Un anno dopo la strage di Gorazdevac
Riceviamo attraverso una serie di forward questa interessante
testimonianza diretta, raccolta quasi esattamente un anno dopo la
strage di adolescenti che facevano il bagno in un fiume presso
Gorazdevac, in Kosovo (13 agosto 2004). Il titolo della testimonianza
e' molto giusto: in Kosovo non c'e' proprio niente di "normale" e tutto
appare molto "strano". Forse, solo la violenza ed il separatismo etnico
sono oramai diventate "normali" nella provincia serba (quello di
Gorazdevac fu solo uno delle decine di efferati episodi verificatisi in
seguito alla occupazione militare occidentale: piu' recentemente, lo
scorso marzo, si sono verificati veri e proprio pogrom di massa). Anzi,
a volerla dire tutta e fino in fondo, neanche questo testo e' veramente
"normale", o meglio: non e' "normale" il contesto in cui esso appare.
Mentre infatti gli organi di stampa ed i partiti della sinistra
tacciono imbarazzati sulla situazione in Kosovo e nel resto della
Jugoslavia, omettendo dunque di riferire della reale situazione sul
campo cinque anni dopo l'aggressione NATO, sono settori del pacifismo
cattolico e nonviolento a testimoniare "de visu" la vergogna della
situazione presente; settori i quali, pero', portano anche loro un
pesante carico di responsabilita' per tutto quanto si e' verificato,
sin da quando, nei primi anni Novanta, decisero di sostenere la
politica del separatismo etnico e del "boicottaggio" anti-jugoslavo
predicata da Ibrahim Rugova.
Esponente politico liberista e legato alla internazionale
democristiana, Ibrahim Rugova non ha mai nascosto di mirare alla
secessione del Kosovo dalla Jugoslavia, nell'ambito dunque del piu'
generale movimento ispirato al revanscismo nazionalitario ed alla
frammentazione dei Balcani secondo linee etniche, che tante tragedie ha
provocato. Ne' ha mai nascosto di puntare, in un secondo tempo, alla
annessione del Kosovo ad una futura "Grande Albania". Oggi, Rugova
afferma a chiare lettere di appoggiare anche la presenza militare ed
economica (dunque imperialista) occidentale sulla sua patria,
dimostrando di essere un traditore del suo stesso popolo proprio come i
tanti altri esponenti nazionalisti che hanno distrutto i Balcani negli
ultimi anni. Infine, Rugova ha esplicitamente dichiarato di appoggiare
la aggressione angloamericana contro l'Iraq.
Che cosa ha a che fare tutto questo con il "pacifismo" e con la
"nonviolenza"? Assolutamente niente. I tempi sarebbero allora maturi
perche' Alberto L'Abate, organizzazioni come "Operazione Colomba" e
tutte le altre realta' che negli ultimi dieci anni hanno sostenuto la
linea di Rugova facessero finalmente ed esplicitamente autocritica,
poiche' quella linea politica ha prodotto solamente guerra, spargimento
di sangue, drammi sociali e distruzione del tessuto civile.
A. Martocchia
http://www.operazionecolomba.org/
Kossovo: "LE COSE STRANE SONO NORMALI"
9 .08.04
In Kossovo le cose strane sono normali; in questi giorni, per
esempio, la corrente elettrica c'è solo poche ore al giorno; uno dei
tanti prodigi della democrazia occidentale importata con le bombe
nel 1999. Qui a Gorazdevac, enclave serba difesa da soldati italiani
e rumeni, che molte volte hanno le idee poco chiare, il tempo scorre
lento e annoiato. I lavori nei campi, che un tempo scandivano la
vita contadina, sono molto limitati, andare troppo lontani può
essere pericoloso specialmente dopo il 13 agosto dell'anno scorso
quando due ragazzi del paese, Ivan e Panto, sono stati uccisi e
cinque feriti mentre facevano il bagno al fiume. La gente vive in
una doppia prigione: quella creata dalla situazione, ossia fuori da
qui è pericoloso essere serbi e quella creata da quelli che ti guardano
storto se cerchi di contattare uno dall'altra parte. Gli albanesi
poco distanti vivono anche loro in prigione, una prigione un po' più
grande dove i confini del Kossovo diventano sempre più
impraticabili, da poco tempo nemmeno la Bosnia i Herzegovina fa
passare i kossovari muniti di passaporto UNMIK con stampigliato
sopra il simbolo delle Nazioni Unite. Un'altra prigione per gli
albanesi è quella che li fa passare per Gorazdevac e far finta di
non conoscere vecchi amici per paura che altri albanesi li vedano e li
possano accusare di "famigliarizzare con il nemico". Tutte queste
prigioni constringono le amicizie a racchiudersi dietro un alone di
segretezza. M., per esempio, passa attraverso vie secondarie e poco
vigilate per andare a trovare il suo amico D. dentro l'enclave. P.
mi manda in avan scoperta a vedere se il suo vecchio amico albanese,
che da poco è tornato dalla Norvegia, è disposto ad andarlo a
trovare per un caffè. C'è anche chi per vedere la sorella, che ha
sposato un albanese cinquant'anni fa e che abita a soli due
chilometri, è costretto a mobilitare una scorta armata sperando che
i parenti albanesi della sorella le permettano di vederla.
In mezzo a queste prigioni e questo mondo normalmente strano trovi
delle persone sincere come E. che in un pomeriggio qualunque parlano
con te sorseggiando del caffè turco e ti raccontano pezzi della loro
vita, e questa è vita vera e anche tu raccontando della tua ti
accorgi, ad un certo punto, che ti trema la voce.
Non so se questo è un buon segno ma sicuramete è segno che la
conversazione è intima e che ci si mette in gioco. E. mi racconta di
quando da giovane, morto il padre, è andato a cercar fortuna in
Slovenia dove ha lavorato come tipografo, o meglio stampatore
offset. Lui mi guarda e dice che poi ad un tratto Milosevic, andato
al potere, richiama i serbi in Kossovo con promesse di prosperità e
miglior vita. Tutto questo non avviene e il mio amico si ritrova in
questo mondo di odii incrociati dove gli anni sono passati e la
situazione è sempre peggiorata, e ad un tratto, con moglie e tre
figli, si trova nella prigione chiamata enclave. Guardandomi negli
occhi si dice sicuro di poter tornare un giorno nella Slovenia che
lui ricorda ordianata e pulita. Dice che allora, al tempo della
Yugoslavaia unita, lui saliva in treno e arrivava alla stzione di
Lubiana con la carta d'identità in tasca e nessuna frontiera. Oggi,
se lo potesse fare, consumerebbe il passaporto a forza di mostrarlo
alle frontiere. Anche lui porbabilmente sogna i balcani nell'Unione
Europea come almeno 6000 cittadini di Prijedor (BiH) che il dodici
giugno, quando noi abbiamo rinnovato il Parlamento Europeo, hanno
anch'essi idealamente e simbolicamente votato per l'Unione Europea.
Il racconto va avanti e altri pezzi di vita vengono a galla. Il
pensiero e il racconto passa attraverso un giorno che pesa come un
macigno su questa comunità: il 13 agosto 2003.
In quel giorno E. stava cercando di sopravvivere alla calura estiva,
il suo spirito era ottimista e il suo orto curato. Due raffiche
falciano due ragazzi al fiume altri cinque sono feriti. Nel
villaggio c'è subito molta confusione e lui nella foga carica uno
dei sopravissuti in macchina per portarlo all'ospedale. La sua macchina
ha la targa serba, non c'è tempo da perdere, si parte con lui ci
sono due parenti del ferito. La confusione e la tensione sono alte,
uno dice vai a destra l'altro a sinistra, lui va destra pensando di
andare verso l'ospedale militare che però da poco è stato trasferito.
La strada passa in mezzo al mercato, all'andata fila tutto liscio, ma
poi si deve tornare indietro perchè l'ospedale non c'è. La scorta si
perde e dun tratto la macchina brontola e si spegne: la benzina è
finita. La gente si accalca attorno alla macchina e forse qualcuno
comincia a prenderla a calci. La folla è tanta e i poliziotti che
sono poco distante non riescono a controllare la situazione. Qualche
cosa rompre i vetri della macchina, E. riceve un pugno in faccia e,
ad un tratto, arriva un sasso. La reazione istintiva è quella di
proteggere la testa così il sasso ferisce il braccio. E. dice che a
quel punto ha pensato di essere finito e che tutte le sue forze
erano concentrate nella sopravvivenza. Ma poi ad un tratto arriva una
colonna militare che è diretta proprio a Gorazdevac, ci sono anche
due ambulanze. Vedono la folla e intuiscono che qualcosa sta
succedendo. Alla vista dei soldati la folla si disperde, E grida:
"Please Help me! Please Help me!?
La folla si dirada ulteriormente i soldati si avvicinano, E. e gli
altri della macchina si riparano sui mezzi militari. Lui si ritrova
sull'ambulanza con il ragazzo ferito. Anche lui è lacero e ha un
braccio sanguinante. All'ospedale per E. la situazione è umiliante.
Alcune persone lo guardano storto quasi fosse un criminale, i suoi
vestiti sono macchiati di sangue.
I giorni seguenti sono i giorni della sofferenza, tutto il villaggio è
in lutto. E. viene convocato dalla polizia per i fatti avvenuti sulla
strada del mercato ma a quanto pare qualcuno lo ha denunciato e si
trova dun tratto a passare da vittima ad accusato. Per la prima
volta in vita sua E. viene interrogato, fotografato e schedato.
Chiede un avvocato ma la procedura non lo consente. La sera stessa
scappa in Serbia per paura di essere arrestato. In Serbia chiede
aiuto al governo perchè i suoi diritti vengano difesi presso le massime
sfere dell'amministrazione UNMIK. Poco o nulla si muove e cosi i
giorni diventano mesi. Arriva novembre e la cosa non si è ancora
sbloccata. La sua famiglia è in Kossovo lui in Serbia, separati da
un accusa che E. considera infamante. A novembre E. ha la festa
della casa, il santo protettore della sua famiglia, qui questa
ricorrenza è molto importante, mancano pochi giorni alla data e le
cose non accennano a cambiare. Nel cuore della notte E. ha un attacco
d'ansia, non riesce a respirare, ha la tachicardia, ha paura di
morire e corre al pronto soccorso. Bussa alla porta e con un filo di
voce spiega la sua storia all'infermiere di turno. Un calmante
sistema la situazione per il momento. Ancora un pò di esitazione ma
poi l'indomani mattina E. decide che deve tornare dalla sua famiglia
costi quel che costi. Proprio quel giorno c'è il convoglio scortato,
con la sua macchina si accoda e torna a Gorazdevac. Quest'anno il suo
orto non è curato e E. non è più ottimista come un anno fa. La
polizia non lo ha più cercato, lui continua a sognare la Slovenia e
a vivere a Gorazdevac. Dopo il racconto e dopo il caffè E. mi guarda
e dice che però non ha perso del tutto la speranza nelle persone e
quindi nemmeno negli albanesi, un pizzico di speranza cìè ancora.
Questa cosa è strana e straordinaria ma forse per E. è normale. Qui
a Gorazdevac domani si celebra l'anniversario religioso a un anno
dall'uccisione di Ivan e Panto il 13 agosto 2003, sarà un giorno
strano ma a suo modo normale.
Operazione Colomba
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
Riceviamo attraverso una serie di forward questa interessante
testimonianza diretta, raccolta quasi esattamente un anno dopo la
strage di adolescenti che facevano il bagno in un fiume presso
Gorazdevac, in Kosovo (13 agosto 2004). Il titolo della testimonianza
e' molto giusto: in Kosovo non c'e' proprio niente di "normale" e tutto
appare molto "strano". Forse, solo la violenza ed il separatismo etnico
sono oramai diventate "normali" nella provincia serba (quello di
Gorazdevac fu solo uno delle decine di efferati episodi verificatisi in
seguito alla occupazione militare occidentale: piu' recentemente, lo
scorso marzo, si sono verificati veri e proprio pogrom di massa). Anzi,
a volerla dire tutta e fino in fondo, neanche questo testo e' veramente
"normale", o meglio: non e' "normale" il contesto in cui esso appare.
Mentre infatti gli organi di stampa ed i partiti della sinistra
tacciono imbarazzati sulla situazione in Kosovo e nel resto della
Jugoslavia, omettendo dunque di riferire della reale situazione sul
campo cinque anni dopo l'aggressione NATO, sono settori del pacifismo
cattolico e nonviolento a testimoniare "de visu" la vergogna della
situazione presente; settori i quali, pero', portano anche loro un
pesante carico di responsabilita' per tutto quanto si e' verificato,
sin da quando, nei primi anni Novanta, decisero di sostenere la
politica del separatismo etnico e del "boicottaggio" anti-jugoslavo
predicata da Ibrahim Rugova.
Esponente politico liberista e legato alla internazionale
democristiana, Ibrahim Rugova non ha mai nascosto di mirare alla
secessione del Kosovo dalla Jugoslavia, nell'ambito dunque del piu'
generale movimento ispirato al revanscismo nazionalitario ed alla
frammentazione dei Balcani secondo linee etniche, che tante tragedie ha
provocato. Ne' ha mai nascosto di puntare, in un secondo tempo, alla
annessione del Kosovo ad una futura "Grande Albania". Oggi, Rugova
afferma a chiare lettere di appoggiare anche la presenza militare ed
economica (dunque imperialista) occidentale sulla sua patria,
dimostrando di essere un traditore del suo stesso popolo proprio come i
tanti altri esponenti nazionalisti che hanno distrutto i Balcani negli
ultimi anni. Infine, Rugova ha esplicitamente dichiarato di appoggiare
la aggressione angloamericana contro l'Iraq.
Che cosa ha a che fare tutto questo con il "pacifismo" e con la
"nonviolenza"? Assolutamente niente. I tempi sarebbero allora maturi
perche' Alberto L'Abate, organizzazioni come "Operazione Colomba" e
tutte le altre realta' che negli ultimi dieci anni hanno sostenuto la
linea di Rugova facessero finalmente ed esplicitamente autocritica,
poiche' quella linea politica ha prodotto solamente guerra, spargimento
di sangue, drammi sociali e distruzione del tessuto civile.
A. Martocchia
http://www.operazionecolomba.org/
Kossovo: "LE COSE STRANE SONO NORMALI"
9 .08.04
In Kossovo le cose strane sono normali; in questi giorni, per
esempio, la corrente elettrica c'è solo poche ore al giorno; uno dei
tanti prodigi della democrazia occidentale importata con le bombe
nel 1999. Qui a Gorazdevac, enclave serba difesa da soldati italiani
e rumeni, che molte volte hanno le idee poco chiare, il tempo scorre
lento e annoiato. I lavori nei campi, che un tempo scandivano la
vita contadina, sono molto limitati, andare troppo lontani può
essere pericoloso specialmente dopo il 13 agosto dell'anno scorso
quando due ragazzi del paese, Ivan e Panto, sono stati uccisi e
cinque feriti mentre facevano il bagno al fiume. La gente vive in
una doppia prigione: quella creata dalla situazione, ossia fuori da
qui è pericoloso essere serbi e quella creata da quelli che ti guardano
storto se cerchi di contattare uno dall'altra parte. Gli albanesi
poco distanti vivono anche loro in prigione, una prigione un po' più
grande dove i confini del Kossovo diventano sempre più
impraticabili, da poco tempo nemmeno la Bosnia i Herzegovina fa
passare i kossovari muniti di passaporto UNMIK con stampigliato
sopra il simbolo delle Nazioni Unite. Un'altra prigione per gli
albanesi è quella che li fa passare per Gorazdevac e far finta di
non conoscere vecchi amici per paura che altri albanesi li vedano e li
possano accusare di "famigliarizzare con il nemico". Tutte queste
prigioni constringono le amicizie a racchiudersi dietro un alone di
segretezza. M., per esempio, passa attraverso vie secondarie e poco
vigilate per andare a trovare il suo amico D. dentro l'enclave. P.
mi manda in avan scoperta a vedere se il suo vecchio amico albanese,
che da poco è tornato dalla Norvegia, è disposto ad andarlo a
trovare per un caffè. C'è anche chi per vedere la sorella, che ha
sposato un albanese cinquant'anni fa e che abita a soli due
chilometri, è costretto a mobilitare una scorta armata sperando che
i parenti albanesi della sorella le permettano di vederla.
In mezzo a queste prigioni e questo mondo normalmente strano trovi
delle persone sincere come E. che in un pomeriggio qualunque parlano
con te sorseggiando del caffè turco e ti raccontano pezzi della loro
vita, e questa è vita vera e anche tu raccontando della tua ti
accorgi, ad un certo punto, che ti trema la voce.
Non so se questo è un buon segno ma sicuramete è segno che la
conversazione è intima e che ci si mette in gioco. E. mi racconta di
quando da giovane, morto il padre, è andato a cercar fortuna in
Slovenia dove ha lavorato come tipografo, o meglio stampatore
offset. Lui mi guarda e dice che poi ad un tratto Milosevic, andato
al potere, richiama i serbi in Kossovo con promesse di prosperità e
miglior vita. Tutto questo non avviene e il mio amico si ritrova in
questo mondo di odii incrociati dove gli anni sono passati e la
situazione è sempre peggiorata, e ad un tratto, con moglie e tre
figli, si trova nella prigione chiamata enclave. Guardandomi negli
occhi si dice sicuro di poter tornare un giorno nella Slovenia che
lui ricorda ordianata e pulita. Dice che allora, al tempo della
Yugoslavaia unita, lui saliva in treno e arrivava alla stzione di
Lubiana con la carta d'identità in tasca e nessuna frontiera. Oggi,
se lo potesse fare, consumerebbe il passaporto a forza di mostrarlo
alle frontiere. Anche lui porbabilmente sogna i balcani nell'Unione
Europea come almeno 6000 cittadini di Prijedor (BiH) che il dodici
giugno, quando noi abbiamo rinnovato il Parlamento Europeo, hanno
anch'essi idealamente e simbolicamente votato per l'Unione Europea.
Il racconto va avanti e altri pezzi di vita vengono a galla. Il
pensiero e il racconto passa attraverso un giorno che pesa come un
macigno su questa comunità: il 13 agosto 2003.
In quel giorno E. stava cercando di sopravvivere alla calura estiva,
il suo spirito era ottimista e il suo orto curato. Due raffiche
falciano due ragazzi al fiume altri cinque sono feriti. Nel
villaggio c'è subito molta confusione e lui nella foga carica uno
dei sopravissuti in macchina per portarlo all'ospedale. La sua macchina
ha la targa serba, non c'è tempo da perdere, si parte con lui ci
sono due parenti del ferito. La confusione e la tensione sono alte,
uno dice vai a destra l'altro a sinistra, lui va destra pensando di
andare verso l'ospedale militare che però da poco è stato trasferito.
La strada passa in mezzo al mercato, all'andata fila tutto liscio, ma
poi si deve tornare indietro perchè l'ospedale non c'è. La scorta si
perde e dun tratto la macchina brontola e si spegne: la benzina è
finita. La gente si accalca attorno alla macchina e forse qualcuno
comincia a prenderla a calci. La folla è tanta e i poliziotti che
sono poco distante non riescono a controllare la situazione. Qualche
cosa rompre i vetri della macchina, E. riceve un pugno in faccia e,
ad un tratto, arriva un sasso. La reazione istintiva è quella di
proteggere la testa così il sasso ferisce il braccio. E. dice che a
quel punto ha pensato di essere finito e che tutte le sue forze
erano concentrate nella sopravvivenza. Ma poi ad un tratto arriva una
colonna militare che è diretta proprio a Gorazdevac, ci sono anche
due ambulanze. Vedono la folla e intuiscono che qualcosa sta
succedendo. Alla vista dei soldati la folla si disperde, E grida:
"Please Help me! Please Help me!?
La folla si dirada ulteriormente i soldati si avvicinano, E. e gli
altri della macchina si riparano sui mezzi militari. Lui si ritrova
sull'ambulanza con il ragazzo ferito. Anche lui è lacero e ha un
braccio sanguinante. All'ospedale per E. la situazione è umiliante.
Alcune persone lo guardano storto quasi fosse un criminale, i suoi
vestiti sono macchiati di sangue.
I giorni seguenti sono i giorni della sofferenza, tutto il villaggio è
in lutto. E. viene convocato dalla polizia per i fatti avvenuti sulla
strada del mercato ma a quanto pare qualcuno lo ha denunciato e si
trova dun tratto a passare da vittima ad accusato. Per la prima
volta in vita sua E. viene interrogato, fotografato e schedato.
Chiede un avvocato ma la procedura non lo consente. La sera stessa
scappa in Serbia per paura di essere arrestato. In Serbia chiede
aiuto al governo perchè i suoi diritti vengano difesi presso le massime
sfere dell'amministrazione UNMIK. Poco o nulla si muove e cosi i
giorni diventano mesi. Arriva novembre e la cosa non si è ancora
sbloccata. La sua famiglia è in Kossovo lui in Serbia, separati da
un accusa che E. considera infamante. A novembre E. ha la festa
della casa, il santo protettore della sua famiglia, qui questa
ricorrenza è molto importante, mancano pochi giorni alla data e le
cose non accennano a cambiare. Nel cuore della notte E. ha un attacco
d'ansia, non riesce a respirare, ha la tachicardia, ha paura di
morire e corre al pronto soccorso. Bussa alla porta e con un filo di
voce spiega la sua storia all'infermiere di turno. Un calmante
sistema la situazione per il momento. Ancora un pò di esitazione ma
poi l'indomani mattina E. decide che deve tornare dalla sua famiglia
costi quel che costi. Proprio quel giorno c'è il convoglio scortato,
con la sua macchina si accoda e torna a Gorazdevac. Quest'anno il suo
orto non è curato e E. non è più ottimista come un anno fa. La
polizia non lo ha più cercato, lui continua a sognare la Slovenia e
a vivere a Gorazdevac. Dopo il racconto e dopo il caffè E. mi guarda
e dice che però non ha perso del tutto la speranza nelle persone e
quindi nemmeno negli albanesi, un pizzico di speranza cìè ancora.
Questa cosa è strana e straordinaria ma forse per E. è normale. Qui
a Gorazdevac domani si celebra l'anniversario religioso a un anno
dall'uccisione di Ivan e Panto il 13 agosto 2003, sarà un giorno
strano ma a suo modo normale.
Operazione Colomba
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII