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LE MONDE diplomatique - Luglio 2004

Conseguenze di conflitti, emigrazione clandestina, declino economico e
inquinamento


L'Adriatico, frontiera di ogni pericolo


Esiste l'Adriatico? L'antico golfo di Venezia ha una pessima
reputazione. Inquinato, preda del devastante turismo di massa, questo
mare semichiuso rappresenta una delle maggiori frontiere europee. Linea
di demarcazione tra l'Organizzazione del trattato del Nord Atlantico e
i paesi socialisti «atipici», quali erano la Jugoslavia e l'Albania,
esso rappresenta ormai un lago di protezione, e a volte un cimitero
per migliaia di clandestini che tentano di raggiungere il ricco
occidente.

Jean-Arnault Dérens


Anche se il 9 gennaio 2004, 21 candidati all'emigrazione clandestina
sono annegati nel corso del naufragio di un gommone al largo delle
coste albanesi, in questi ultimi anni nel mare Adriatico si muore di
meno. Nei Balcani la spinta a partire si è allentata quando i conflitti
iugoslavi hanno ceduto il passo a un difficile dopo guerra.
Il centro d'accoglienza Regina Pacis, creato nel 1997, si erge con la
sua pesante carcassa di cemento sovrastata dal ferro spinato su una
spiaggia del sud della Puglia, vicino al paesino di San Foca, a circa
venti chilometri dalla città barocca di Lecce. Centro di permanenza
temporanea, è l'unico la cui gestione sia stata delegata dallo stato
alla diocesi cattolica. «Da alcuni anni i percorsi dell'emigrazione
clandestina si sono decisamente spostati - spiega il direttore don
Cesare Lodeserto. - Adesso la maggior parte dei clandestini che
arrivano in Italia vengono dalla Libia in Sicilia. Altri invece
raggiungono i porti adriatici di Bari o Brindisi nascondendosi nei
camion o nei containers imbarcati in Turchia».
Nel 1998, il governo italiano (di centrosinistra) ha costituito dei
centri di permanenza chiusi, e il Regina Pacis ha accettato questa
radicale modifica del suo statuto. Don Cesare comunque non risparmia
critiche alla legge Bossi Fini che nel 2002 ha inasprito ancora di più
le condizioni di accoglienza degli stranieri. «La legge dovrebbe
conciliare accoglienza e legalità. Invece, al contrario, fa
dell'illegalità un fattore di criminalizzazione - spiega. - È
aberrante fare una legge per difendersi dall'immigrazione, perché
nonostante tutto i flussi migratori continueranno».
Circa 250 stranieri vengono sistemati qui in detenzione amministrativa
per un periodo massimo di sessanta giorni, nel corso dei quali devono
inoltrare la propria richiesta di soggiorno prima di diventare
passibili di espulsione. Coabitano con alcune decine di clandestini
ospitati a titolo privato da don Cesare. Questi ultimi possono uscire e
ogni giorno salutano i carabinieri che sorvegliano gli ingressi... Il
centro accoglie anche circa sessanta giovani donne albanesi e rumene
vittime di tratta che vivono lì da molti anni. Alcune hanno avuto dei
figli, che ora crescono tra la spiaggia e il filo spinato.
In Albania, per gran parte della popolazione, la partenza resta l'unica
prospettiva. Dopo il censimento del 2001 - il primo organizzato a
dieci anni dalla caduta del comunismo - la popolazione si è
nettamente abbassata nonostante tassi di natalità sempre elevati (1).
Se don Cesare parla di una «svista» per quanto riguarda gli albanesi
annegati il 9 gennaio, l'eco non è molto diversa dall'altra parte del
mare, nel porto albanese di Valona. Baluardo delle rivolte del marzo
1997 (2), questa città annidata in fondo a un magnifico golfo, ha la
pessima reputazione di crocevia della droga e della tratta di esseri
umani.
I traffici transadriatici hanno una lunga storia. Durante la dittatura
staliniana di Enver Hoxha, l'Albania, nonostante fosse un paese chiuso,
traeva buona parte delle sue magre risorse in valuta dal traffico di
sigarette, che venivano stoccate a Valona prima di riprendere la via
dell'Italia. Migliaia di coscritti hanno trascorso il loro servizio
militare a trasportare montagne di sigarette americane, allora
introvabili, nei chioschi albanesi.
Poi, durante le rivolte, la città è diventata la base degli insorti e
di numerose reti criminali, che servivano da centro propulsore verso
l'Italia. Ogni notte decine di veloci motoscafi approdavano sulle coste
pugliesi con carichi misti di droga, sigarette e candidati
all'emigrazione.
Dal suo arrivo al potere nel 1997, il governo socialista di Fatos Nano
ha fatto sua priorità la lotta contro gli aspetti più eclatanti del
crimine organizzato. Le grandi arterie stradali del paese sono di nuovo
sicure, e città come Valona non sono più zone di illegalità.
Una brigata militare italo-albanese rimane di base nella piccola isola
di Sazan che chiude il golfo di Valona - una posizione strategica,
emblema del valore di questo «chiavistello» dell'Adriatico, un tempo
possedimento veneziano.
Rami Isufi, proprietario dell'Hotel Bologna è categorico: «Non parte
più nessuna barca per l'Italia. Non c'è neanche più bisogno di
controlli in mare, perché dalla riva tutti possono vedere se in acqua
c'è un fuoribordo e chiamare la polizia». E la tragedia del 9 gennaio?
«Quella sera il mare era brutto e il gommone non sarebbe dovuto
partire. I trafficanti sono venuti dall'Italia e hanno tentato di
ripartire con gente pronta a rischiare tutto. Qui nessuno avrebbe corso
un rischio simile».
Tanto che nell'aprile 2003, il governo albanese ha accordato alla
compagnia La Petrolifera italo rumena di costruirvi e di sfruttare una
base petrolifera. In cambio dei lavori di sistemazione, la compagnia
italiana otterrebbe una concessione esclusiva di trent'anni e sgravi
fiscali. Ma i deputati hanno provvisoriamente bloccato questo progetto,
su cui gravano forti sospetti di corruzione (3). Tirana, per molto
tempo orientata verso la Grecia, non vede che l'Italia, con Valona che
può svolgere il ruolo di vetrina di questa apertura.

La costa meridionale dell'Albania comincia a esplorare il turismo,
finora trascurato. Da Valona fino a Saranda sulla frontiera greca, la
costa alterna spiagge deserte di sabbia fine e vecchi villaggi quasi
abbandonati. I nuovi ricchi possiedono ville che si affacciano sulle
cale deserte e da qualche anno si interessa al luogo il presidente del
consiglio italiano Silvio Berlusconi: nel 2002, aveva percorso la costa
in compagnia dell'architetto Giancarlo Ragazzi, specialista di progetti
turistici di lusso.
La strada che collega Saranda e Himara è una pista sconnessa, dove
pezzi di asfalto rievocano vecchi progetti di sviluppo, ma le due città
sono ormai degli immensi cantieri. Da alcuni anni, i turisti kosovari
stanno scoprendo le spiagge del sud della «madrepatria» dove si
moltiplicano pensioni, alberghi e ristoranti.
La popolazione ha però poche possibilità di approfittare delle ricadute
economiche del turismo. Nei villaggi costieri, essa è in maggioranza
greca, come attestano i graffiti alla gloria dell'ellenismo che ornano
quasi tutti i monumenti ai partigiani ereditati dal regime comunista.
Per gli abitanti del sud del paese, greci «etnici» o albanesi di
confessione ortodossa, resta prioritaria l'emigrazione in Grecia (4).

Lottizzazione selvaggia nelle antiche città

Le conseguenze del conflitto greco-albanese della seconda guerra
mondiale sono comunque sempre presenti: i due paesi non hanno ancora
messo ufficialmente fine al loro stato di guerra. Dopo il 1945, le
autorità greche hanno espulso in maniera massiccia i Cam - albanesi
dell'Epiro - accusati collettivamente di collaborazione con gli
occupanti italiani e tedeschi. L'8 aprile 2004 il parlamento di Tirana
si è rifiutato - temendo ritorsioni - di esaminare il progetto di
risoluzione che chiedeva la restituzione dei patrimoni privati albanesi
confiscati in Grecia.
Proveniente da una famiglia originaria di Cameria, Isufi spiega: «I
miei genitori non hanno mai più potuto rivedere il proprio villaggio
natale, sulla costa greca a nord di Igumenitsa. È là, di fronte a
Corfù, che l'Adriatico è più bello» afferma per poi denunciare il
«ricatto greco. Ancora una volta Atene ha minacciato di espellere i
lavoratori albanesi, e il nostro governo si è spaventato. Quest'anno
però non potevano liquidare i clandestini di qui: chi altro lavora su
cantieri degli impianti olimpici?».

Il Montenegro e la Croazia sperimentano ormai da alcuni anni il turismo
di massa. Il Montenegro è ancora ampiamente ignorato dai turisti
occidentali per via delle sanzioni internazionali degli anni '90 contro
la Federazione jugoslava, di cui faceva parte insieme alla Serbia. La
maggior parte dei villeggianti viene dalla Serbia o dal Kosovo, anche
se ora compaiono anche turisti russi e ucraini. Villeggianti serbi dal
debole potere di acquisto e i nuovi ricchi russi costituiscono quindi
la base della clientela della città di Budva, un tempo perla
dell'Adriatico.
Con quasi 100.000 abitanti, questa vecchia città fortificata soffre -
come Sveti Stefan - di un'urbanizzazione anarchica. Vi si
costruiscono palazzi di molti piani di fronte all'isoletta interamente
trasformata in un albergo mitico, un tempo frequentato dai divi del
cinema italiano.
I camion trasportano materiali di costruzione sulla spiaggia e i nuovi
edifici, sprovvisti di qualsiasi permesso di costruzione, fanno correre
grossi rischi a tutta la zona, soprattutto per l'emersione delle fosse
biologiche.
Anche in Croazia esiste questa «lottizzazione selvaggia» del litorale.
Anche le case più piccole offrono camere in affitto. In un paese dove
la disoccupazione tocca quasi un terzo della popolazione attiva, molti
dalmati praticano un'economia di sopravvivenza piuttosto prospera,
riuscendo a vivere tutto l'anno grazie al sostegno sociale e
all'affitto di qualche camera nei mesi estivi. Il governo ormai si
batte per ottenere la dichiarazione fiscale di questi proventi, ma le
conseguenze ambientali non vengono quasi per nulla prese in
considerazione.
A Budva quest'inverno è scoppiato un nuovo scandalo. Dopo il fallimento
di una prima asta pubblica l'albergo Avala è stato ceduto a una
compagnia britannica per 3,2 milioni di euro - meno della metà del
valore stimato.
L'irregolarità dell'asta pone anche un altro problema visto che la
rappresentante in Montenegro della compagnia britannica non è altro
che... Ana Kolarevic, sorella del primo ministro Milo Djukanovic e
membro della Corte suprema (5)... Inoltre il 20 maggio 2004, il nuovo
governo croato ha messo fine alla lunga telenovela della
privatizzazione del complesso Suncani Hvar, che possiede gli alberghi
dell'isola di Hvar. Alla fine il complesso turistico è stato ceduto a
Quaestus, un fondo di investimento apparentemente legato all'Unione
democratica croata (Hdz), tornata al potere dopo le elezioni del
novembre 2003 (6).

Montenegro stato ecologico

È possibile immaginare lo sviluppo di un altro turismo concepito sulle
basi di una crescita durevole? Denis Ivosevic assessore al turismo
della zupanija (dipartimento) d'Istria, è ben consapevole del problema:
«Se puntiamo solo su un'offerta a buon mercato, i turisti scompariranno
presto dalle nostre regioni, perché le offerte a poco prezzo si
generalizzeranno ancora più in fretta con l'abbassamento delle tariffe
del trasporto aereo». Il suo piano decennale propone di privilegiare
l'alloggio rurale e il turismo di qualità, per tentare di arginare la
«cementificazione» della costa istriana.
All'inizio degli anni '90, il Montenegro si è autoproclamato «stato
ecologico» nel preambolo della sua costituzione. Questa dichiarazione
non ha però mai avuto la benché minima applicazione concreta.
Nell'estate del 2003, il paese ha conosciuto la sua più grave crisi dei
rifiuti.
Il governo ha stanziato un credito di 1,3 milioni di dollari della
Banca mondiale per risistemare la discarica selvaggia di Lovanja,
situata a un centinaio di metri dalle piste dell'aeroporto, nelle
Bocche di Cattaro. Fiordo più meridionale d'Europa, le Bocche di
Cattaro rappresenta un prestigioso sito naturale posto sotto la
protezione dell'Unesco. La discarica veniva utilizzata dalle comunità
di Tivat, Cattaro e Budva.
La discarica, riorganizzata, doveva essere usata per tre anni in attesa
che fosse identificato un sito più adatto ma i cittadini sospettano, e
a ragione, la perpetuazione di questa soluzione provvisoria. La rabbia
degli abitanti delle coste delle Bocche è culminata nel luglio 2003,
con il blocco durato diversi giorni degli accessi alla discarica.
Segretario del vescovado cattolico di Cattaro, don Branko Sbutega ha
preso la direzione del movimento di disobbedienza. Il padre gesuita non
riesce a trovare parole abbastanza dure per denunciare la gestione
della situazione. «A Budva esisteva un sito molto più adatto, ma in un
baluardo pro-serbo i cui abitanti hanno tirato fuori i fucili appena
hanno saputo del progetto. Il governo preferisce organizzare la
discarica a Tivat, che ha la principale comunità cattolica croata del
Montenegro. La maggior parte dei campi appartiene a proprietari
privati, che il governo depreda. È disgustoso che la Banca mondiale si
faccia garante di una tale negazione di giustizia e di una tale
mostruosità ambientale. Questa situazione rivela la mediocrità dei
dirigenti montenegrini. I comunisti di altri tempi avrebbero almeno
dato prova di un po' più di dignità» conclude il gesuita.

Dall'Albania alla Slovenia, la geografia riduce il cordone litoraneo a
un sottile passaggio sovrastato da montagne spesso invalicabili.
Il Montenegro si è così formato dando le spalle al mare. Tra la gente
della costa e la gente di montagna, l'incomprensione è spesso la norma,
tanto più che gli sconvolgimenti politici del XX secolo, hanno spesso
portato con sé rilevanti cambiamenti demografici. Nelle Bocche di
Cattaro, i discendenti delle vecchie comunità locali sono diventati una
minoranza rispetto ai nuovi venuti originari di altre regioni.
Così la diocesi cattolica di Cattaro non conta più che 9.000 fedeli.
E la città di Herceg Novi, all'ingresso delle Bocche, dà rifugio a
numerosi rifugiati serbi della Croazia e della Bosnia Herzegovina.
I «vecchi» abitanti delle Bocche rimpiangono una civiltà interamente
fondata sul mare, che associano al ricordo della lunga dominazione
veneziana. Meglio che da qualsiasi altra parte questo rimpianto si può
percepire al piccolo museo marittimo di Perast, paese di capitani della
flotta della Serenissima. Un documento vi ricorda che il capitano Jozo
Viskovic non abbassò lo stendardo con il leone di San Marco fino al 23
agosto 1797, mentre la Repubblica di Venezia era scomparsa già il 12
maggio di quello stesso anno.
La facoltà marittima di Cattaro eredita questa lunga tradizione.
In questa regione esistono piccole scuole di navigazione dal XVI
secolo. Alla fine del XVII secolo, una delle più celebri fu quella del
capitano Marko Martinovic, a cui vennero mandati i cadetti della flotta
russa in corso di formazione dallo zar Pietro il Grande. Attualmente
quasi 400 studenti seguono le lezioni di navigazione o di meccanica.
«Siamo un popolo di marinai senza navi», spiega il professor Milorad
Raskovic. Titolare della cattedra di navigazione, egli stesso un ex
capitano, è autore di un trattato su cui gli studenti studiano con
passione. La Facoltà non ha più barche scuola - gli studenti imparano
la navigazione attraverso dei simulatori - ma nonostante questo gode
di una buona reputazione.
Per molti anni, la sorte di Cattaro dipendeva da quella di
Jugooceanija, una delle principali compagnie di navigazione jugoslave,
per cui le sanzioni internazionali degli anni '90 sono state fatali.
Bloccate nei porti, le sue ventiquattro navi sono state svendute per
pagare i debiti. Ciò nonostante, la compagnia, messa in liquidazione
nel 2003, deve ancora pagare mesi, se non addirittura anni, di salari
arretrati ai suoi ex-dipendenti - i quali nel maggio 2003 avevano
intrapreso lo sciopero della fame (7).
«I nostri allievi troveranno lavoro solo se accetteranno condizioni
salariali ingiuste, spesso sui 400 o 500 dollari per un ufficiale agli
inizi, al di sotto delle norme fissate dalle organizzazioni sindacali
internazionali, spiega il capitano Raskovic. È così che funziona ormai
la marina mercantile: una bandiera di comodo, un armatore greco,
marinai cinesi o filippini e ogni tanto, degli ufficiali
montenegrini...» Al nord dell'Albania, anche il porto di Shengjin è
immerso nella desolazione più totale. Portuali caricano con
indifferenza una vecchia nave destinata al cabotaggio, mentre qualche
peschereccio finisce di arrugginirsi. La pesca è ormai solo un ricordo
in questo vecchio porto che ruotava intorno alla pesca delle sardine.
Tuttavia navi greche e italiane vengono regolarmente a sfruttare le
riserve ittiche del paese. Un'azienda italiana ha anche rilevato una
fabbrica per la conservazione del pesce. Quando arriva un carico, i
salari alla giornata equivalgono a tre o quattro euro. E il pesce
trattato riparte immediatamente per l'Italia.

Viene dalla pianura padana la minaccia ambientale

Il mare può far ancora vivere le popolazioni costiere? Le coste
orientali dell'Adriatico rimangono molto pescose, nonostante le razzie
della «pesca troppo intensiva» e l'assenza di qualsiasi gestione
coordinata delle risorse.
Un vecchio contenzioso ha a lungo contrapposto la Croazia alla Slovenia
nel golfo di Pirano (8), poiché i 37 chilometri di litorale sloveno
sono completamente isolati in fondo al golfo di Trieste, sebbene
l'applicazione dei principi di diritto marittimo mettano il limite
delle acque croate a due miglia dai porti di Trieste (Italia) e di
Koper, l'antica Capodistria (Slovenia). Nel 2001 è stato finalmente
trovato un accordo: esso prevede un corridoio sloveno che faccia uscire
dall'isolamento Koper. La posta in gioco, sia da una parte che
dall'altra, sembra più simbolica che altro.
Ora questo accordo viene rimesso in causa dalla Croazia, che il 3
ottobre 2003 si è dotata di una zona di protezione ecologica e di pesca
nell'Adriatico. Essa ha così esteso la propria giurisdizione in alto
mare, al di là delle proprie acque territoriali - come consente il
diritto marittimo. Secondo le autorità croate, si tratta di assicurare
una migliore protezione degli ambienti marini e una gestione più
rigorosa delle risorse ittiche. Ma questa decisione si spiega
innanzitutto attraverso la possibile costruzione dell'oleodotto
Druzba-Adria, che porterebbe il petrolio russo da Samara fino al
terminal di Omislj, sull'isola croata di Krk. Per sorvegliare le
superpetroliere che poi porterebbero il petrolio verso il resto del
Mediterraneo ed evitare una catastrofe ecologica gigantesca, Zagabria
ritiene indispensabile assicurarsi una giurisdizione sul mare. Scottata
da questi progetti, Lubiana invoca la ripresa del dialogo regionale e
conta sull'arbitraggio finale di Bruxelles.

Le coste dell'Adriatico contano già altre bombe ambientali a scoppio
ritardato. Come il sito di Porto Romano, vicino a Durazzo, in Albania:
questa antica fabbrica di pesticidi e di prodotti chimici è stata
abbandonata nel 1990 e distrutta durante le rivolte del 1997. Diverse
migliaia di occupanti si sono installati sul posto, pericolosamente
inquinato. Il programma delle Nazioni unite per l'ambiente (Unep) e la
Banca mondiale tentano di ottenere il loro collocamento in nuovi
alloggi ma questa piccola comunità non ha voglia di andar via senza
solide garanzie di una casa.
In termini di minaccia ambientale, il rapporto tra le due rive del mare
rimane fortemente squilibrato. Le grandi città della pianura padana
rimangono le principali fonti di inquinamento (9), sebbene le regole
della depurazione dell'acqua che vengono applicate siano più severe che
in Albania o in Croazia. La sua caratteristica di mare semichiuso e la
sua poca profondità, in particolare nella parte settentrionale,
espongono in particolar modo l'Adriatico a fenomeni come
eutrofizzazione (10). Il meccanismo generale delle correnti marine
trascina questo inquinamento dal nord al sud, lungo la costa
occidentale. L'Italia ha più da temere. I progetti di terminal
petroliferi fanno correre seri pericoli, soprattutto per via dello
scarico delle acque delle zavorre delle petroliere, che porta allo
sviluppo di specie esogene che mettono in pericolo l'equilibrio dei
biotopi mediterranei.
La vera rinascita che si afferma in Istria contrasta con la
disillusione che domina le Bocche di Cattaro. «Le Bocche muoiono dalla
caduta di Venezia - dichiara senza timore don Branko Sbutega,
anch'egli proveniente da una lunga stirpe di doganieri veneziani,
trasferitisi lì dal XVI secolo - . La gente delle Bocche non è mai
stata padrona del proprio destino, ma ormai è la loro stessa
sopravvivenza a essere minacciata». I cambiamenti sociologici e
demografici e le conseguenze delle guerre hanno profondamente
modificato le strutture della popolazione del sottile cordone litoraneo
della costa orientale dell'Adriatico.
Allo stesso tempo, il turismo di massa e l'inquinamento fanno aleggiare
nuovi rischi su questi fragili ecosistemi.

Mare interno o frontiera dell'Europa ricca?

L'Adriatico è sempre stato una frontiera e una via di passaggio.
La guerra per mare oppose per secoli i marinai turchi e veneziani, così
come gli Uskoks, i pirati cristiani di Dalmazia e i pirati ottomani di
Ulcinj in Montenegro (11). Alla fine del XV secolo migliaia di albanesi
fuggirono la conquista turca raggiungendo l'Italia, formando comunità
in Calabria, Basilicata e Sicilia che hanno conservato l'uso della
lingua albanese (12). Tali Arbëresh sono sempre stati un ponte tra le
due rive del Mediterraneo. Dal crollo del regime comunista, numerosi
emigranti albanesi sono andati a vivere in questi paesi arbëresh, dove
in genere vengono integrati facilmente, e che al momento della crisi
del Kosovo, si mobilitarono a favore dei rifugiati. «Chi sa quanti
albanesi sono rimasti in mare dopo cinque secoli?», si chiede il
professor Donato Mazzeo, pilastro della rinascita culturale arbëresh.
Per sviluppare una politica coerente ed efficace di protezione degli
ambienti naturali e di prevenzione dei rischi ambientali, per
preservare la fragile identità delle società costiere, bisognerebbe che
l'Adriatico smettesse di essere una frontiera e diventasse
completamente un mare interno europeo. L'adesione della Slovenia
all'Unione europea il primo maggio scorso e quella, dalla scadenza
ancora non definita, della Croazia, vanno in questa direzione, a meno
che non si continui a dare all'Adriatico una funzione di frontiera
dell'Europa dei benestanti.


note:

* Giornalista, Belgrado.

(1) Vedi The Population of Albania in 2001, Tirana, Instituti i
statistikës, 2001.

(2) Vedi Paolo Raffone, «L'Europe peut-elle oublier l'Albanie?», Le
Monde diplomatique, settembre 1997.

(3) Vedi «Industrie pétrolière: monopole exorbitant pour une société
italienne en Albanie», www.balkans.eu.org/article 4380.html.

(4) Su queste migrazioni si può leggere la bella rievocazione romanzata
di Virion Graçi, Le Paradis des fous, tradotto dall'albanese da
Christiane Montécot, éditions de l'Aube, La Tour-d'Aigues, 1998.

(5) Vedi «Monténégro: privatisation en famille des plus beaux hôtels»,
www.balkans.eu.org/article4340.html.

(6) Vedi «Croatie : la privatisation d'un hôtel pourrait faire tomber
le gouvernement», www.balkans.eu.org/article2163.html, e Goran
Borkovic, «Suncani Hvar-De-Ze», Feral Tribune, Split, 21 maggio 2004.

(7) Vedi «Monténégro: les galériens de Jugooceanija en grève de la
faim», www.balkans.eu.org/article3223.html.

(8) Vedi Joseph Krulic, «Le problème de la délimitation des frontières
slovéno-croates dans le Golfe de Piran», in Balkanologie, Parigi, VI,
1-2, 2002, pp. 69-73.

(9) Vedi i contributi riuniti in The Adriatic Sea. A Sea at Risk, a
Unity of Purpose, Atene, Religion, Science & Environment, 2003, in
particolare lo studio di David G. Smith, «The overall environmental
situation in the Adriatic Sea».

(10) Sviluppo delle specie vegetali che riducono il tasso di ossigeno
dell'acqua.

(11) Vedi Pierre Cabanes (a cura di), Histoire de l'Adriatique, Seuil,
Parigi, 2001.

(12) Vedi Alain Ducellier e al., Les Chemins de l'exil. Bouleversement
de l'Est européen et migrations vers l'Ouest à la fin du Moyen Age,
Armand Colin, Parigi,1992.

(Traduzione di P. B.)