il manifesto - 19 Maggio 2004
Un'illusione da superpotenza
A un anno dal saggio «Dopo l'impero», Emmanuel Todd torna ad analizzare
la decomposizione del sistema americano con «L'illusione economica». Un
incontro con il sociologo e demografo francese che spiega la sua
«profezia» del crollo a breve termine dell'egemonia americana
STEFANO LIBERTI
«Tra dieci o vent'anni nessuno parlerà più di impero americano».
Emmanuel Todd, sociologo e demografo francese formatosi all'università
di Cambridge, ha il tono fermo e sicuro. Già assurto agli onori delle
cronache alla fine degli anni Settanta per aver previsto con grande
anticipo e in splendida solitudine il dissolvimento dell'Unione
sovietica, ritenta il colpaccio e predice la fine a breve termine della
superpotenza unica. La sua tesi, espressa in un libro uscito l'anno
scorso (Dopo l'impero, Marco Tropea, 13 euro), riceve oggi una nuova
sistematizzazione con la pubblicazione dell'edizione riveduta e
corretta di un saggio che lo studioso aveva scritto nel 1998
(L'illusione economica, Marco Tropea, 13 euro), in cui tracciava le
linee teoriche del declino dell'egemonia degli Stati uniti. Secondo il
suo schema, quella statunitense è una superpotenza dai piedi argilla,
drogata da un deficit commerciale senza precedenti e da un drammatico
divario tra un consumo ipertrofico e una produzione a dir poco stitica.
Insostenibile dal punto di vista economico, questo sistema può essere
tenuto in piedi solo dalla conservazione di una supremazia politica che
passa per una sorta di «strategia della tensione planetaria»:
Washington cerca cioè di persuadere i suoi principali alleati -
l'Europa e il Giappone - della necessità del suo primato militare per
arginare le mire distruttive di pericolosi e infidi stati canaglia. Si
tratta di una linea d'azione che lo studioso definisce
«micro-militarismo teatrale», in base alla quale gli Stati uniti mirano
a mantenere l'egemonia schiacciando avversari insignificanti. È proprio
da questo aspetto che partiamo per una lunga conversazione con Todd nel
salotto del suo appartamento parigino.
L'occupazione dell'Iraq sta costando cara agli americani, sia in
termini di vite umane che finanziari. Più che di un intervento di
facciata sembra il caso di parlare di un'operazione bellica in grande
stile. Come si concilia questo scenario con la sua teoria?
Credo che, all'inizio, l'idea di andare in Iraq rispondesse
perfettamente alla dottrina del micro-militarismo. Se la Germania e la
Francia non avessero detto di no, gli Stati uniti avrebbero bombardato
Baghdad con l'approvazione delle Nazioni unite e con i soldi degli
alleati. Alla fine delle operazioni, sarebbero state mandate le truppe
di altri paesi a pattugliare il terreno, come accade oggi in Bosnia e
in Kosovo. Si sarebbe cioè verificata la stessa situazione della guerra
del Golfo del 1991 o degli interventi nella ex Jugoslavia. A un certo
punto, però, le cose hanno preso una piega imprevista: Parigi e Berlino
si sono opposte, persino la fedelissima Turchia non ha permesso il
transito delle truppe sul suo territorio. Nel momento in cui gli
alleati si sono tirati indietro, le élite americane avrebbero dovuto
capire che l'intervento in Iraq si sarebbe rivelato controproducente.
Avrebbero dovuto fermarsi. E, in tutta franchezza, io pensavo che si
sarebbero fermate. Questo è il principale punto debole della mia
teoria: è troppo razionale. Per la sua elaborazione, mi sono fatto
influenzare dalla lettura degli strateghi realisti americani, senza
tener conto che oggi negli Stati uniti il potere è in mano a ideologi
che agiscono in base a impulsi spesso irrazionali.
La guerra in Iraq sarebbe quindi una mossa irrazionale da parte di una
superpotenza in crisi? Nella decisione di intervenire non avranno
pesato di più ragioni di carattere geopolitico o strategico?
In generale respingo quelle visioni che sopravvalutano la potenza
americana individuando un disegno coerente e occulto in tutte le sue
mosse. Interpretazioni di questo tipo ci impediscono di penetrare il
mistero della politica estera statunitense, la cui soluzione va
ricercata dal lato della debolezza, non da quello della potenza. Credo
che la vicenda irachena segni una svolta semplicemente perché si è
passati da una strategia della tensione diplomatica a una pratica reale
della guerra. Si tratta di una fase avanzata, che mostra il sempre
maggiore spaesamento di una potenza in affanno. E che, a mio avviso,
non farà che accelerare il crollo finale. Questo è il grande paradosso:
Bush e i neo-conservatori, che sono coloro che più sfacciatamente hanno
portato avanti una strategia imperialista, passeranno alla storia come
i becchini dell'impero americano.
Ritiene davvero il crollo finale così vicino?
Mi sento di dire che la tendenza è già iniziata. Basta guardare le
continue sconfitte diplomatiche americane: la formazione dell'asse
franco-tedesco, il no turco, il ritiro degli spagnoli. Tutti questi
fallimenti sono stati possibili perché Washington non ha i mezzi
finanziari per punire i recalcitranti. Il che ci mostra una grande
verità, raramente messa in luce: non sono gli altri a dipendere dagli
Stati uniti, ma piuttosto il contrario. Venuta meno la supremazia
politica, la grande bolla americana si sgonfierà rapidamente.
Quali sono gli elementi in base ai quali giudica ineluttabile la fine
dell'egemonia americana?
L'analisi del declino dell'impero va condotta su due piani diversi,
strettamente interconnessi. Da una parte, dal punto di vista economico,
gli Stati uniti non hanno futuro: Washington ha un disavanzo
commerciale di diversi miliardi di dollari con quasi tutti i paesi
importanti del mondo. Se rapportiamo tale deficit alla produzione
industriale, vediamo che gli Usa dipendono per il 10 per cento del loro
consumo industriale da beni la cui importazione non è coperta
dall'esportazione di prodotti nazionali. Si tratta di un processo
rapidissimo, se si pensa che dieci anni fa questo deficit era ancora
del 5 per cento e che, soprattutto, alla vigilia della depressione del
1929 negli Stati uniti era concentrata quasi la metà della produzione
manifatturiera mondiale. A questo calo produttivo corrisponde poi un
degrado culturale: il livello di istruzione della popolazione americana
è oggi in caduta libera. Qualche giorno fa sul New York Times c'era un
articolo che riportava con inquietudine la notizia che gli americani
erano stati superati dagli europei in termini di pubblicazioni
scientifiche. Quando si parla di pubblicazioni, si fa riferimento a
ricercatori affermati. È solo la punta visibile di un iceberg, il segno
evidente di un processo cominciato diversi anni prima.
A quando si può far risalire l'inizio del riflusso?
L'ingresso degli Stati uniti in una fase di ristagno culturale è un
processo lento e progressivo che si afferma tra il 1980 e il 1990, ma
che giunge a compimento solo verso il 2000. Questo abbassamento del
livello culturale è alla base di diversi fenomeni regressivi che si
manifestano a partire dagli anni Ottanta: l'aumento del numero dei
detenuti e della condanne a morte, la ricomparsa dei creazionisti
ostili alle teorie di Darwin, la rimessa in discussione dell'aborto, il
successo di un cinema d'azione violento e sanguinario... È nello stesso
periodo che Washington ha cominciato ad attuare il micro-militarismo
teatrale, a condurre o minacciare guerre in zone remote del mondo.
Questi interventi sono volti a riaffermare l'egemonia, a consolidare
quello che nel 1991 veniva definito con enfasi il «nuovo ordine
mondiale». Ma hanno anche un'utilità in chiave interna. Da un punto di
vista strettamente psicoanalitico, queste azioni militari sembrano
poter rispondere alla definizione di sacrificio fornita da René Girard:
non espongono l'officiante e il suo pubblico ad alcuna rappresaglia, ma
consentono di espellere all'esterno la violenza della comunità.
Dalle sue parole, sembra di capire che il crollo è cominciato in
concomitanza con la fine della guerra fredda. È come se la dissoluzione
dell'Unione sovietica dovesse necessariamente determinare quella
dell'altro grande impero...
In effetti i due sistemi si sono supportati e indeboliti a vicenda.
L'esistenza di un'ideologia universalista come quella comunista ha
spinto i dirigenti occidentali a portare avanti un modello di
capitalismo controllato, in cui le disuguaglianze venivano limitate.
Una tendenza che, con il venir meno dell'Unione sovietica, è stata
bloccata. Inoltre, la vittoria della guerra fredda ha generato
un'euforia incredibile tra gli americani e interrotto ogni riflessione
critica sulle debolezze del loro sistema. In un certo senso potremmo
dire che il crollo dell'Urss ha dato il colpo di grazia agli Stati
uniti: i dirigenti americani hanno vissuto dieci anni nell'illusione
della superpotenza e non hanno minimamente pensato a ristrutturare il
proprio apparato economico ed educativo. In questo contesto, non ci si
può sorprendere che i responsabili politici comincino a comportarsi in
modo irrazionale; si rifugiano nella religione e fanno errori di
valutazione giganteschi.
L'attuale fase di smarrimento è frutto di scelte sbagliate di dirigenti
incompetenti o il segno di una deriva generalizzata della società
statunitense?
Non credo ci siano dubbi che Bush e i suoi consiglieri neo-conservatori
abbiano un problema di carattere intellettuale e psicologico. Ma ciò
che colpisce di più è la passività della popolazione americana; la
facilità con cui essa si fa manipolare dai suoi politici: con
pochissime eccezioni, i giornalisti e gli accademici hanno tutti
appoggiato la guerra in Iraq, sposando la tesi inconsistente delle armi
di distruzioni di massa di Saddam Hussein. Questa facilità di
manipolazione, che è legata al degrado culturale cui accennavo prima,
ha fornito un senso di onnipotenza all'amministrazione, che ha creduto
di poter influenzare allo stesso modo l'opinione pubblica e le élite
dei paesi alleati. A questo proposito, mi pare importante sottolineare
che tutti i fallimenti diplomatici americani sono legati a progressi
democratici: in Germania il cancelliere Schröder è stato riletto per la
sua opposizione alla guerra in Iraq, in Turchia è stato il parlamento a
esprimersi contro il passaggio delle truppe Usa sul territorio, in
Spagna è di nuovo un voto popolare a far cadere il governo
filo-americano del Partido Popular. Siamo di fronte a una situazione
paradossale: da una parte ci sono gli americani che pretendono di
portare la democrazia in tutto il mondo a suon di bombe; dall'altra
popoli interi che per via democratica mettono in scacco questa politica.
L'ultimo grande smacco è venuto dalla Spagna. La decisione del nuovo
premier José Luis Rodriguez Zapatero di ritirare le truppe dall'Iraq
potrebbe avere un effetto domino devastante per gli americani...
Credo che l'importanza delle elezioni spagnole non sia stata
giustamente sottolineata. La reazione agli attentati dell'11 marzo a
Madrid è stata straordinaria: invece di piombare nel razzismo
anti-arabo, gli spagnoli hanno deciso di punire le menzogne del loro
governo. Con questo voto, gli elettori iberici hanno rotto il ciclo
della violenza. Hanno avuto una reazione opposta a quella degli
americani all'indomani dell'11 settembre 2001.
Se davvero la superpotenza unica è destinata a declinare, quale
fisionomia assumerà in futuro il paesaggio geopolitico mondiale?
Oggi gli Stati uniti rappresentano un elemento di profonda instabilità
per il mondo intero. Sono nella situazione di un equilibrista che non
sa come mantenere il proprio equilibrio. Ma se guardiamo al resto del
pianeta, osserviamo un movimento di stabilizzazione generale: l'Europa,
la Cina, il Giappone sono perfettamente stabili, la Russia sta
ritrovando un suo ruolo. L'unica incognita per il futuro è proprio
l'America: bisogna vedere se Washington accetterà pacificamente la fine
della sua egemonia o continuerà ad alimentare l'incertezza e i
conflitti.
Non ritiene possibile un raddrizzamento di rotta da parte degli Usa?
Una presa di coscienza della propria dipendenza economica e un rilancio
controllato della produzione per evitare la catastrofe?
A livello intellettuale questo dibattito ha già avuto luogo. Negli anni
Ottanta, prima dell'euforia post-guerra fredda, si parlava della
riorganizzazione dell'apparato industriale. In termini tecnici, la cosa
è fattibile. Ma in termini pratici non è facile: una tale inversione di
rotta comporta una gigantesca ridistribuzione interna delle ricchezze.
Tanto per fare un esempio, i salari degli ingegneri aumenterebbero
sensibilmente, mentre quelli degli avvocati internazionali subirebbero
una profonda inflessione. Il problema è che le classi più elevate della
società americana beneficiano in modo così massiccio del sistema
economico internazionalizzato, globalizzato e liberale che
difficilmente accetteranno un tale cambiamento.
Un'illusione da superpotenza
A un anno dal saggio «Dopo l'impero», Emmanuel Todd torna ad analizzare
la decomposizione del sistema americano con «L'illusione economica». Un
incontro con il sociologo e demografo francese che spiega la sua
«profezia» del crollo a breve termine dell'egemonia americana
STEFANO LIBERTI
«Tra dieci o vent'anni nessuno parlerà più di impero americano».
Emmanuel Todd, sociologo e demografo francese formatosi all'università
di Cambridge, ha il tono fermo e sicuro. Già assurto agli onori delle
cronache alla fine degli anni Settanta per aver previsto con grande
anticipo e in splendida solitudine il dissolvimento dell'Unione
sovietica, ritenta il colpaccio e predice la fine a breve termine della
superpotenza unica. La sua tesi, espressa in un libro uscito l'anno
scorso (Dopo l'impero, Marco Tropea, 13 euro), riceve oggi una nuova
sistematizzazione con la pubblicazione dell'edizione riveduta e
corretta di un saggio che lo studioso aveva scritto nel 1998
(L'illusione economica, Marco Tropea, 13 euro), in cui tracciava le
linee teoriche del declino dell'egemonia degli Stati uniti. Secondo il
suo schema, quella statunitense è una superpotenza dai piedi argilla,
drogata da un deficit commerciale senza precedenti e da un drammatico
divario tra un consumo ipertrofico e una produzione a dir poco stitica.
Insostenibile dal punto di vista economico, questo sistema può essere
tenuto in piedi solo dalla conservazione di una supremazia politica che
passa per una sorta di «strategia della tensione planetaria»:
Washington cerca cioè di persuadere i suoi principali alleati -
l'Europa e il Giappone - della necessità del suo primato militare per
arginare le mire distruttive di pericolosi e infidi stati canaglia. Si
tratta di una linea d'azione che lo studioso definisce
«micro-militarismo teatrale», in base alla quale gli Stati uniti mirano
a mantenere l'egemonia schiacciando avversari insignificanti. È proprio
da questo aspetto che partiamo per una lunga conversazione con Todd nel
salotto del suo appartamento parigino.
L'occupazione dell'Iraq sta costando cara agli americani, sia in
termini di vite umane che finanziari. Più che di un intervento di
facciata sembra il caso di parlare di un'operazione bellica in grande
stile. Come si concilia questo scenario con la sua teoria?
Credo che, all'inizio, l'idea di andare in Iraq rispondesse
perfettamente alla dottrina del micro-militarismo. Se la Germania e la
Francia non avessero detto di no, gli Stati uniti avrebbero bombardato
Baghdad con l'approvazione delle Nazioni unite e con i soldi degli
alleati. Alla fine delle operazioni, sarebbero state mandate le truppe
di altri paesi a pattugliare il terreno, come accade oggi in Bosnia e
in Kosovo. Si sarebbe cioè verificata la stessa situazione della guerra
del Golfo del 1991 o degli interventi nella ex Jugoslavia. A un certo
punto, però, le cose hanno preso una piega imprevista: Parigi e Berlino
si sono opposte, persino la fedelissima Turchia non ha permesso il
transito delle truppe sul suo territorio. Nel momento in cui gli
alleati si sono tirati indietro, le élite americane avrebbero dovuto
capire che l'intervento in Iraq si sarebbe rivelato controproducente.
Avrebbero dovuto fermarsi. E, in tutta franchezza, io pensavo che si
sarebbero fermate. Questo è il principale punto debole della mia
teoria: è troppo razionale. Per la sua elaborazione, mi sono fatto
influenzare dalla lettura degli strateghi realisti americani, senza
tener conto che oggi negli Stati uniti il potere è in mano a ideologi
che agiscono in base a impulsi spesso irrazionali.
La guerra in Iraq sarebbe quindi una mossa irrazionale da parte di una
superpotenza in crisi? Nella decisione di intervenire non avranno
pesato di più ragioni di carattere geopolitico o strategico?
In generale respingo quelle visioni che sopravvalutano la potenza
americana individuando un disegno coerente e occulto in tutte le sue
mosse. Interpretazioni di questo tipo ci impediscono di penetrare il
mistero della politica estera statunitense, la cui soluzione va
ricercata dal lato della debolezza, non da quello della potenza. Credo
che la vicenda irachena segni una svolta semplicemente perché si è
passati da una strategia della tensione diplomatica a una pratica reale
della guerra. Si tratta di una fase avanzata, che mostra il sempre
maggiore spaesamento di una potenza in affanno. E che, a mio avviso,
non farà che accelerare il crollo finale. Questo è il grande paradosso:
Bush e i neo-conservatori, che sono coloro che più sfacciatamente hanno
portato avanti una strategia imperialista, passeranno alla storia come
i becchini dell'impero americano.
Ritiene davvero il crollo finale così vicino?
Mi sento di dire che la tendenza è già iniziata. Basta guardare le
continue sconfitte diplomatiche americane: la formazione dell'asse
franco-tedesco, il no turco, il ritiro degli spagnoli. Tutti questi
fallimenti sono stati possibili perché Washington non ha i mezzi
finanziari per punire i recalcitranti. Il che ci mostra una grande
verità, raramente messa in luce: non sono gli altri a dipendere dagli
Stati uniti, ma piuttosto il contrario. Venuta meno la supremazia
politica, la grande bolla americana si sgonfierà rapidamente.
Quali sono gli elementi in base ai quali giudica ineluttabile la fine
dell'egemonia americana?
L'analisi del declino dell'impero va condotta su due piani diversi,
strettamente interconnessi. Da una parte, dal punto di vista economico,
gli Stati uniti non hanno futuro: Washington ha un disavanzo
commerciale di diversi miliardi di dollari con quasi tutti i paesi
importanti del mondo. Se rapportiamo tale deficit alla produzione
industriale, vediamo che gli Usa dipendono per il 10 per cento del loro
consumo industriale da beni la cui importazione non è coperta
dall'esportazione di prodotti nazionali. Si tratta di un processo
rapidissimo, se si pensa che dieci anni fa questo deficit era ancora
del 5 per cento e che, soprattutto, alla vigilia della depressione del
1929 negli Stati uniti era concentrata quasi la metà della produzione
manifatturiera mondiale. A questo calo produttivo corrisponde poi un
degrado culturale: il livello di istruzione della popolazione americana
è oggi in caduta libera. Qualche giorno fa sul New York Times c'era un
articolo che riportava con inquietudine la notizia che gli americani
erano stati superati dagli europei in termini di pubblicazioni
scientifiche. Quando si parla di pubblicazioni, si fa riferimento a
ricercatori affermati. È solo la punta visibile di un iceberg, il segno
evidente di un processo cominciato diversi anni prima.
A quando si può far risalire l'inizio del riflusso?
L'ingresso degli Stati uniti in una fase di ristagno culturale è un
processo lento e progressivo che si afferma tra il 1980 e il 1990, ma
che giunge a compimento solo verso il 2000. Questo abbassamento del
livello culturale è alla base di diversi fenomeni regressivi che si
manifestano a partire dagli anni Ottanta: l'aumento del numero dei
detenuti e della condanne a morte, la ricomparsa dei creazionisti
ostili alle teorie di Darwin, la rimessa in discussione dell'aborto, il
successo di un cinema d'azione violento e sanguinario... È nello stesso
periodo che Washington ha cominciato ad attuare il micro-militarismo
teatrale, a condurre o minacciare guerre in zone remote del mondo.
Questi interventi sono volti a riaffermare l'egemonia, a consolidare
quello che nel 1991 veniva definito con enfasi il «nuovo ordine
mondiale». Ma hanno anche un'utilità in chiave interna. Da un punto di
vista strettamente psicoanalitico, queste azioni militari sembrano
poter rispondere alla definizione di sacrificio fornita da René Girard:
non espongono l'officiante e il suo pubblico ad alcuna rappresaglia, ma
consentono di espellere all'esterno la violenza della comunità.
Dalle sue parole, sembra di capire che il crollo è cominciato in
concomitanza con la fine della guerra fredda. È come se la dissoluzione
dell'Unione sovietica dovesse necessariamente determinare quella
dell'altro grande impero...
In effetti i due sistemi si sono supportati e indeboliti a vicenda.
L'esistenza di un'ideologia universalista come quella comunista ha
spinto i dirigenti occidentali a portare avanti un modello di
capitalismo controllato, in cui le disuguaglianze venivano limitate.
Una tendenza che, con il venir meno dell'Unione sovietica, è stata
bloccata. Inoltre, la vittoria della guerra fredda ha generato
un'euforia incredibile tra gli americani e interrotto ogni riflessione
critica sulle debolezze del loro sistema. In un certo senso potremmo
dire che il crollo dell'Urss ha dato il colpo di grazia agli Stati
uniti: i dirigenti americani hanno vissuto dieci anni nell'illusione
della superpotenza e non hanno minimamente pensato a ristrutturare il
proprio apparato economico ed educativo. In questo contesto, non ci si
può sorprendere che i responsabili politici comincino a comportarsi in
modo irrazionale; si rifugiano nella religione e fanno errori di
valutazione giganteschi.
L'attuale fase di smarrimento è frutto di scelte sbagliate di dirigenti
incompetenti o il segno di una deriva generalizzata della società
statunitense?
Non credo ci siano dubbi che Bush e i suoi consiglieri neo-conservatori
abbiano un problema di carattere intellettuale e psicologico. Ma ciò
che colpisce di più è la passività della popolazione americana; la
facilità con cui essa si fa manipolare dai suoi politici: con
pochissime eccezioni, i giornalisti e gli accademici hanno tutti
appoggiato la guerra in Iraq, sposando la tesi inconsistente delle armi
di distruzioni di massa di Saddam Hussein. Questa facilità di
manipolazione, che è legata al degrado culturale cui accennavo prima,
ha fornito un senso di onnipotenza all'amministrazione, che ha creduto
di poter influenzare allo stesso modo l'opinione pubblica e le élite
dei paesi alleati. A questo proposito, mi pare importante sottolineare
che tutti i fallimenti diplomatici americani sono legati a progressi
democratici: in Germania il cancelliere Schröder è stato riletto per la
sua opposizione alla guerra in Iraq, in Turchia è stato il parlamento a
esprimersi contro il passaggio delle truppe Usa sul territorio, in
Spagna è di nuovo un voto popolare a far cadere il governo
filo-americano del Partido Popular. Siamo di fronte a una situazione
paradossale: da una parte ci sono gli americani che pretendono di
portare la democrazia in tutto il mondo a suon di bombe; dall'altra
popoli interi che per via democratica mettono in scacco questa politica.
L'ultimo grande smacco è venuto dalla Spagna. La decisione del nuovo
premier José Luis Rodriguez Zapatero di ritirare le truppe dall'Iraq
potrebbe avere un effetto domino devastante per gli americani...
Credo che l'importanza delle elezioni spagnole non sia stata
giustamente sottolineata. La reazione agli attentati dell'11 marzo a
Madrid è stata straordinaria: invece di piombare nel razzismo
anti-arabo, gli spagnoli hanno deciso di punire le menzogne del loro
governo. Con questo voto, gli elettori iberici hanno rotto il ciclo
della violenza. Hanno avuto una reazione opposta a quella degli
americani all'indomani dell'11 settembre 2001.
Se davvero la superpotenza unica è destinata a declinare, quale
fisionomia assumerà in futuro il paesaggio geopolitico mondiale?
Oggi gli Stati uniti rappresentano un elemento di profonda instabilità
per il mondo intero. Sono nella situazione di un equilibrista che non
sa come mantenere il proprio equilibrio. Ma se guardiamo al resto del
pianeta, osserviamo un movimento di stabilizzazione generale: l'Europa,
la Cina, il Giappone sono perfettamente stabili, la Russia sta
ritrovando un suo ruolo. L'unica incognita per il futuro è proprio
l'America: bisogna vedere se Washington accetterà pacificamente la fine
della sua egemonia o continuerà ad alimentare l'incertezza e i
conflitti.
Non ritiene possibile un raddrizzamento di rotta da parte degli Usa?
Una presa di coscienza della propria dipendenza economica e un rilancio
controllato della produzione per evitare la catastrofe?
A livello intellettuale questo dibattito ha già avuto luogo. Negli anni
Ottanta, prima dell'euforia post-guerra fredda, si parlava della
riorganizzazione dell'apparato industriale. In termini tecnici, la cosa
è fattibile. Ma in termini pratici non è facile: una tale inversione di
rotta comporta una gigantesca ridistribuzione interna delle ricchezze.
Tanto per fare un esempio, i salari degli ingegneri aumenterebbero
sensibilmente, mentre quelli degli avvocati internazionali subirebbero
una profonda inflessione. Il problema è che le classi più elevate della
società americana beneficiano in modo così massiccio del sistema
economico internazionalizzato, globalizzato e liberale che
difficilmente accetteranno un tale cambiamento.