Reality Foibe. Così iniziò la stagione di sangue
Le stragi istriane vanno inserite nel contesto storico della guerra
fascista e nazista alle popolazioni slave. [....]
GIACOMO SCOTTI
Da "Il Manifesto" di Venerdì, 04 Febbraio 2005
Le stragi istriane vanno inserite nel contesto storico della guerra
fascista e nazista alle popolazioni slave. Contro ogni
strumentalizzazione, ma anche contro ogni rimozione
«Si ammazza troppo poco», e «Non dente per dente, ma testa per dente»,
raccomandavano nel 1942 i generali italiani Marco Robotti e Mario
Roatta. Furono 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di
esecuzione italiani in Slovenia, «Provincia del Carnaro», Dalmazia,
Bocche di Cattaro e Montenegro
Per una giusta comprensione del fenomeno delle foibe istriane - ma
comprensione non significa affatto giustificazione di quei crimini - è
assolutamente necessario inserire la questione nel contesto storico in
cui si verificò e nel quadro più ampio del periodo tra la fine della
prima e lo svolgimento della seconda guerra mondiale. Un periodo che fu
particolarmente tragico per una larga parte della popolazione istriana
venutasi a trovare inserita nel territorio di frontiera di un'Italia
asservita al regime fascista e perciò negata a governare con giustizia
territori plurietnici, plurilingui e multiculturali, spinta a
realizzare un preciso programma di oppressione e snazionalizzazione dei
sudditi cosiddetti allogeni e alloglotti. Ancor prima della firma del
Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l'Istria
all'Italia, quando la regione era soggetta al regime di occupazione
militare, la popolazione dell'Istria si trovò di fronte allo squadrismo
in camicia nera, importato da Trieste, che si manifestò con particolare
aggressività e ferocia. Gli stessi storici fascisti, tra i quali
l'istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli squadristi e
glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato i
misfatti compiuti - dagli assassinii di antifascisti italiani quali
Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie,
Luigi Scalier a Pola ed altri - alla distruzione delle Camere del
lavoro ed all'incendio delle Case del popolo, alle sanguinose
spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc. Questi
misfatti continuarono sotto altra forma dopo la creazione del regime:
furono distrutti e/o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali,
sociali e sportivi della popolazione slovena e croata; sparì ogni segno
esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero abolite le loro
scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri
scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con
un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di
famiglia; migliaia di persone finirono al confino. Nelle chiese le
messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata
e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, furono
cacciate dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita
quotidiana. Alcune centinaia di democratici italiani, socialisti,
comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari
diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi
anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello
Stato.
La sostituzione delle popolazioni allogene
Mi è capitato per le mani un opuscolo del ministro dei Lavori Pubblici
dell'era fascista Giuseppe Cobolli Gigli. Figlio del maestro elementare
sloveno Nikolaus Combol, classe 1863, italianizzò spontaneamente il
cognome nel 1928 anche perchè sin dal 1919 si era dato uno pseudonimo
patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un gerarca, prese un secondo
cognome, Gigli, dandosi un tocco di nobiltà. Questo signore, fu autore
di opuscoletti altamente razzisti, fra i quali Il fascismo e gli
allogeni, (da «Gerarchia», settembre 1927) in cui sosteneva la
necessità della pulizia etnica, attraverso la sostituzione delle
popolazioni «allogene» autoctone con coloni italiani provenienti da
altre provincie del Regno. Tra l'altro volle tramandare ai posteri una
canzoncina in voga fra gli squadristi di Pisino. Il paese sorge sul
bordo di una voragine che - scrisse il Cobol-Cobolli - «la musa
istriana ha chiamato Foiba, degno posto di sepoltura per chi, nella
provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche nazionali
dell'Istria». Quindi chi, fra i croati, aveva la pretesa, per esempio,
di parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar
sepoltura nella Foiba. La canzoncina di Sua Eccelenza (testo dialettale
e traduzione italiana a fronte) diceva:
A Pola xe l'Arena/ la Foiba xe a Pisin:/ che i buta zo in quel fondo/
chi ga certo morbin.
(A Pola c'è l'Arena,/ a Pisino c'è la Foiba:/ in quell'abisso vien
gettato/ chi ha certi pruriti).
Dal che si vede che il brevetto degli infoibamenti spetta ai fascisti e
risale agli inizi degli anni Venti del XX secolo. Putroppo essi non
rimasero allo stato di progetto e di canzoncine. Riportiamo qui, dal
quotidiano triestino Il Piccolo del 5 novembre 2001, la testimonianza
di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924.
«Nel luglio del 1940, ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un
mese, sono stato chiamato al lavoro "coatto", in quanto ebreo, e sono
stato destinato alle cave di bauxite, la cui sede principale era a S.
Domenica d'Albona.
Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 - poi sono stato
trasferito a Verteneglio - ha dell'incredibile. La crudeltà dei
fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l'italiano,
o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con
altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro
abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li
trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove
c'erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li
gettavano nel baratro. Quando queste cavità erano riempite, ho veduto
diversi camion, di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da
un deposito di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che
si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti.
Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica
d'Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della
finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che
non dimenticherò finchè vivrò (...). Mi chiedo sempre, pur dopo 60
anni, come un uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo. Sono
stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove
far sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito,
successivamente, si sono vendicati usando lo stesso sistema. E che dire
dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la
corriera di linea - che da Trieste era diretta a Pisino e Pola - in un
burrone con tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti.
(. . .) Ho lavorato fra Santa Domenica d'Albona, Cherso, Verteneglio
sino all'agosto del `43 e mai ho veduto un litigio fra sloveni, croati
e italiani (quelli non fascisti). L'accordo e l'amicizia era grande e
l'aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco. Un tanto per la
verità, che io posso testimoniare».
60mila slavi in fuga dall'Istria
Per gli slavi il risultato del ventennio fascista e del triennio
bellico 1940-43 fu la fuga dall'Istria di circa 60.000 persone.
Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano fu ancora una
volta il fascismo mussoliniano che nella seconda guerra mondiale portò
l'Italia ad aggredire i popoli jugoslavi. Quell'aggressione tra il 6
aprile 1941 e l'inizio di settembre 1943 fu caratterizzata dalle
brutali annessioni di larghe fette di Croazia e Slovenia e da una lunga
serie di crimini di guerra. Per ordine dello stesso Mussolini e di
alcuni generali si giunse alle scelte più draconiane dei comandi
militari italiani. Ne derivarono «rapine, uccisioni, ogni sorta di
violenza perpetrata a danno delle popolazioni».
Nelle regioni della Croazia annesse all'Italia dopo il 6 aprile `41 si
ripetè quanto avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad
ogni mezzo per la snazionalizzazione e l'assimilazione, provocando
inevitabilmente l'ostilità delle popolazioni. Nella toponomastica, per
cominciare da questo aspetto non cruento dell'occupazione, fu recitata
una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il prefetto della
Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del Fiumano e della
Kupa, Temistocle Testa. Con suo decreto dell'8 settembre 1941 fu
ordinato di «adottare senza indugio i nomi italiani di tutti quei
luoghi (comuni, frazioni, località) che erano da secoli italiani e che
la ventennale dominazione jugoslava ha trasformato in denominazioni
straniere». Così località del profondo territorio interno lungo il
fiume Kupa e nel Gorski Kotar divennero: Belica= Riobianco, Bogovic =
Bogovi, BruÜic = Brissi, Buzdohanj = Buso, Crni Lug = Bosconero, Cabar
= Concanera, Glavani = Testani, Jelenje = Cervi, Kacjak = Serpaio,
Koziji Vrh= Montecarpino, Medvedek = Orsano, Orehovica = Nocera
Inferiore, Padovo = Padova, Pecine = Grottamare e via traducendo o
inventando. Trinajstici, presso Castua, divenne Sassarino in onore
della divisione «Sassari» che vi teneva un reparto.
Ma ben presto, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni,
si passò a distruggere col fuoco quelli, fra di essi, che non
tolleravano l'italianizzazione né l'occupazione. In data 30 maggio 1942
il Prefetto Testa, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto
eseguire l'internamento nei campi di concentramento in Italia di un
numero indeterminato di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si
erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità. Ma
non si limitò alle deportazioni. Con un manifesto si rendeva noto:
«Sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20
componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia». La
rappresaglia continuò.
Il 4 giugno gli uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume
incendiarono le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje),
Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), Monte Chilovi (Kilovce), Rattecevo
in Monte (Ratecevo). A Kilovce furono fucilate 24 persone.
Non c'è villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati
Territori Aggregati e/o Annessi a contatto con l'Istria e la regione
del Quarnero, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente
raso al suolo; non ci fu una sola famiglia che non abbia avuto uno o
più membri deportati oppure fucilati.
Centomila nei campi di concetramento
Ha scritto lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco: «In Jugoslavia il
soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il
ruolo dell'aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente
nazisti quali l'incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le
deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di
concentramento». In particolare evidenzia che il numero dei condannati
e confinati «slavi» della Venezia Giulia e dell'Istria fu
particolarmente elevato, sicchè dal giugno 1940 al settembre 1943 la
maggioranza degli «ospiti» dei campi di concentramento italiani era
costituita da civili sloveni e croati. Il numero totale dei civili
internati dall'Italia fascista superò di diverse volte quello
complessivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici
antifascisti in tutti i 17 anni durante i quali rimasero in vigore le
«leggi eccezionali»; più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e
comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra commessi
durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. I campi di concentramento nei
quali furono rinchiusi più di centomila civili croati, sloveni,
montenegrini ed erzegovesi erano disseminati dall'Albania all'Italia
meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe
(Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel
Veneto. Non si contano, poi, i campi «di transito e internamento» che
funzionavano lungo tutta la costa dalmata, sulle isole di Ugliano
(Ugljan) e Melada (Molat). Quest' ultimo fu definito da monsignor
Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, «un sepolcro di viventi». In quei
lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe
ne morirono 2.600 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per
denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. Il 15 dicembre 1942
l'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli,
trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in
visita al campo di Arbe dove gli internati «presentavano nell'assoluta
totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame». Sotto quel
rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: «Logico
ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo
d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».
Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma
al Comando dell'XI Corpo in cui si parlava di «briganti comunisti
passati per le armi» e «sospetti di favoreggiamento» arrestati. In una
nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose: «Chiarire bene il
trattamento dei sospetti (. . .). Cosa dicono le norme 4c e quelle
successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!». Il generale Mario
Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia nel
marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge:
«Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla
formula dente per dente ma bensì da testa per dente».
Furono circa 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di
esecuzione italiani, dalla Slovenia alla «Provincia del Carnaro», dalla
Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito
alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali
dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.
Potremmo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto
feroce dell'Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori
jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri,
i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di
rastrellamento. Mi limiterò, per l'Istria ad alcuni episodi che
precedettero di pochi mesi i fatti del settembre 1943.
Il 6 giugno 1942 furono deportate nei campi di internamento in Italia
34 famiglie per un totale di 131 persone di Castua, Marcegli, Rubessi,
San Matteo e Spincici; i loro beni, compreso il bestiame, furono
confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case
incendiate, dodici persone vennero fucilate.
I deportati in Italia, i villaggi rasi al suolo
Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di
Grobnico, a nord di Fiume. Per ordine del prefetto Temistocle Testa,
reparti di camicie nere e di truppe regolari, irruppero nel villaggio
di Podhum all'alba del 13 luglio. Rastrellata l'intera popolazione,
questa fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione
di Grobnico, mentre il villaggio veniva prima saccheggiato e poi
incendiato. Oltre mille capi di bestiame grosso e 1300 di bestiame
minuto furono portati via, 889 persone rispettivamente 185 famiglie
finirono nei campi di internamento italiani: più di cento maschi furono
fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13
anni appena.
Con un telegramma spedito a Roma il 13 luglio, Testa informò: «Ierisera
tutto l'abitato di Pothum nessuna casa esclusa est raso al suolo et
conniventi et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati
per le armi et con cinismo si sono presentati davanti ai reparti
militari dell'armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci
giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop
Il resto della popolazione e le donne e bambini sono stati internati
stop».
Nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciassette
villaggi; furono passate per le armi 59 persone, altre 2311 furono
deportate e precisamente 842 uomini, 904 donne e 565 bambini; furono
incendiate 503 case e 237 stalle. Sempre nella zona di Fiume, il 3
maggio 1943, reparti di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il
villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, portarono via tutto il
bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e quindi
appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici
"covi di ribelli". Nei campi di internamento finirono 273 abitanti di
Kukuljani e 200 di Zoretici.
Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione
civile slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche
italiane di Trieste, tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il
2 settembre 1943 da un "Fronte nazionale antifascista" al Prefetto
Giuseppe Cocuzza. Era passato un mese e mezzo dalla caduta del regime
fascista. Nel documento, si fa una denuncia drammaticamente
circostanziata delle vessazioni, arresti, devastazioni ed esecuzioni
sommarie «operate con grande discrezionalità da bande di squadristi che
avevano goduto per troppo tempo della mano libera e della compiacenza
di certe autorità». Nell'iniziativa era evidente, oltretutto, un
«diffuso senso di paura per una vendetta» che avrebbe potuto abbattersi
indiscriminatamente sugli Italiani dell'Istria come reazione «alla
tracotanza del Regime e dei suoi uomini più violenti che in Istria e
nella Venezia Giulia avevano usato strumenti e atteggiamenti fortemente
coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave».
(ripreso da: http://www.contropiano.org/ )
Le stragi istriane vanno inserite nel contesto storico della guerra
fascista e nazista alle popolazioni slave. [....]
GIACOMO SCOTTI
Da "Il Manifesto" di Venerdì, 04 Febbraio 2005
Le stragi istriane vanno inserite nel contesto storico della guerra
fascista e nazista alle popolazioni slave. Contro ogni
strumentalizzazione, ma anche contro ogni rimozione
«Si ammazza troppo poco», e «Non dente per dente, ma testa per dente»,
raccomandavano nel 1942 i generali italiani Marco Robotti e Mario
Roatta. Furono 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di
esecuzione italiani in Slovenia, «Provincia del Carnaro», Dalmazia,
Bocche di Cattaro e Montenegro
Per una giusta comprensione del fenomeno delle foibe istriane - ma
comprensione non significa affatto giustificazione di quei crimini - è
assolutamente necessario inserire la questione nel contesto storico in
cui si verificò e nel quadro più ampio del periodo tra la fine della
prima e lo svolgimento della seconda guerra mondiale. Un periodo che fu
particolarmente tragico per una larga parte della popolazione istriana
venutasi a trovare inserita nel territorio di frontiera di un'Italia
asservita al regime fascista e perciò negata a governare con giustizia
territori plurietnici, plurilingui e multiculturali, spinta a
realizzare un preciso programma di oppressione e snazionalizzazione dei
sudditi cosiddetti allogeni e alloglotti. Ancor prima della firma del
Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l'Istria
all'Italia, quando la regione era soggetta al regime di occupazione
militare, la popolazione dell'Istria si trovò di fronte allo squadrismo
in camicia nera, importato da Trieste, che si manifestò con particolare
aggressività e ferocia. Gli stessi storici fascisti, tra i quali
l'istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli squadristi e
glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato i
misfatti compiuti - dagli assassinii di antifascisti italiani quali
Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie,
Luigi Scalier a Pola ed altri - alla distruzione delle Camere del
lavoro ed all'incendio delle Case del popolo, alle sanguinose
spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc. Questi
misfatti continuarono sotto altra forma dopo la creazione del regime:
furono distrutti e/o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali,
sociali e sportivi della popolazione slovena e croata; sparì ogni segno
esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero abolite le loro
scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri
scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con
un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di
famiglia; migliaia di persone finirono al confino. Nelle chiese le
messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata
e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, furono
cacciate dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita
quotidiana. Alcune centinaia di democratici italiani, socialisti,
comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari
diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi
anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello
Stato.
La sostituzione delle popolazioni allogene
Mi è capitato per le mani un opuscolo del ministro dei Lavori Pubblici
dell'era fascista Giuseppe Cobolli Gigli. Figlio del maestro elementare
sloveno Nikolaus Combol, classe 1863, italianizzò spontaneamente il
cognome nel 1928 anche perchè sin dal 1919 si era dato uno pseudonimo
patriottico, Giulio Italico. Divenuto poi un gerarca, prese un secondo
cognome, Gigli, dandosi un tocco di nobiltà. Questo signore, fu autore
di opuscoletti altamente razzisti, fra i quali Il fascismo e gli
allogeni, (da «Gerarchia», settembre 1927) in cui sosteneva la
necessità della pulizia etnica, attraverso la sostituzione delle
popolazioni «allogene» autoctone con coloni italiani provenienti da
altre provincie del Regno. Tra l'altro volle tramandare ai posteri una
canzoncina in voga fra gli squadristi di Pisino. Il paese sorge sul
bordo di una voragine che - scrisse il Cobol-Cobolli - «la musa
istriana ha chiamato Foiba, degno posto di sepoltura per chi, nella
provincia, minaccia con audaci pretese, le caratteristiche nazionali
dell'Istria». Quindi chi, fra i croati, aveva la pretesa, per esempio,
di parlare nella lingua materna, correva il pericolo di trovar
sepoltura nella Foiba. La canzoncina di Sua Eccelenza (testo dialettale
e traduzione italiana a fronte) diceva:
A Pola xe l'Arena/ la Foiba xe a Pisin:/ che i buta zo in quel fondo/
chi ga certo morbin.
(A Pola c'è l'Arena,/ a Pisino c'è la Foiba:/ in quell'abisso vien
gettato/ chi ha certi pruriti).
Dal che si vede che il brevetto degli infoibamenti spetta ai fascisti e
risale agli inizi degli anni Venti del XX secolo. Putroppo essi non
rimasero allo stato di progetto e di canzoncine. Riportiamo qui, dal
quotidiano triestino Il Piccolo del 5 novembre 2001, la testimonianza
di Raffaello Camerini, ebreo, classe 1924.
«Nel luglio del 1940, ottenuta la licenza scientifica, dopo neanche un
mese, sono stato chiamato al lavoro "coatto", in quanto ebreo, e sono
stato destinato alle cave di bauxite, la cui sede principale era a S.
Domenica d'Albona.
Quello che ho veduto in quel periodo, sino al 1941 - poi sono stato
trasferito a Verteneglio - ha dell'incredibile. La crudeltà dei
fascisti italiani contro chi parlava il croato, invece che l'italiano,
o chi si opponeva a cambiare il proprio cognome croato o sloveno, con
altro italiano, era tale che di notte prendevano di forza dalle loro
abitazioni gli uomini, giovani e vecchi, e con sistemi incredibili li
trascinavano sino a Vignes, Chersano e altre località limitrofe, ove
c'erano delle foibe, e lì, dopo un colpo di pistola alla nuca, li
gettavano nel baratro. Quando queste cavità erano riempite, ho veduto
diversi camion, di giorno e di sera, con del calcestruzzo prelevato da
un deposito di materiali da costruzione sito alla base di Albona, che
si dirigevano verso quei siti e dopo poco tempo ritornavano vuoti.
Allora, io abitavo in una casa sita nella piazza di Santa Domenica
d'Albona, adiacente alla chiesa, e attraverso le tapparelle della
finestra della stanza ho veduto più volte, di notte, quelle scene che
non dimenticherò finchè vivrò (...). Mi chiedo sempre, pur dopo 60
anni, come un uomo può avere tanta crudeltà nel proprio animo. Sono
stati gli italiani, fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove
far sparire i loro avversari. Logicamente, i partigiani di Tito,
successivamente, si sono vendicati usando lo stesso sistema. E che dire
dei fascisti italiani che il 26 luglio 1943 hanno fatto dirottare la
corriera di linea - che da Trieste era diretta a Pisino e Pola - in un
burrone con tutto il carico di passeggeri, con esito letale per tutti.
(. . .) Ho lavorato fra Santa Domenica d'Albona, Cherso, Verteneglio
sino all'agosto del `43 e mai ho veduto un litigio fra sloveni, croati
e italiani (quelli non fascisti). L'accordo e l'amicizia era grande e
l'aiuto, in quel difficile periodo, era reciproco. Un tanto per la
verità, che io posso testimoniare».
60mila slavi in fuga dall'Istria
Per gli slavi il risultato del ventennio fascista e del triennio
bellico 1940-43 fu la fuga dall'Istria di circa 60.000 persone.
Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano fu ancora una
volta il fascismo mussoliniano che nella seconda guerra mondiale portò
l'Italia ad aggredire i popoli jugoslavi. Quell'aggressione tra il 6
aprile 1941 e l'inizio di settembre 1943 fu caratterizzata dalle
brutali annessioni di larghe fette di Croazia e Slovenia e da una lunga
serie di crimini di guerra. Per ordine dello stesso Mussolini e di
alcuni generali si giunse alle scelte più draconiane dei comandi
militari italiani. Ne derivarono «rapine, uccisioni, ogni sorta di
violenza perpetrata a danno delle popolazioni».
Nelle regioni della Croazia annesse all'Italia dopo il 6 aprile `41 si
ripetè quanto avvenuto in Istria dopo la Grande Guerra: si ricorse ad
ogni mezzo per la snazionalizzazione e l'assimilazione, provocando
inevitabilmente l'ostilità delle popolazioni. Nella toponomastica, per
cominciare da questo aspetto non cruento dell'occupazione, fu recitata
una vera e propria tragicommedia, avendo come regista il prefetto della
Provincia del Carnaro e dei Territori Aggregati del Fiumano e della
Kupa, Temistocle Testa. Con suo decreto dell'8 settembre 1941 fu
ordinato di «adottare senza indugio i nomi italiani di tutti quei
luoghi (comuni, frazioni, località) che erano da secoli italiani e che
la ventennale dominazione jugoslava ha trasformato in denominazioni
straniere». Così località del profondo territorio interno lungo il
fiume Kupa e nel Gorski Kotar divennero: Belica= Riobianco, Bogovic =
Bogovi, BruÜic = Brissi, Buzdohanj = Buso, Crni Lug = Bosconero, Cabar
= Concanera, Glavani = Testani, Jelenje = Cervi, Kacjak = Serpaio,
Koziji Vrh= Montecarpino, Medvedek = Orsano, Orehovica = Nocera
Inferiore, Padovo = Padova, Pecine = Grottamare e via traducendo o
inventando. Trinajstici, presso Castua, divenne Sassarino in onore
della divisione «Sassari» che vi teneva un reparto.
Ma ben presto, dopo aver battezzato città, comuni, villaggi e frazioni,
si passò a distruggere col fuoco quelli, fra di essi, che non
tolleravano l'italianizzazione né l'occupazione. In data 30 maggio 1942
il Prefetto Testa, rese noto con pubblici manifesti di aver fatto
eseguire l'internamento nei campi di concentramento in Italia di un
numero indeterminato di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si
erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità. Ma
non si limitò alle deportazioni. Con un manifesto si rendeva noto:
«Sono stase rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20
componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia». La
rappresaglia continuò.
Il 4 giugno gli uomini del II Battaglione Squadristi di Fiume
incendiarono le case dei villaggi: Bittigne di Sotto (Spodnje Bitinje),
Bittigne di Sopra (Gornje Bitnje), Monte Chilovi (Kilovce), Rattecevo
in Monte (Ratecevo). A Kilovce furono fucilate 24 persone.
Non c'è villaggio sul territorio di quelli che furono chiamati
Territori Aggregati e/o Annessi a contatto con l'Istria e la regione
del Quarnero, che non abbia avuto case bruciate o sia stato interamente
raso al suolo; non ci fu una sola famiglia che non abbia avuto uno o
più membri deportati oppure fucilati.
Centomila nei campi di concetramento
Ha scritto lo storiografo Carlo Spartaco Capogreco: «In Jugoslavia il
soldato italiano, oltre che quello del combattente ha svolto anche il
ruolo dell'aguzzino, non di rado facendo ricorso a metodi tipicamente
nazisti quali l'incendio dei villaggi, le fucilazioni di ostaggi, le
deportazioni in massa dei civili e il loro internamento nei campi di
concentramento». In particolare evidenzia che il numero dei condannati
e confinati «slavi» della Venezia Giulia e dell'Istria fu
particolarmente elevato, sicchè dal giugno 1940 al settembre 1943 la
maggioranza degli «ospiti» dei campi di concentramento italiani era
costituita da civili sloveni e croati. Il numero totale dei civili
internati dall'Italia fascista superò di diverse volte quello
complessivamente raggiunto dai detenuti e confinati politici
antifascisti in tutti i 17 anni durante i quali rimasero in vigore le
«leggi eccezionali»; più di 800 italiani, fra alti gerarchi civili e
comandanti militari, furono denunciati per crimini di guerra commessi
durante la seconda guerra mondiale alla War Crimes Commission
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. I campi di concentramento nei
quali furono rinchiusi più di centomila civili croati, sloveni,
montenegrini ed erzegovesi erano disseminati dall'Albania all'Italia
meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe
(Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel
Veneto. Non si contano, poi, i campi «di transito e internamento» che
funzionavano lungo tutta la costa dalmata, sulle isole di Ugliano
(Ugljan) e Melada (Molat). Quest' ultimo fu definito da monsignor
Girolamo Mileta, vescovo di Sebenico, «un sepolcro di viventi». In quei
lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe
ne morirono 2.600 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per
denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. Il 15 dicembre 1942
l'Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli,
trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in
visita al campo di Arbe dove gli internati «presentavano nell'assoluta
totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame». Sotto quel
rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: «Logico
ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo
d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».
Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma
al Comando dell'XI Corpo in cui si parlava di «briganti comunisti
passati per le armi» e «sospetti di favoreggiamento» arrestati. In una
nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose: «Chiarire bene il
trattamento dei sospetti (. . .). Cosa dicono le norme 4c e quelle
successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!». Il generale Mario
Roatta, comandante della II Armata italiana in Slovenia e Croazia nel
marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge:
«Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla
formula dente per dente ma bensì da testa per dente».
Furono circa 200.000 i civili «ribelli» falciati dai plotoni di
esecuzione italiani, dalla Slovenia alla «Provincia del Carnaro», dalla
Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito
alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali
dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti.
Potremmo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto
feroce dell'Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori
jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri,
i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di
rastrellamento. Mi limiterò, per l'Istria ad alcuni episodi che
precedettero di pochi mesi i fatti del settembre 1943.
Il 6 giugno 1942 furono deportate nei campi di internamento in Italia
34 famiglie per un totale di 131 persone di Castua, Marcegli, Rubessi,
San Matteo e Spincici; i loro beni, compreso il bestiame, furono
confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case
incendiate, dodici persone vennero fucilate.
I deportati in Italia, i villaggi rasi al suolo
Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di
Grobnico, a nord di Fiume. Per ordine del prefetto Temistocle Testa,
reparti di camicie nere e di truppe regolari, irruppero nel villaggio
di Podhum all'alba del 13 luglio. Rastrellata l'intera popolazione,
questa fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione
di Grobnico, mentre il villaggio veniva prima saccheggiato e poi
incendiato. Oltre mille capi di bestiame grosso e 1300 di bestiame
minuto furono portati via, 889 persone rispettivamente 185 famiglie
finirono nei campi di internamento italiani: più di cento maschi furono
fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13
anni appena.
Con un telegramma spedito a Roma il 13 luglio, Testa informò: «Ierisera
tutto l'abitato di Pothum nessuna casa esclusa est raso al suolo et
conniventi et partecipi bande ribelli nel numero 108 sono stati passati
per le armi et con cinismo si sono presentati davanti ai reparti
militari dell'armata operanti nella zona, reparti che solo ultimi dieci
giorni avevano avuto sedici soldati uccisi dai ribelli di Pothum stop
Il resto della popolazione e le donne e bambini sono stati internati
stop».
Nel solo Comune di Castua subirono spedizioni punitive diciassette
villaggi; furono passate per le armi 59 persone, altre 2311 furono
deportate e precisamente 842 uomini, 904 donne e 565 bambini; furono
incendiate 503 case e 237 stalle. Sempre nella zona di Fiume, il 3
maggio 1943, reparti di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il
villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, portarono via tutto il
bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e quindi
appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici
"covi di ribelli". Nei campi di internamento finirono 273 abitanti di
Kukuljani e 200 di Zoretici.
Queste sanguinose persecuzioni indiscriminate contro la popolazione
civile slava furono denunciate anche da eminenti personalità politiche
italiane di Trieste, tra cui i firmatari di un Promemoria presentato il
2 settembre 1943 da un "Fronte nazionale antifascista" al Prefetto
Giuseppe Cocuzza. Era passato un mese e mezzo dalla caduta del regime
fascista. Nel documento, si fa una denuncia drammaticamente
circostanziata delle vessazioni, arresti, devastazioni ed esecuzioni
sommarie «operate con grande discrezionalità da bande di squadristi che
avevano goduto per troppo tempo della mano libera e della compiacenza
di certe autorità». Nell'iniziativa era evidente, oltretutto, un
«diffuso senso di paura per una vendetta» che avrebbe potuto abbattersi
indiscriminatamente sugli Italiani dell'Istria come reazione «alla
tracotanza del Regime e dei suoi uomini più violenti che in Istria e
nella Venezia Giulia avevano usato strumenti e atteggiamenti fortemente
coercitivi nei riguardi delle popolazioni slave».
(ripreso da: http://www.contropiano.org/ )