedendo
un diniego da parte dell’ONU. Secondo Suljic, le truppe mussulmane non
rispondevano e non avrebbero mai risposto con l’artiglieria pesante.
Allo stesso tempo, egli lamentava la mancanza di derrate alimentari e
sottolineava la situazione dal punto di vista umanitario. Stranamente,
agli osservatori non fu mai permesso di ispezionare i depositi di
stoccaggio cibo. L’enfasi mostrata dai leaders politici sulla mancanza
di risposta militare e sull’assenza di provviste alimentari suggerisce
vagamente una politica ufficiale che iniziava a delinearsi, a
distinguersi.
Alla metà del 1995, il protrarsi della guerra aveva scoraggiato
l’interesse pubblico. Vi era stata una sostanziale riduzione nella
pressione dell’opinione pubblica delle democrazie occidentali. Un
incidente di tale rilievo avrebbe nondimeno fornito per settimane nuovo
materiale scottante per i media, risvegliando l’opinione pubblica ed
incitando nuove passioni. Sarebbe così stato possibile prendere due
piccioni con una fava: si sarebbe potuta rivelare la pressione in modo
da togliere l’embargo, ed allo stesso tempo sarebbe stato difficile per
i paesi occupanti ritirare le loro forze, un’ipotesi quest’ultima
avanzata dai vertici dell’ONU, e cioè da personalità come Akashi e
Boutros-Boutros Ghali.
Nei musulmani albergava da sempre una segreta speranza riguardo il
sollevamento dall’embargo. Ciò era divenuto l’obiettivo principale del
governo di Sarajevo, alimentato dal voto al Senato e Congresso USA a
favore di tale misura. Tuttavia, il presidente Clinton pose il veto
alla decisione e richiese una maggioranza dei due terzi in entrambe le
Camere.
Il collasso delle enclaves costituì la pressione decisiva di cui la
campagna necessitava. A seguito di tale caduta, il Senato statunitense
votò con un maggioranza di oltre due terzi a favore dell’eliminazione
dell’embargo. Era chiaro, inevitabile, che prima o poi le enclaves
sarebbero cadute sotto il controllo serbo. Vi era consenso fra i
negoziatori (l’amministrazione USA, l’ONU e i governi europei) sul
fatto che fosse impossibile mantenere le tre enclaves mussulmane, e che
queste ultime si sarebbero dovute cedere in cambio di territori della
Bosnia centrale. In molteplici occasioni, fu Madeleine Albright a
proporre a Izetbegovic tale scambio, basato sulla proposta del gruppo
di contatto. All’inizio del 1993, primo momento di crisi dell’enclave,
Karadzic aveva proposto ad Izetbegovic di scambiare Srebrenica con le
zone periferiche attorno a Vogosca. Tale scambio includeva il movimento
di popolazioni in entrambe le direzioni. Questo era l’obiettivo cui
miravano i negoziati segreti, per evitare pubblicità indesiderata. Ciò
implicava che i paesi occidentali accettassero ed incoraggiassero la
separazione etnica.
La verità è che sia gli americani che il presidente Izetbegovic erano
tacitamente convenuti alla decisione che non aveva senso insistere con
la permanenza di tali enclaves isolate in una Bosnia divisa. Nel 1995
nessuno credeva più nell’inevitabilità di una divisione etnica del
territorio. Nel mese di giugno 1995, prima dell’operazione militare in
Srebrenica, Alexander Vershbow, assistente speciale del presidente
Clinton, dichiarava che “l’America dovrebbe incoraggiare i bosniaci a
pensare in termini di territori con maggiore coerenza e compattezza
territoriale.” In altre parole ciò stava a significare che si sarebbero
dovute dimenticare le enclaves. L’attacco a Srebrenica, attuato senza
aiuto da parte di Belgrado, fu del tutto inutile, e ha esemplificato al
massimo grado il fallimento politico della leadership serba.
Nel mentre, i media occidentali esacerbavano la situazione trasformando
le enclaves in una potente icona ad uso e consumo dei media; situazione
che Izetbegovic avrebbe presto esaminato attentamente.
La CNN trasmetteva quotidianamente le immagini di fosse comuni per
migliaia di corpi, ottenute da satelliti spia. Nonostante la precisione
microscopica nella localizzazione di tali fosse, risulta certo che
nessuna scoperta ha sinora confermato tali sospetti. Poiché non
sussistono più restrizioni di movimento, è inevitabile che si facciano
congetture, che si mediti sul perché esse non siano state ancora
mostrate al mondo.
Se vi fosse stato un piano premeditato di genocidio, invece di
attaccare in un’unica direzione, da sud verso nord – che lasciava adito
all’ipotesi di fuga verso nord e ovest, i serbi si sarebbero insediati
in maniera tale da impedire a chiunque di sfuggire loro. I posti di
osservazione dell’ONU a nord dell’enclave non furono mai disturbati e
protrassero la loro attività anche al termine delle operazioni militari.
Esistono ovviamente fosse comuni alla periferia di Srebrenica, come nel
resto della ex-Yugoslavia, laddove hanno avuto luogo i combattimenti,
ma non sussistono argomenti ragionevoli per la campagna che è stata
montata, e nemmeno per i numeri avanzati dalla CNN.
Le fosse comuni sono riempite da un numero limitato di corpi da
entrambe le parti, conseguenza di battaglie e combattimenti animati, ma
non risultato di un piano premeditato di genocidio, come si è invece
verificato per le popolazioni serbe di Krajina nell’estate del 1995,
quando l’esercito croato portò a termine uno sterminio di massa di
tutti i serbi che là si trovavano.
In questo caso, i media serbarono un silenzio assoluto, nonostante il
fatto che il genocidio si fosse protratto lungo un periodo di tre mesi.
L’obiettivo di Srebrenica era la pulizia etnica e non il genocidio, a
differenza di ciò che accadde in Krajina, dove benché non vi fosse
stata azione militare, l’esercito croato decimò i villaggi.
Nonostante si sapesse che le enclaves erano già una causa persa,
Sarajevo insistette nel trarre dividendi politici dal fatto. La
ricettività che era stata creata negli occhi dell’opinione pubblica
rendeva più semplice vendere la tesi del genocidio.
Quel che rivestì ancora una maggiore importanza della tesi del
genocidio e dell’isolamento politico dei serbi fu il ricatto teso
all’ONU: o quest’ultimo avrebbe unito le forze del proprio contingente
a quelle del governo di Sarajevo nell’economia del conflitto (quel che
in seguito si verificò) oppure l’organismo ONU sarebbe stato
completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica, inducendola
successivamente ad appoggiare la Bosnia.
Srebrenica fu il colmo che indusse i governi occidentali a cercare e
raggiungere un accordo per la necessità di porre fine alla loro
condizione di neutralità ed intraprendere un’azione militare
schierandosi con una delle due parti in conflitto. Fu la goccia che
fece traboccare il vaso, ciò che unì l’Occidente nel suo desiderio di
rompere “la bestialità serba”. Sarajevo era conscia di mancare della
capacità militare necessaria a distruggere i serbi. Era necessario
creare le condizioni attraverso le quali la comunità internazionale
avrebbe agito per essa. Srebrenica assunse un ruolo vitale in tale
processo.
Srebrenica rappresenta un atto all’interno di una serie attuata dai
leaders serbi, che intendevano provocare l’ONU, dimostrando in questo
modo la loro impotenza. Fu un errore strategico che sarebbe costato
loro caro. Fra i due contendenti, colui che traeva tutto il suo
guadagno dal dimostrare l’impotenza delle Nazioni Unite era la
leadership di Sarajevo e non quella di Pale. Nel 1995 era chiaro che il
mutamento dello status quo richiedesse un intervento potente in grado
di rovesciare il potere militare serbo.
Srebrenica fu uno di tali pretesti, conseguenza della ristrettezza di
vedute dei leaders serbi bosniaci.
Guidate con sapienza, le forze assediate avrebbero potuto difendere
l’enclave con facilità, almeno per molto tempo ancora. Si rivelò
conveniente lasciare che l’enclave cadesse in tal modo.
Poiché l’enclave era condannata a cadere, si preferì lasciare che ciò
accadesse nella maniera più vantaggiosa. Ma ciò sarebbe stato fattibile
soltanto se Sarajevo avesse avuto iniziativa politica e libertà di
movimento, eventualità che non si sarebbe mai verificata attorno al
tavolo dei negoziati. La caduta deliberata dell’enclave potrebbe
apparire come un terribile atto di orchestrazione machiavellica, ma la
realtà è che il governo di Sarajevo aveva molto da guadagnare, come fu
dimostrato. Srebrenica non fu un intrigo, un disegno senza conseguenze.
I serbi ottennero una vittoria militare che ebbe però effetti
collaterali altamente negativi sul piano politico, che portarono al
loro definitivo ostracismo.
Potremmo aggiungere una singolare nota conclusiva. Non appena le
postazioni degli osservatori Onu furono attaccate e si rivelarono
impossibili da mantenere, le forze si ritirarono. Le barricate
innalzate dall’esercito musulmano non fecero passare le truppe. Queste
ultime non furono trattate come soldati in fuga dal fronte, ma
piuttosto con una sordida differenziazione.
Non soltanto i musulmani si rifiutarono di combattere per difendere
loro stessi, essi obbligarono altri a combattere in loro nome. In un
caso, il comandante di un veicolo olandese decise, dopo alcune
conversazioni con l’ABiH, di oltrepassare la barriera. Un soldato
musulmano lanciò una granata da mano i cui frammenti lo ferirono a
morte. L’unico soldato ONU che morì nell’offensiva di Srebrenica fu
ucciso dai musulmani.
Carlos Martins Branco European University Institute
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Badia Fiesolana, Italia