GUERRA E DISEQUILIBRI DELLO SVILUPPO CAPITALISTICO: LE CAUSE
STRUTTURALI DELL’IMPERIALISMO
di Bruno Steri
(articolo apparso sul penultimo numero della rivista L'Ernesto - 5/2004
- http://www.lernesto.it/ )
1) Imperialismo e politiche imperialiste
Quando, nella contesa delle idee e dei congressi di partito, insistiamo
pervicacemente a valorizzare la portata conoscitiva e politica di una
categoria come quella di imperialismo, non lo facciamo per un desiderio
smodato di custodire reliquie ma perché siamo convinti che tale
categoria serva - oggi più che mai - ad illuminare un tratto profondo
del funzionamento (o per meglio dire: delle disfunzioni) del modo di
produzione di merci in cui siamo immersi, che essa contribuisca ad
individuare un movente essenziale che preme sull’odierno sistema di
rapporti internazionali e che determina i conflitti in esso insorgenti.
E’ bene precisare che tale nozione non descrive semplicemente una
determinata politica di potenza, l’uso della forza con l’imposizione
manu militari del dominio di un paese su di un altro: questo è
certamente l’effetto più visibile e dirompente. Tuttavia imperialismo
non esaurisce il suo significato nel riferimento ad una politica
imperialista, ma (come già Lenin faceva polemicamente notare a Karl
Kautsky) rinvia altresì all’insieme delle condizioni strutturali da cui
quella politica scaturisce. L’aggressività bellica e la sopraffazione
indotta dai rapporti di forza vigenti nel contesto globale emanano cioè
dai dispositivi che presiedono all’attuale sistema di produzione della
ricchezza, nonché dal loro incepparsi. In sintesi: la volontà di
potenza si dispiega dal seno del contraddittorio processo di
accumulazione capitalistico e sulla scia della violenza che esso
produce. Ciò significa che, per comprendere ad esempio le ragioni di
fondo della “guerra preventiva e permanente”, teorizzata ed oggi
cinicamente praticata dagli Stati Uniti, è certamente pertinente ma
non sufficiente indicare l’armamentario particolarmente reazionario
dell’establishment “neoconservatore”, che legittima tale strategia sul
piano ideologico ed offre un’autogiustificazione etica all’azione
genocida: occorre insieme indagare, accanto alle sue potenti risorse,
l’intrinseca contraddittorietà dello sviluppo capitalistico e la
precarietà degli assetti socio-economici, oltre che politici, nel mondo
cui esso mette capo.
Cercherò qui di seguito di supportare con qualche elemento di
concretezza le suddette affermazioni. Ma aggiungo sin d’ora che, a mio
giudizio, quanti - sia da destra che dalla cosiddetta estrema sinistra
- ritengono questo approccio viziato di “economicismo” esprimono di
fatto una posizione che, su punti di sostanza, si pone fuori
dall’impianto analitico marxiano. Cosa lecita, ovviamente (seppure da
me nient’affatto condivisa): purchè la si ponga con chiarezza agli atti
della discussione, senza imbrogliar le carte e chiamando le cose con il
loro nome.
2) I connotati strutturali dell’ imperialismo
Alcuni dei fenomeni economici a cui Lenin, nei primi decenni del secolo
scorso, ascriveva il costituirsi dello “stadio imperialistico” hanno
acquisito una consistenza mai registrata prima d’ora. In primo luogo,
le aziende monopolistiche mantengono ed anzi consolidano la loro
funzione di direzione dell’economia. Abbiamo assistito in quest’ultimo
quindicennio a poderosi processi di concentrazione del capitale, che si
realizzano oltrepassando i confini nazionali: annotava recentemente su
questa rivista Vladimiro Giacchè che dal 1990 al 1998 il valore delle
fusioni industriali nell’Occidente capitalistico è quintuplicato,
passando da 500 a 2500 miliardi di dollari; nel 2000, tale valore è
raddoppiato raggiungendo i 5000 miliardi di dollari. Dopo la crisi che
ha segnato l’inizio di questo secolo, aperta dall’implosione della
bolla speculativa e il crollo dei titoli di Wall Street del marzo 2001,
il processo di concentrazione è ripreso vigorosamente. Non si tratta di
una connotazione estrinseca del sistema capitalistico, ma di una sua
caratteristica incomprimibile. Come Marx aveva previsto analizzando le
tendenze fondamentali di questo modo di produzione, continua ad
aumentare “il volume minimo di capitale necessario al capitalista
individuale per la messa in opera produttiva del lavoro” e, dunque,
indispensabile perché questo lavoro sia redditizio (ovvero perché
produca plusvalore): per dirla con l’attuale linguaggio degli
economisti, c’è un vertiginoso incremento dell’entità di capitale
iniziale da impiegare per superare le “barriere in entrata” e per
conseguire nel ciclo produttivo le necessarie “economie di scala”.
Com’è noto, molte delle difficoltà del “sistema Italia” stanno proprio
qui, collegate come sono ad un congenito “nanismo industriale”.
La suddetta evoluzione delle dimensioni dell’investimento produttivo
rende conto della necessità delle imprese di ricorrere al mercato dei
capitali per ovviare alla limitatezza delle loro disponibilità
finanziarie. E’ questa un’altra delle caratteristiche essenziali a suo
tempo sottolineata da Lenin: la preminenza del capitale finanziario,
l’importanza assunta nel sistema economico dalle banche e dalla
finanza. Come è stato ancora notato, non è dunque un caso che - ad
esempio - le principali imprese tedesche siano oggi di proprietà di
società assicuratrici e che la Allianz Assicurazioni entri nel capitale
di ben 29 gruppi industriali (tra cui Basf, Siemens, Bayer). Alla fine
del 2001, nelle mani delle prime dieci società finanziarie tedesche
c’era un pacchetto di proprietà del valore di 170 miliardi di dollari
(1). La cosiddetta finanziarizzazione fa lievitare appunto le
transazioni finanziarie, che superano oggi in volume quelle
commerciali, alimentando il tasso speculativo del sistema economico: la
libera circolazione del capitale non si lascia orientare da un’etica
dell’investimento produttivo (produttivo, si intende, di valori d’uso)
e gli enormi flussi finanziari si dirigono dove più alta è la
redditività (foss’anche speculativa). D’altra parte, tale logica
sovrintende allo stesso sviluppo del settore dei servizi rispetto a
quello del tradizionale comparto manifatturiero: come dimostrano le
acquisizioni azionarie di Telecom da parte dei grandi gruppi
industriali italiani, il capitale di rischio - venendo meno ai compiti
eroici che ad esso la letteratura apologetica suole affidare - è pronto
all’occorrenza a rifugiarsi in settori più protetti, trasformandosi di
buon grado in mero “percettore di tariffe”. E se necessario, se non
trova in patria adeguata collocazione, viaggia all’estero verso altri
lidi. E siamo così al terzo essenziale connotato della fase
imperialistica, così com’è confermato dai dati odierni: l’esportazione
di capitale sopravanza l’esportazione di merci.
3) Contraddittorietà del processo di accumulazione capitalistico e
imperialismo
Queste rapide osservazioni servono a mostrare come l’uso della nozione
di imperialismo implichi in quanto tale un riferimento al cuore
dell’impianto marxiano di analisi del modo di produzione capitalistico.
La fase dell’imperialismo, se per un verso evidenzia alcune specifiche
caratteristiche e conferisce sistemazione teorica a fatti salienti
storicamente determinati, per altro verso è essa stessa espressione di
quell’essenziale vocazione all’autoespansione che è tipica del capitale
e del ciclo produttivo che esso è chiamato a inaugurare. Questo
poderoso sistema di messa al lavoro, di organizzazione produttiva della
forza-lavoro, riproduce le proprie condizioni di esistenza su una scala
progressivamente allargata ed è in grado di perpetuare tale processo di
allargamento delle basi produttive nella misura in cui consegue ad ogni
ciclo produttivo un incremento di valore rispetto al valore del
capitale anticipato. In tale spasmodica ricerca di plusvalore consiste
precisamente il movente essenziale e, insieme, la conditio sine qua non
della produzione capitalistica. L’attuale diffusione planetaria del
lavoro salariato – con l’esplosione del fenomeno delle delocalizzazioni
di aziende e rami d’azienda labour intensive, alla ricerca del più
basso costo del lavoro - sta lì a dimostrare (con buona pace delle
pseudoteorie sulla “fine del lavoro”) che il motore della produzione di
valore va ancora reperito nel rapporto tra capitale e lavoro, in
relazione alle condizioni di sfruttamento che tale rapporto instaura.
Tuttavia non è questa l’unica contraddizione - anche se è certamente la
principale - cui la creazione capitalistica di ricchezza va incontro.
Il capitale produce in misura delle forze produttive impiegate, senza
riguardo ai limiti del mercato o ai bisogni solvibili dei consumatori.
E il valore creato, che è direttamente proporzionale al tempo di lavoro
socialmente necessario per produrre le merci, è però indirettamente
proporzionale al tempo di circolazione delle merci medesime: da ciò
discende l’assoluta necessità di ridurre quest’ultimo (attraverso
miglioramenti nell’organizzazione dei trasporti e della struttura
commerciale nonché attraverso lo strumento del credito). Troviamo qui -
nella separazione tra sfera della produzione e sfera della circolazione
– una seconda importante fonte di squilibrio. Se rallenta o addirittura
si inceppa la conversione in denaro sonante dello stock di prodotto
finito, si interrompe il processo d’accumulazione del capitale, il
capitale merce non si ritrasforma in capitale monetario pronto per
avviare un nuovo ciclo produttivo, le merci languono ammassate e
invendute. E’ questo lo schema semplificato della crisi di
sovraproduzione. Essa non deriva tanto da un limite nel consumo, da una
sorta di naturale limitazione dei bisogni di chi è chiamato ad
acquistare merci; quanto piuttosto dall’eccesso di capitale,
dall’accumulo della massa di valore destinata a generare plusvalore,
rispetto alle dimensioni della domanda solvibile. Il carattere
tendenzialmente anarchico della produzione capitalistica si concretizza
nella concorrenza tra produttori su scala mondiale (che la formazione
di cartelli nazionali e sovranazionali non riesce a sopprimere),
nell’ineguale sviluppo delle forze produttive nelle diverse aree del
mondo, nell’incombere di una sempre possibile sfasatura tra l’offerta
di merci e le disponibilità del mercato: tutto ciò esemplifica la
contraddizione tra l’illimitata capacità di espansione delle forze
produttive e la limitata possibilità di valorizzazione del capitale. Lo
scompenso assume appunto le sembianze di un’eccedenza di capitale che
non riesce a trovare la via della sua valorizzazione.
A questo proposito, va ricordato che le rilevazioni statistiche
concordano nell’indicare la metà degli anni ’70 come l’inizio di un
persistente e generalizzato rallentamento (slowdown) dell’economia
capitalistica nel suo complesso: un lento ma costante declino di
investimenti, produttività, profitti e occupazione. La pluridecennale
tendenza negativa dell’indicatore produttività ha costituito il segnale
di una riduzione (o sottoutilizzazione) delle capacità produttive, a
sua volta espressione della diminuzione delle possibilità di
investimento redditizio, della saturazione dei mercati, della debolezza
della domanda effettiva, degli aumenti dei prezzi energetici
(soprattutto nelle fasi calde delle crisi petrolifere). Gli anni ’90
hanno apportato a questo quadro due novità: al di fuori dei confini
dell’Occidente, lo sviluppo impetuoso della Cina; dal seno del potere
occidentale, la guerra (imperialista) come strumento privilegiato per
il ripristino di più favorevoli condizioni di sfruttamento ed
estrazione del plusvalore. Tuttavia, nonostante i suoi potenti mezzi
(pacifici e non), lo sviluppo capitalistico è a tutt’oggi ben lungi
dall’aver dissolto le sue contraddizioni: almeno a giudicare dalle
pessimistiche previsioni sul futuro dell’economia Usa effettuate dalla
maggioranza degli addetti ai lavori. E alla base delle difficoltà
troviamo ancora il problema dell’eccesso di capacità inutilizzata. Di
ciò è convinta ad esempio Susan Kalla, analista di punta di Wall
Street, in relazione ad uno dei settori produttivi nevralgici: “Quello
delle telecomunicazioni è, fra tutti i comparti dell’hi-tech, quello
che ancora subisce i contraccolpi delle eccessive aspettative degli
anni ’90. Allora furono intrapresi investimenti colossali, sembrava che
ogni abitante del pianeta dovesse passare tutta la sua vita al telefono
e su più linee contemporaneamente. La sovracapacità in termini di linee
installate, le compagnie la stanno scontando ancora oggi” (Poca fiducia
nell’economia Usa, Affari & Finanza 15-11-2004). E la stanno scontando
anche i lavoratori in termini di licenziamenti (per nulla riassorbiti
dalle cosiddette “ripresine”). Ma su tale incertezza di prospettive
torneremo tra poco.
4) L’uso della tecnologia come ulteriore fattore di crisi
E’ utile ora richiamare un ulteriore potentissimo fattore di crisi, già
individuato e ben descritto da Marx. Una modalità per incrementare la
quota di plusvalore prodotto è connessa all’aumento della forza
produttiva attraverso l’uso delle macchine: aumentare la produttività
del lavoro significa diminuire la quantità di lavoro richiesta per
produrre una merce o - detto in termini equivalenti - abbassare il
tempo di lavoro socialmente necessario per tale produzione. In regime
capitalistico, il guadagno derivante dal suddetto progresso tecnologico
non va alla collettività, ma al profitto del capitalista individuale:
il quale, “risparmiando” operai, riduce il lavoro che nel ciclo
produttivo è necessario per costituire il valore delle retribuzioni da
erogare ai lavoratori, a tutto vantaggio della quota di valore prodotta
e non pagata, da lui acquisita appunto come plusvalore. Ma quel che gli
apologeti e tutti i cantori del “mito tecnologico” - di destra e di
sinistra - non hanno compreso è che tale uso della tecnologia,
nell’ambito del modo di produzione capitalistico, è condizionato da
limiti ben precisi. L’obiettivo di tale uso non è il mero aumento,
fisicamente inteso, della massa di merci nell’unità di tempo, bensì
l’incremento di valore (e di plusvalore) che attraverso tale aumento
deve realizzarsi. Detto in termini marxiani, la forza produttiva (di
valore e plusvalore) non varia se il macchinario viene a costare tanto
lavoro quanto il suo uso ne risparmia: in questo caso, per il
capitalista non vi sarebbe alcun guadagno. Il limite nell’uso delle
macchine è dato cioè dal fatto che il loro impiego deve essere
redditizio: ed esso è redditizio solo se l’aumento di lavoro richiesto
per produrre il nuovo macchinario risulta minore della diminuzione di
lavoro determinata dal suo uso. Tali basilari considerazioni
contribuiscono a spiegare il fenomeno apparentemente paradossale,
verificatosi in questi ultimi due decenni, di rallentamenti della
produttività totale e rendimenti decrescenti contestualmente
all’introduzione di nuove tecnologie (in particolare della tecnologia
informatica). L’aumento di “intensità tecnologica” dei processi
produttivi è collegato, oltre che all’incremento smisurato dei loro
costi, all’accorciamento della vita media dei macchinari e, dunque,
all’accelerazione dei ritmi di rinnovo degli stessi. Di qui, la
sequenza dei fenomeni indesiderati: l’accelerazione del progresso
tecnico può dare luogo a un’accelerazione dei rinnovi di capitale a
elevato contenuto tecnologico e a un consistente aumento del peso di
questi rinnovi sul totale degli investimenti, con un’incidenza negativa
sulla produttività del sistema (2). Il crollo dei titoli tecnologici
verificatosi a Wall Street nel marzo del 2001 è dipeso tra l’altro dal
rallentamento degli ordinativi di tecnologia informatica da parte delle
imprese (oltre che ovviamente dalla saturazione del mercato dei
consumatori individuali).
Quanto abbiamo detto sul problema dell’aumento della forza produttiva
del capitale è importante, ma non esaurisce ancora tutta la storia.
Resta da sottolineare un punto essenziale, concernente la connessione
tra questo stesso aumento della forza produttiva e la caduta
tendenziale del saggio di profitto che esso fatalmente porta con sé.
Tale aspetto delle crisi capitalistiche è stato anche recentemente
ritematizzato in un interessante saggio di Guglielmo Carchedi (3).
L’introduzione di nuova tecnologia nel ciclo produttivo, con il
relativo “risparmio” di lavoratori, comporta che nella maggior massa di
merci prodotte la quota di valore trasferita dai rinnovati mezzi di
produzione cresca rispetto a quella ottenuta dall’erogazione di
forza-lavoro. Ma sappiamo che nell’impianto marxiano il valore creato
ex novo non proviene dall’uso del macchinario (che si limita a
trasferire nella merce prodotta il valore in esso già contenuto), ma
scaturisce unicamente dal fatto che il lavoro vivo (l’insieme degli
operai impiegati nel processo produttivo) produce un valore
supplementare (il plusvalore appunto) oltre a quello che va a
ricostituire il suo prezzo di mercato (il suo salario). Da ciò deriva
che gli effetti dell’innovazione tecnologica applicata alla produzione
risultino di fatto contraddittori, in quanto essi coincidono, per un
verso, con una maggior quantità di merci prodotte e, per altro verso,
con una diminuzione del valore complessivo prodotto, derivante dal
minor impiego di forza-lavoro. In questo quadro generale, le imprese
che avranno innovato venderanno al medesimo prezzo una maggior quantità
di merci, avvantaggiandosi sulle imprese meno efficienti. Tuttavia, la
combinazione tra la relativa crescita del tasso di profitto degli
innovatori e il maggior calo del tasso di profitto del resto delle
imprese avrà come risultante complessiva una caduta del tasso medio di
profitto. Questa è una delle dinamiche che presiede all’esplosione
delle crisi. Alcune tra le imprese a più bassa redditività falliranno;
altre riusciranno ad adeguarsi alle nuove tecniche, aumentando
anch’esse la produttività aziendale e però, proprio per questo, acuendo
e generalizzando la contraddittorietà del processo. Si avrà in tal modo
un ulteriore calo dell’occupazione, un’ulteriore diminuzione del valore
prodotto e, quindi, del tasso di profitto complessivo. Si spiega così
l’apparentemente enigmatica affermazione di Marx: “Il tasso di profitto
non cade perché il lavoro diviene meno produttivo, ma perché diventa
più produttivo”.
Sin qui non abbiamo fatto altro che passare velocemente in rassegna
alcune delle modalità in cui si manifesta l’intima contraddittorietà
del processo di accumulazione capitalistica. Se non si muove da tale
problematica non si può capire - neanche oggi - cosa sia
l’imperialismo, poiché il principale metodo con cui il mondo
capitalistico avanzato prova a frenare la sopra esposta caduta di
profittabilità della sua economia è - accanto all’intensificazione
dello sfruttamento della sua manodopera - precisamente l’appropriazione
sistematica (e, se necessario, violenta) del valore prodotto
internazionalmente e delle risorse essenziali per produrlo. Questo è
l’imperialismo.
5) I presupposti speculativi dell’euforia consumistica Usa
Conosciamo le prevalenti forme in cui si è prodotta ed oggi continua a
prodursi la rapina imperialista ai danni delle periferie del mondo:
investimenti esteri, diretti o indiretti, a condizioni vantaggiose per
il capitale investito e con relativo rimpatrio più o meno esentasse dei
profitti; capestro del debito estero; condizioni ineguali negli scambi
commerciali; varie modalità di signoraggio della moneta egemonica.
Soffermarsi sull’ultima di queste forme, considerata in connessione con
la tenuta complessiva del sistema economico, consente di rilevare in
particolare le fragilità strutturali dell’economia statunitense e di
far luce su alcune linee di tensione che attualmente attraversano il
sistema suddetto.
Tutti gli analisti economici concordano nel ritenere che gli
investimenti in Cina e i consumi negli Usa siano attualmente i due
motori dell’economia mondiale. La locomotiva cinese ha decisamente
contribuito ad incrementare il tasso di crescita complessivo
viaggiando, secondo i dati forniti dalla Banca dei Regolamenti
Internazionali, negli ultimi dieci anni alla media del 9,7% di prodotto
interno lordo. Sono però i consumi statunitensi a destare oggi più di
una preoccupazione. Vediamo perché. L’euforia consumistica, già nella
seconda metà degli anni ’90, attirava negli Stati Uniti la metà
dell’incremento di export mondiale. Ma anche adesso - con le ferite
della fase recessiva non ancora rimarginate - il risparmio privato Usa
continua a declinare e, per converso, resta molto forte la propensione
a spendere. Il 50% degli americani possiede azioni, ma è il 20% dei
pacchetti azionari più ricchi a spingere i consumi: in particolare
quelli opulenti (indirizzati verso i fuoristrada giapponesi e tedeschi,
i gadget elettronici asiatici, i grandi marchi italiani come Ferrari o
Bulgari). Ovviamente, tale spensierata disposizione non riguarda i due
milioni di disoccupati che la presidenza Bush ha prodotto, né i 45
milioni di cittadini statunitensi sprovvisti di copertura sanitaria
(cui vanno aggiunti altri 75 milioni che, a causa della flessibilità
lavorativa, restano scoperti per periodi che vanno dai 6 ai 24 mesi).
Né potrà essere significativa la compartecipazione ai consumi di lusso
assicurata dalla maggioranza dei futuri pensionati, certo non
beneficiati dall’annunciata privatizzazione completa del sistema
previdenziale. Ma tali sperequazioni non turbano le cifre della
statistica economica: quel che conta, nel nostro caso, è che il minor
consumo dei meno abbienti sia più che compensato dall’euforia dei
ricchi. Cosa del tutto plausibile, se pensiamo che tra il 1970 e il
2000 il reddito dello 0,01 di cittadini Usa (due o tre decine di
migliaia di persone in tutto) è passato da 70 a 300 volte il reddito
medio. Da parte sua, George W. Bush, se non cessa di comprimere le
spese sociali, ha tuttavia generosamente agevolato le spese private e i
consumi dei cittadini americani “più fortunati”: la sua riforma fiscale
ha comportato una spesa aggiuntiva di 350 miliardi di dollari, finiti
nelle tasche del 35% della popolazione americana (con ogni evidenza, è
lui il “cattivo maestro” di Berlusconi). L’esecutivo Usa ha operato in
perfetta sintonia con l’autorità monetaria: dal maggio 2000 in poi, la
Federal Reserve ha infatti ribassato per ben 13 volte consecutive i
tassi di interesse, portandoli al livello più basso degli ultimi 45
anni (1%, la metà di quelli europei). Il costo stracciato del denaro,
con la conseguente incentivazione dei prestiti al consumo, e le
iniezioni di liquidità assicurate dai massicci sgravi fiscali decisi
dal governo hanno tenuto alti gli acquisti di beni durevoli e
continuato a finanziare nuovi mutui immobiliari.
L’alto livello dei consumi interni ha sostenuto l’export degli altri
paesi ma, ovviamente, ha anche fatto lievitare le importazioni Usa, a
cominciare da quelle di petrolio. Come sottolineato da Marcello De
Cecco (cfr. Affari & Finanza del 7-6-2004), il petrolio è la linfa
vitale dell’economia americana, rappresentando il 40% dell’energia
consumata e il 99% di quella usata nei trasporti. Gli Stati Uniti sono
di gran lunga il primo importatore mondiale di petrolio (il Giappone
segue a distanza, con la metà della richiesta Usa) e di benzina
raffinata (50% dell’import mondiale complessivo). Con l’offerta interna
al massimo delle sue possibilità, la domanda di benzina per
autotrazione ha continuato a crescere alimentando l’importazione: cosa
del tutto comprensibile per un paese in cui le vendite di fuoristrada,
benevolmente esentate dalle tasse sui consumi (prezzo di listino dai 40
mila dollari in su, cilindrata media di 5000 cc, almeno 8 cilindri e
500 Cv, 3 km per ogni litro di benzina) hanno superato nel 2003 quelle
delle tradizionali berline, conquistando il 53% del mercato interno.
Così, gli Usa non cessano di succhiare petrolio, il cui prezzo continua
ad aumentare (in sei anni, da 10 a 50 dollari al barile): e a pesare
ovviamente sui conti con l’estero degli Usa.
6) Elementi di fragilità nell’economia Usa
E’ una tale imponente spesa per consumi individuali - oltre che
l’aumento delle commesse industriali per la difesa (e l’impegno
bellico) - ad aver fatto ritrovare agli addetti ai lavori, verso la
fine del 2003, il loro perduto ottimismo, consentendo loro di salutare
entusiasticamente la fine della recessione e l’avvento della “ripresa
Usa”. In verità tale ripresa si è rivelata meno consistente del
previsto, con gli investimenti ancora fermi al palo, l’utilizzo degli
impianti ancorato al 70% della loro capacità e senza un vero rilancio
dell’occupazione (quella buona, non precaria).
Ma il problema principale è che il suddetto dispendioso tenore di vita
non corrisponde ad una crescita reale dell’economia Usa ed è stato
fondamentalmente alimentato dall’aumento dell’indebitamento complessivo
del sistema (delle famiglie, delle imprese, dello stato). Vengono da
qui i famigerati “deficit gemelli” Usa: un deficit pubblico che ha
ormai raggiunto i 500 miliardi di dollari e un disavanzo commerciale
nei confronti del resto del mondo che ha ampiamente superato anche tale
astronomica cifra. Due deficit che, secondo una stima del Financial
Times, fanno in totale il 9,3% del Pil. In particolare, l’abnorme
debito estero Usa - una costante nella storia dell’economia americana
degli ultimi decenni (4) - sembra oggi aver mollato tutti gli ormeggi:
4,5 alla fine del 2003; 5,1 nel primo trimestre del 2004; 5,7 nel
secondo trimestre. Di questo passo si arriverebbe al 10% nel 2010. Un
tale disavanzo con l’estero ha potuto sinora essere tollerato, perché
compensato dal copioso afflusso di capitali dall’estero di cui gli
Stati Uniti hanno beneficiato: un’immissione di ricchezza nell’economia
a stelle e strisce che ha sostenuto i corsi azionari di Wall Street, ha
finanziato il debito pubblico federale, ha mantenuto sui circuiti
finanziari e valutari il signoraggio del dollaro, riconosciuto come
valuta internazionale di riferimento. In altre parole, è il resto del
mondo che consente agli Usa - e soprattutto ai ceti privilegiati di
questo paese - di continuare a vivere al di sopra delle loro
possibilità proseguendo la loro corsa al consumo.
Tuttavia, anche qui arrivano le cattive notizie. L’economia americana
non è più attraente come prima: i titoli azionari non sono più quelli
della seconda metà degli anni ’90 e la politica dei bassi tassi di
interesse tenacemente praticata dalla Federal Reserve non costituisce
certo un’attrattiva per i capitali di prestito. Il flusso di capitali
esteri in entrata tende dunque a ridursi minacciando di lasciare il
deficit commerciale in tutta la sua devastante solitudine. Ma
soprattutto il dollaro ha iniziato il suo inarrestabile deprezzamento:
nel solo 2003 aveva già perso il 30% del suo valore rispetto all’euro.
E continua a svalutarsi, bruciando un minimo storico dopo l’altro. Gli
operatori sembrano essersi passati la parola: non fidarsi dell’economia
americana che non tira più come prima e che sta sprofondando sotto il
peso dei “deficit gemelli”. Quindi, vendere dollari. In realtà, c’è
dell’altro in tale deriva nel cambio della moneta statunitense: il
fatto è che l’establishment Usa dà mostra di assecondare tale corso, in
quanto ritiene che un dollaro sempre più debole serva a deprezzare lo
stesso disavanzo (un meccanismo ben noto ai nostri ex-governanti
democristiani) e, contemporaneamente, possa essere il traino ideale
per le esportazioni statunitensi (oltre che un’argine per le
importazioni dall’Europa). E’ quindi più che comprensibile che i
mercati, sulla base di tale autorevole input, scommettano sul dollaro
debole: si è sicuri che il dollaro continuerà a calare e che, per
contro, euro e yen continueranno a salire; quindi tutti vendono dollari
e comprano euro e yen. In tale spirale verso il basso, il dollaro perde
di valore per il semplice motivo che tutti lo vendono e nessuno lo
compra.
7) Il rischio dollaro e la precarietà degli equilibri economici globali
Le autorità americane stanno dunque scommettendo su una svalutazione
dolce, graduale della loro moneta e non sono disposte a dar retta ai
lamenti provenienti dall’altra parte dell’oceano Atlantico. Rispetto
alla svalutazione del dollaro e alla conseguente rivalutazione
dell’euro, gli interessi degli esportatori europei sono infatti
specularmente opposti a quelli dei loro colleghi americani. Le economie
dei principali paesi europei (in particolare della Germania) dipendono
in grande misura dalle esportazioni: in presenza di una debole domanda
interna, che ovviamente il Patto di stabilità non contribuisce a
rivitalizzare, un’alta percentuale del totale della produzione europea
va all’export. Il caro-euro - a fronte della debolezza del dollaro -
dipende anche da questa non secondaria circostanza: e,
conseguentemente, c’è chi ritiene ingiustificate le proteste degli
europei, i quali farebbero bene a incentivare la domanda interna e a
cercare di ridare fiato ad un’economia così dipendente dalle
esportazioni, cioè dalla crescita altrui (cfr. L. Spaventa, “Bush,
l’Europa e la cura del dollaro”, La Repubblica del 9-11-2004). Anche
in Italia salgono le preoccupazioni per il nostro sistema moda, per la
nostra industria meccanica, per l’industria di prodotti per la casa e
la persona, comparti indicati come particolarmente vessati dal
super-euro. Basta aprire a caso il Sole 24 Ore per rendersene conto:
se, col cambio euro/dollaro in parità, è stato concordato col partner
Usa un prezzo di listino di 10 dollari per ogni paio di pantofole
esportate e poi il dollaro scivola ad un cambio di 1,30 con l’euro,
l’esportatore made in Italy convertirà i dollari incassati in euro, ma
per un corrispettivo di 7,69 dollari a paio invece che di 10 (con una
perdita secca del 23%) (cfr. “Doppio impatto sulle imprese italiane”,
Il Sole 24 Ore del 9-11-2004). Non è qui il caso di indugiare sulle
lacrime dei nostri imprenditori e sulla legittimità delle loro
lamentazioni: i guai del nostro sistema industriale non pare derivino
tutti e prevalentemente dal caro-euro.
Sta di fatto che la situazione ora descritta determina un altissimo
grado di incertezza e rissosità nel contesto dei rapporti
internazionali intercapitalistici.
Va inoltre sottolineato che la stessa strategia delle autorità
americane è esposta a due gravi rischi. In primo luogo, mentre è certo
che la svalutazione del dollaro fa fuggire i capitali dalle attività
espresse in dollari e dunque dall’insieme dell’economia statunitense,
non è detto che da questa medesima svalutazione possano trarre grandi
benefici le esportazioni Usa. Infatti potrebbe risultare più redditizio
per gli imprenditori statunitensi produrre in paesi a valuta forte e
poi rimpatriare i profitti, così da guadagnare sul cambio favorevole;
ma soprattutto le multinazionali Usa, che mantengono all’estero una
grossa fetta dell’apparato produttivo, sottraggono una quota
consistente all’export degli Usa e, al contrario, ne incrementano
l’import (il 60% dell’export cinese proviene da multinazionali
straniere che operano in Cina, molte delle quali americane). Se così
fosse, resterebbero tutti i danni della svalutazione e ne
risulterebbero largamente vanificati i benefici. Tuttavia, il secondo
rischio è quello più pesante. E’ evidente che la caduta del valore del
dollaro penalizza chi possiede dollari o attività espresse in dollari.
Ora, il valore complessivo degli scambi internazionali di petrolio si
aggira attorno ai 450 miliardi di dollari all’anno ed è noto che tali
transazioni avvengono effettivamente con la valuta statunitense quale
mezzo di pagamento: non vi è dubbio che, con il dollaro in caduta
libera, un divorzio da tale valuta potrebbe ridurre il rischio
valutario per i produttori. Non è dunque un caso se, secondo una stima
approssimativa, le riserve ufficiali della banca centrale russa abbiano
rimpolpato del 30% la loro dotazione in euro e se si fanno sempre più
esplicite le intenzioni russo-europee di fissare in euro il valore
delle ingenti importazioni di petrolio russo. Né può stupire che la
Banca dei Regolamenti Internazionali segnali l’incipiente tendenza dei
paesi Opec a spostarsi dal dollaro all’euro. Entro certi limiti, le
autorità monetarie americane sono convinte di governare la tendenza al
ribasso della loro valuta. Ma i suddetti segnali di fibrillazione
lasciano intravedere un altro possibile scenario: una caduta
accelerata, che sfugga al controllo degli apprendisti stregoni e arrivi
a configurare quella che il premio Nobel Paul Samuelson ha recentemente
definito una specie di “Hiroshima valutaria”, che polverizzerebbe le
attività in dollari e potrebbe preludere ad un nuovo 1929 (“Dollaro, il
rischio è grande”, Il Sole 24 Ore, 9-11-2004).
8) Le prospettive di lungo periodo
A questo punto, potrebbe ragionevolmente porsi il seguente
interrogativo: perché, nonostante tutto, il sistema globale scricchiola
ma per ora tiene? La risposta è che, in generale, nel mondo si ritiene
che le importazioni Usa siano ancora (insieme alla Cina) la locomotiva
mondiale e che, tutto sommato, sono in molti a detenere ancora i loro
risparmi in dollari. Ma, più nel dettaglio, occorre dire che è l’area
asiatica - Cina e Giappone in testa - ad evitare per ora agli Stati
Uniti guai peggiori. Nel loro insieme, queste realtà - pure assai
diverse quanto a sistemi economici e politici - generano da sole con le
loro esportazioni il 50% del deficit commerciale Usa; ma
contemporaneamente sono ad oggi i più formidabili acquirenti di buoni
del tesoro statunitensi. Se abbandonassero anche loro la nave, questa
colerebbe a picco. Per un paese come il Giappone, tradizionale alleato
degli Usa dal dopoguerra in poi, un tale soccorso non fa problema. Ma
anche la Cina ha in esso il suo immediato tornaconto: una simile spada
di Damocle equivale infatti ad un potente strumento di dissuasione, per
evitare che gli stessi Stati Uniti alzino più di tanto la voce,
premendo per una rivalutazione dello yuan (di certo penalizzante per
l’export cinese), o cedano alla tentazione di erigere barriere
tariffarie per contrastare l’afflusso di merci cinesi sul loro mercato
interno. Tutto ciò serve a procrastinare lo statu quo, ma non
disinnesca il potenziale squilibrio ad esso intrinseco: tanto più che
la Cina, pur tra non lievi difficoltà, è tuttavia sospinta da una
crescita impetuosa (che corrisponde ad un’espansione della sua economia
reale) ed è impegnata ad operare sui tempi lunghi; laddove il tempo non
sembra affatto giocare a favore degli Usa e della loro economia, ancora
oggi consistente ma sempre più drogata e insidiata da nuovi concorrenti.
“Difenderò il nostro stile di vita ad ogni costo” ha dichiarato George
W. Bush nel corso della recente campagna presidenziale. Non vi è dubbio
che, accanto alle pulsioni ideologiche reazionarie, un tale proclama in
nome dell’american way of life abbia toccato corde profonde,
contribuendo a convincere molti circa l’opportunità di una sua
rielezione. Ma egli non potrà a lungo aggirare i nodi strutturali che
comprimono l’economia Usa. E dovrà prima o poi decidere - come sono
portati a ritenere i più accreditati osservatori delle vicende
americane - se stringere i cordoni della borsa: con evidenti riflessi
sulle condizioni sociali di una grande parte del suo paese. In ogni
caso, potendo contare sul più potente apparato bellico mai visto sulla
scena della storia, difficilmente sarà disposto ad allentare la morsa
del dominio geopolitico e militare. Rimane da vedere se il mondo sia
disponibile a restare appeso a tale prospettiva. Ma qui la parola
spetta di diritto ai “dannati della terra” e alla resistenza
antimperialista.
NOTE
1. I dati sopra riportati sono contenuti in: V. Giacchè, Imperialismo e
capitale finanziario, in “l’ernesto”, n°3 maggio/giugno 2004, p.75 sgg.
2. Cfr. ad esempio L. Tronti, Slowdown e aggiustamento, in “Rivista di
economia politica”, marzo 1987.
3. G. Carchedi, Il valore e l’imperialismo: sono ancora attuali per
un’analisi del capitalismo contemporaneo?, in AA.VV., Il piano
inclinato del capitale, Milano 2003, pp.57-65.
4. Su tale questione e sull’importanza del dominio delle fonti di
risorse energetiche da parte degli Usa, cfr. ad esempio J. Halevi,
L’imperialismo del petrolio, in “La rivista del manifesto”, settembre
2003, pp.31-34.
STRUTTURALI DELL’IMPERIALISMO
di Bruno Steri
(articolo apparso sul penultimo numero della rivista L'Ernesto - 5/2004
- http://www.lernesto.it/ )
1) Imperialismo e politiche imperialiste
Quando, nella contesa delle idee e dei congressi di partito, insistiamo
pervicacemente a valorizzare la portata conoscitiva e politica di una
categoria come quella di imperialismo, non lo facciamo per un desiderio
smodato di custodire reliquie ma perché siamo convinti che tale
categoria serva - oggi più che mai - ad illuminare un tratto profondo
del funzionamento (o per meglio dire: delle disfunzioni) del modo di
produzione di merci in cui siamo immersi, che essa contribuisca ad
individuare un movente essenziale che preme sull’odierno sistema di
rapporti internazionali e che determina i conflitti in esso insorgenti.
E’ bene precisare che tale nozione non descrive semplicemente una
determinata politica di potenza, l’uso della forza con l’imposizione
manu militari del dominio di un paese su di un altro: questo è
certamente l’effetto più visibile e dirompente. Tuttavia imperialismo
non esaurisce il suo significato nel riferimento ad una politica
imperialista, ma (come già Lenin faceva polemicamente notare a Karl
Kautsky) rinvia altresì all’insieme delle condizioni strutturali da cui
quella politica scaturisce. L’aggressività bellica e la sopraffazione
indotta dai rapporti di forza vigenti nel contesto globale emanano cioè
dai dispositivi che presiedono all’attuale sistema di produzione della
ricchezza, nonché dal loro incepparsi. In sintesi: la volontà di
potenza si dispiega dal seno del contraddittorio processo di
accumulazione capitalistico e sulla scia della violenza che esso
produce. Ciò significa che, per comprendere ad esempio le ragioni di
fondo della “guerra preventiva e permanente”, teorizzata ed oggi
cinicamente praticata dagli Stati Uniti, è certamente pertinente ma
non sufficiente indicare l’armamentario particolarmente reazionario
dell’establishment “neoconservatore”, che legittima tale strategia sul
piano ideologico ed offre un’autogiustificazione etica all’azione
genocida: occorre insieme indagare, accanto alle sue potenti risorse,
l’intrinseca contraddittorietà dello sviluppo capitalistico e la
precarietà degli assetti socio-economici, oltre che politici, nel mondo
cui esso mette capo.
Cercherò qui di seguito di supportare con qualche elemento di
concretezza le suddette affermazioni. Ma aggiungo sin d’ora che, a mio
giudizio, quanti - sia da destra che dalla cosiddetta estrema sinistra
- ritengono questo approccio viziato di “economicismo” esprimono di
fatto una posizione che, su punti di sostanza, si pone fuori
dall’impianto analitico marxiano. Cosa lecita, ovviamente (seppure da
me nient’affatto condivisa): purchè la si ponga con chiarezza agli atti
della discussione, senza imbrogliar le carte e chiamando le cose con il
loro nome.
2) I connotati strutturali dell’ imperialismo
Alcuni dei fenomeni economici a cui Lenin, nei primi decenni del secolo
scorso, ascriveva il costituirsi dello “stadio imperialistico” hanno
acquisito una consistenza mai registrata prima d’ora. In primo luogo,
le aziende monopolistiche mantengono ed anzi consolidano la loro
funzione di direzione dell’economia. Abbiamo assistito in quest’ultimo
quindicennio a poderosi processi di concentrazione del capitale, che si
realizzano oltrepassando i confini nazionali: annotava recentemente su
questa rivista Vladimiro Giacchè che dal 1990 al 1998 il valore delle
fusioni industriali nell’Occidente capitalistico è quintuplicato,
passando da 500 a 2500 miliardi di dollari; nel 2000, tale valore è
raddoppiato raggiungendo i 5000 miliardi di dollari. Dopo la crisi che
ha segnato l’inizio di questo secolo, aperta dall’implosione della
bolla speculativa e il crollo dei titoli di Wall Street del marzo 2001,
il processo di concentrazione è ripreso vigorosamente. Non si tratta di
una connotazione estrinseca del sistema capitalistico, ma di una sua
caratteristica incomprimibile. Come Marx aveva previsto analizzando le
tendenze fondamentali di questo modo di produzione, continua ad
aumentare “il volume minimo di capitale necessario al capitalista
individuale per la messa in opera produttiva del lavoro” e, dunque,
indispensabile perché questo lavoro sia redditizio (ovvero perché
produca plusvalore): per dirla con l’attuale linguaggio degli
economisti, c’è un vertiginoso incremento dell’entità di capitale
iniziale da impiegare per superare le “barriere in entrata” e per
conseguire nel ciclo produttivo le necessarie “economie di scala”.
Com’è noto, molte delle difficoltà del “sistema Italia” stanno proprio
qui, collegate come sono ad un congenito “nanismo industriale”.
La suddetta evoluzione delle dimensioni dell’investimento produttivo
rende conto della necessità delle imprese di ricorrere al mercato dei
capitali per ovviare alla limitatezza delle loro disponibilità
finanziarie. E’ questa un’altra delle caratteristiche essenziali a suo
tempo sottolineata da Lenin: la preminenza del capitale finanziario,
l’importanza assunta nel sistema economico dalle banche e dalla
finanza. Come è stato ancora notato, non è dunque un caso che - ad
esempio - le principali imprese tedesche siano oggi di proprietà di
società assicuratrici e che la Allianz Assicurazioni entri nel capitale
di ben 29 gruppi industriali (tra cui Basf, Siemens, Bayer). Alla fine
del 2001, nelle mani delle prime dieci società finanziarie tedesche
c’era un pacchetto di proprietà del valore di 170 miliardi di dollari
(1). La cosiddetta finanziarizzazione fa lievitare appunto le
transazioni finanziarie, che superano oggi in volume quelle
commerciali, alimentando il tasso speculativo del sistema economico: la
libera circolazione del capitale non si lascia orientare da un’etica
dell’investimento produttivo (produttivo, si intende, di valori d’uso)
e gli enormi flussi finanziari si dirigono dove più alta è la
redditività (foss’anche speculativa). D’altra parte, tale logica
sovrintende allo stesso sviluppo del settore dei servizi rispetto a
quello del tradizionale comparto manifatturiero: come dimostrano le
acquisizioni azionarie di Telecom da parte dei grandi gruppi
industriali italiani, il capitale di rischio - venendo meno ai compiti
eroici che ad esso la letteratura apologetica suole affidare - è pronto
all’occorrenza a rifugiarsi in settori più protetti, trasformandosi di
buon grado in mero “percettore di tariffe”. E se necessario, se non
trova in patria adeguata collocazione, viaggia all’estero verso altri
lidi. E siamo così al terzo essenziale connotato della fase
imperialistica, così com’è confermato dai dati odierni: l’esportazione
di capitale sopravanza l’esportazione di merci.
3) Contraddittorietà del processo di accumulazione capitalistico e
imperialismo
Queste rapide osservazioni servono a mostrare come l’uso della nozione
di imperialismo implichi in quanto tale un riferimento al cuore
dell’impianto marxiano di analisi del modo di produzione capitalistico.
La fase dell’imperialismo, se per un verso evidenzia alcune specifiche
caratteristiche e conferisce sistemazione teorica a fatti salienti
storicamente determinati, per altro verso è essa stessa espressione di
quell’essenziale vocazione all’autoespansione che è tipica del capitale
e del ciclo produttivo che esso è chiamato a inaugurare. Questo
poderoso sistema di messa al lavoro, di organizzazione produttiva della
forza-lavoro, riproduce le proprie condizioni di esistenza su una scala
progressivamente allargata ed è in grado di perpetuare tale processo di
allargamento delle basi produttive nella misura in cui consegue ad ogni
ciclo produttivo un incremento di valore rispetto al valore del
capitale anticipato. In tale spasmodica ricerca di plusvalore consiste
precisamente il movente essenziale e, insieme, la conditio sine qua non
della produzione capitalistica. L’attuale diffusione planetaria del
lavoro salariato – con l’esplosione del fenomeno delle delocalizzazioni
di aziende e rami d’azienda labour intensive, alla ricerca del più
basso costo del lavoro - sta lì a dimostrare (con buona pace delle
pseudoteorie sulla “fine del lavoro”) che il motore della produzione di
valore va ancora reperito nel rapporto tra capitale e lavoro, in
relazione alle condizioni di sfruttamento che tale rapporto instaura.
Tuttavia non è questa l’unica contraddizione - anche se è certamente la
principale - cui la creazione capitalistica di ricchezza va incontro.
Il capitale produce in misura delle forze produttive impiegate, senza
riguardo ai limiti del mercato o ai bisogni solvibili dei consumatori.
E il valore creato, che è direttamente proporzionale al tempo di lavoro
socialmente necessario per produrre le merci, è però indirettamente
proporzionale al tempo di circolazione delle merci medesime: da ciò
discende l’assoluta necessità di ridurre quest’ultimo (attraverso
miglioramenti nell’organizzazione dei trasporti e della struttura
commerciale nonché attraverso lo strumento del credito). Troviamo qui -
nella separazione tra sfera della produzione e sfera della circolazione
– una seconda importante fonte di squilibrio. Se rallenta o addirittura
si inceppa la conversione in denaro sonante dello stock di prodotto
finito, si interrompe il processo d’accumulazione del capitale, il
capitale merce non si ritrasforma in capitale monetario pronto per
avviare un nuovo ciclo produttivo, le merci languono ammassate e
invendute. E’ questo lo schema semplificato della crisi di
sovraproduzione. Essa non deriva tanto da un limite nel consumo, da una
sorta di naturale limitazione dei bisogni di chi è chiamato ad
acquistare merci; quanto piuttosto dall’eccesso di capitale,
dall’accumulo della massa di valore destinata a generare plusvalore,
rispetto alle dimensioni della domanda solvibile. Il carattere
tendenzialmente anarchico della produzione capitalistica si concretizza
nella concorrenza tra produttori su scala mondiale (che la formazione
di cartelli nazionali e sovranazionali non riesce a sopprimere),
nell’ineguale sviluppo delle forze produttive nelle diverse aree del
mondo, nell’incombere di una sempre possibile sfasatura tra l’offerta
di merci e le disponibilità del mercato: tutto ciò esemplifica la
contraddizione tra l’illimitata capacità di espansione delle forze
produttive e la limitata possibilità di valorizzazione del capitale. Lo
scompenso assume appunto le sembianze di un’eccedenza di capitale che
non riesce a trovare la via della sua valorizzazione.
A questo proposito, va ricordato che le rilevazioni statistiche
concordano nell’indicare la metà degli anni ’70 come l’inizio di un
persistente e generalizzato rallentamento (slowdown) dell’economia
capitalistica nel suo complesso: un lento ma costante declino di
investimenti, produttività, profitti e occupazione. La pluridecennale
tendenza negativa dell’indicatore produttività ha costituito il segnale
di una riduzione (o sottoutilizzazione) delle capacità produttive, a
sua volta espressione della diminuzione delle possibilità di
investimento redditizio, della saturazione dei mercati, della debolezza
della domanda effettiva, degli aumenti dei prezzi energetici
(soprattutto nelle fasi calde delle crisi petrolifere). Gli anni ’90
hanno apportato a questo quadro due novità: al di fuori dei confini
dell’Occidente, lo sviluppo impetuoso della Cina; dal seno del potere
occidentale, la guerra (imperialista) come strumento privilegiato per
il ripristino di più favorevoli condizioni di sfruttamento ed
estrazione del plusvalore. Tuttavia, nonostante i suoi potenti mezzi
(pacifici e non), lo sviluppo capitalistico è a tutt’oggi ben lungi
dall’aver dissolto le sue contraddizioni: almeno a giudicare dalle
pessimistiche previsioni sul futuro dell’economia Usa effettuate dalla
maggioranza degli addetti ai lavori. E alla base delle difficoltà
troviamo ancora il problema dell’eccesso di capacità inutilizzata. Di
ciò è convinta ad esempio Susan Kalla, analista di punta di Wall
Street, in relazione ad uno dei settori produttivi nevralgici: “Quello
delle telecomunicazioni è, fra tutti i comparti dell’hi-tech, quello
che ancora subisce i contraccolpi delle eccessive aspettative degli
anni ’90. Allora furono intrapresi investimenti colossali, sembrava che
ogni abitante del pianeta dovesse passare tutta la sua vita al telefono
e su più linee contemporaneamente. La sovracapacità in termini di linee
installate, le compagnie la stanno scontando ancora oggi” (Poca fiducia
nell’economia Usa, Affari & Finanza 15-11-2004). E la stanno scontando
anche i lavoratori in termini di licenziamenti (per nulla riassorbiti
dalle cosiddette “ripresine”). Ma su tale incertezza di prospettive
torneremo tra poco.
4) L’uso della tecnologia come ulteriore fattore di crisi
E’ utile ora richiamare un ulteriore potentissimo fattore di crisi, già
individuato e ben descritto da Marx. Una modalità per incrementare la
quota di plusvalore prodotto è connessa all’aumento della forza
produttiva attraverso l’uso delle macchine: aumentare la produttività
del lavoro significa diminuire la quantità di lavoro richiesta per
produrre una merce o - detto in termini equivalenti - abbassare il
tempo di lavoro socialmente necessario per tale produzione. In regime
capitalistico, il guadagno derivante dal suddetto progresso tecnologico
non va alla collettività, ma al profitto del capitalista individuale:
il quale, “risparmiando” operai, riduce il lavoro che nel ciclo
produttivo è necessario per costituire il valore delle retribuzioni da
erogare ai lavoratori, a tutto vantaggio della quota di valore prodotta
e non pagata, da lui acquisita appunto come plusvalore. Ma quel che gli
apologeti e tutti i cantori del “mito tecnologico” - di destra e di
sinistra - non hanno compreso è che tale uso della tecnologia,
nell’ambito del modo di produzione capitalistico, è condizionato da
limiti ben precisi. L’obiettivo di tale uso non è il mero aumento,
fisicamente inteso, della massa di merci nell’unità di tempo, bensì
l’incremento di valore (e di plusvalore) che attraverso tale aumento
deve realizzarsi. Detto in termini marxiani, la forza produttiva (di
valore e plusvalore) non varia se il macchinario viene a costare tanto
lavoro quanto il suo uso ne risparmia: in questo caso, per il
capitalista non vi sarebbe alcun guadagno. Il limite nell’uso delle
macchine è dato cioè dal fatto che il loro impiego deve essere
redditizio: ed esso è redditizio solo se l’aumento di lavoro richiesto
per produrre il nuovo macchinario risulta minore della diminuzione di
lavoro determinata dal suo uso. Tali basilari considerazioni
contribuiscono a spiegare il fenomeno apparentemente paradossale,
verificatosi in questi ultimi due decenni, di rallentamenti della
produttività totale e rendimenti decrescenti contestualmente
all’introduzione di nuove tecnologie (in particolare della tecnologia
informatica). L’aumento di “intensità tecnologica” dei processi
produttivi è collegato, oltre che all’incremento smisurato dei loro
costi, all’accorciamento della vita media dei macchinari e, dunque,
all’accelerazione dei ritmi di rinnovo degli stessi. Di qui, la
sequenza dei fenomeni indesiderati: l’accelerazione del progresso
tecnico può dare luogo a un’accelerazione dei rinnovi di capitale a
elevato contenuto tecnologico e a un consistente aumento del peso di
questi rinnovi sul totale degli investimenti, con un’incidenza negativa
sulla produttività del sistema (2). Il crollo dei titoli tecnologici
verificatosi a Wall Street nel marzo del 2001 è dipeso tra l’altro dal
rallentamento degli ordinativi di tecnologia informatica da parte delle
imprese (oltre che ovviamente dalla saturazione del mercato dei
consumatori individuali).
Quanto abbiamo detto sul problema dell’aumento della forza produttiva
del capitale è importante, ma non esaurisce ancora tutta la storia.
Resta da sottolineare un punto essenziale, concernente la connessione
tra questo stesso aumento della forza produttiva e la caduta
tendenziale del saggio di profitto che esso fatalmente porta con sé.
Tale aspetto delle crisi capitalistiche è stato anche recentemente
ritematizzato in un interessante saggio di Guglielmo Carchedi (3).
L’introduzione di nuova tecnologia nel ciclo produttivo, con il
relativo “risparmio” di lavoratori, comporta che nella maggior massa di
merci prodotte la quota di valore trasferita dai rinnovati mezzi di
produzione cresca rispetto a quella ottenuta dall’erogazione di
forza-lavoro. Ma sappiamo che nell’impianto marxiano il valore creato
ex novo non proviene dall’uso del macchinario (che si limita a
trasferire nella merce prodotta il valore in esso già contenuto), ma
scaturisce unicamente dal fatto che il lavoro vivo (l’insieme degli
operai impiegati nel processo produttivo) produce un valore
supplementare (il plusvalore appunto) oltre a quello che va a
ricostituire il suo prezzo di mercato (il suo salario). Da ciò deriva
che gli effetti dell’innovazione tecnologica applicata alla produzione
risultino di fatto contraddittori, in quanto essi coincidono, per un
verso, con una maggior quantità di merci prodotte e, per altro verso,
con una diminuzione del valore complessivo prodotto, derivante dal
minor impiego di forza-lavoro. In questo quadro generale, le imprese
che avranno innovato venderanno al medesimo prezzo una maggior quantità
di merci, avvantaggiandosi sulle imprese meno efficienti. Tuttavia, la
combinazione tra la relativa crescita del tasso di profitto degli
innovatori e il maggior calo del tasso di profitto del resto delle
imprese avrà come risultante complessiva una caduta del tasso medio di
profitto. Questa è una delle dinamiche che presiede all’esplosione
delle crisi. Alcune tra le imprese a più bassa redditività falliranno;
altre riusciranno ad adeguarsi alle nuove tecniche, aumentando
anch’esse la produttività aziendale e però, proprio per questo, acuendo
e generalizzando la contraddittorietà del processo. Si avrà in tal modo
un ulteriore calo dell’occupazione, un’ulteriore diminuzione del valore
prodotto e, quindi, del tasso di profitto complessivo. Si spiega così
l’apparentemente enigmatica affermazione di Marx: “Il tasso di profitto
non cade perché il lavoro diviene meno produttivo, ma perché diventa
più produttivo”.
Sin qui non abbiamo fatto altro che passare velocemente in rassegna
alcune delle modalità in cui si manifesta l’intima contraddittorietà
del processo di accumulazione capitalistica. Se non si muove da tale
problematica non si può capire - neanche oggi - cosa sia
l’imperialismo, poiché il principale metodo con cui il mondo
capitalistico avanzato prova a frenare la sopra esposta caduta di
profittabilità della sua economia è - accanto all’intensificazione
dello sfruttamento della sua manodopera - precisamente l’appropriazione
sistematica (e, se necessario, violenta) del valore prodotto
internazionalmente e delle risorse essenziali per produrlo. Questo è
l’imperialismo.
5) I presupposti speculativi dell’euforia consumistica Usa
Conosciamo le prevalenti forme in cui si è prodotta ed oggi continua a
prodursi la rapina imperialista ai danni delle periferie del mondo:
investimenti esteri, diretti o indiretti, a condizioni vantaggiose per
il capitale investito e con relativo rimpatrio più o meno esentasse dei
profitti; capestro del debito estero; condizioni ineguali negli scambi
commerciali; varie modalità di signoraggio della moneta egemonica.
Soffermarsi sull’ultima di queste forme, considerata in connessione con
la tenuta complessiva del sistema economico, consente di rilevare in
particolare le fragilità strutturali dell’economia statunitense e di
far luce su alcune linee di tensione che attualmente attraversano il
sistema suddetto.
Tutti gli analisti economici concordano nel ritenere che gli
investimenti in Cina e i consumi negli Usa siano attualmente i due
motori dell’economia mondiale. La locomotiva cinese ha decisamente
contribuito ad incrementare il tasso di crescita complessivo
viaggiando, secondo i dati forniti dalla Banca dei Regolamenti
Internazionali, negli ultimi dieci anni alla media del 9,7% di prodotto
interno lordo. Sono però i consumi statunitensi a destare oggi più di
una preoccupazione. Vediamo perché. L’euforia consumistica, già nella
seconda metà degli anni ’90, attirava negli Stati Uniti la metà
dell’incremento di export mondiale. Ma anche adesso - con le ferite
della fase recessiva non ancora rimarginate - il risparmio privato Usa
continua a declinare e, per converso, resta molto forte la propensione
a spendere. Il 50% degli americani possiede azioni, ma è il 20% dei
pacchetti azionari più ricchi a spingere i consumi: in particolare
quelli opulenti (indirizzati verso i fuoristrada giapponesi e tedeschi,
i gadget elettronici asiatici, i grandi marchi italiani come Ferrari o
Bulgari). Ovviamente, tale spensierata disposizione non riguarda i due
milioni di disoccupati che la presidenza Bush ha prodotto, né i 45
milioni di cittadini statunitensi sprovvisti di copertura sanitaria
(cui vanno aggiunti altri 75 milioni che, a causa della flessibilità
lavorativa, restano scoperti per periodi che vanno dai 6 ai 24 mesi).
Né potrà essere significativa la compartecipazione ai consumi di lusso
assicurata dalla maggioranza dei futuri pensionati, certo non
beneficiati dall’annunciata privatizzazione completa del sistema
previdenziale. Ma tali sperequazioni non turbano le cifre della
statistica economica: quel che conta, nel nostro caso, è che il minor
consumo dei meno abbienti sia più che compensato dall’euforia dei
ricchi. Cosa del tutto plausibile, se pensiamo che tra il 1970 e il
2000 il reddito dello 0,01 di cittadini Usa (due o tre decine di
migliaia di persone in tutto) è passato da 70 a 300 volte il reddito
medio. Da parte sua, George W. Bush, se non cessa di comprimere le
spese sociali, ha tuttavia generosamente agevolato le spese private e i
consumi dei cittadini americani “più fortunati”: la sua riforma fiscale
ha comportato una spesa aggiuntiva di 350 miliardi di dollari, finiti
nelle tasche del 35% della popolazione americana (con ogni evidenza, è
lui il “cattivo maestro” di Berlusconi). L’esecutivo Usa ha operato in
perfetta sintonia con l’autorità monetaria: dal maggio 2000 in poi, la
Federal Reserve ha infatti ribassato per ben 13 volte consecutive i
tassi di interesse, portandoli al livello più basso degli ultimi 45
anni (1%, la metà di quelli europei). Il costo stracciato del denaro,
con la conseguente incentivazione dei prestiti al consumo, e le
iniezioni di liquidità assicurate dai massicci sgravi fiscali decisi
dal governo hanno tenuto alti gli acquisti di beni durevoli e
continuato a finanziare nuovi mutui immobiliari.
L’alto livello dei consumi interni ha sostenuto l’export degli altri
paesi ma, ovviamente, ha anche fatto lievitare le importazioni Usa, a
cominciare da quelle di petrolio. Come sottolineato da Marcello De
Cecco (cfr. Affari & Finanza del 7-6-2004), il petrolio è la linfa
vitale dell’economia americana, rappresentando il 40% dell’energia
consumata e il 99% di quella usata nei trasporti. Gli Stati Uniti sono
di gran lunga il primo importatore mondiale di petrolio (il Giappone
segue a distanza, con la metà della richiesta Usa) e di benzina
raffinata (50% dell’import mondiale complessivo). Con l’offerta interna
al massimo delle sue possibilità, la domanda di benzina per
autotrazione ha continuato a crescere alimentando l’importazione: cosa
del tutto comprensibile per un paese in cui le vendite di fuoristrada,
benevolmente esentate dalle tasse sui consumi (prezzo di listino dai 40
mila dollari in su, cilindrata media di 5000 cc, almeno 8 cilindri e
500 Cv, 3 km per ogni litro di benzina) hanno superato nel 2003 quelle
delle tradizionali berline, conquistando il 53% del mercato interno.
Così, gli Usa non cessano di succhiare petrolio, il cui prezzo continua
ad aumentare (in sei anni, da 10 a 50 dollari al barile): e a pesare
ovviamente sui conti con l’estero degli Usa.
6) Elementi di fragilità nell’economia Usa
E’ una tale imponente spesa per consumi individuali - oltre che
l’aumento delle commesse industriali per la difesa (e l’impegno
bellico) - ad aver fatto ritrovare agli addetti ai lavori, verso la
fine del 2003, il loro perduto ottimismo, consentendo loro di salutare
entusiasticamente la fine della recessione e l’avvento della “ripresa
Usa”. In verità tale ripresa si è rivelata meno consistente del
previsto, con gli investimenti ancora fermi al palo, l’utilizzo degli
impianti ancorato al 70% della loro capacità e senza un vero rilancio
dell’occupazione (quella buona, non precaria).
Ma il problema principale è che il suddetto dispendioso tenore di vita
non corrisponde ad una crescita reale dell’economia Usa ed è stato
fondamentalmente alimentato dall’aumento dell’indebitamento complessivo
del sistema (delle famiglie, delle imprese, dello stato). Vengono da
qui i famigerati “deficit gemelli” Usa: un deficit pubblico che ha
ormai raggiunto i 500 miliardi di dollari e un disavanzo commerciale
nei confronti del resto del mondo che ha ampiamente superato anche tale
astronomica cifra. Due deficit che, secondo una stima del Financial
Times, fanno in totale il 9,3% del Pil. In particolare, l’abnorme
debito estero Usa - una costante nella storia dell’economia americana
degli ultimi decenni (4) - sembra oggi aver mollato tutti gli ormeggi:
4,5 alla fine del 2003; 5,1 nel primo trimestre del 2004; 5,7 nel
secondo trimestre. Di questo passo si arriverebbe al 10% nel 2010. Un
tale disavanzo con l’estero ha potuto sinora essere tollerato, perché
compensato dal copioso afflusso di capitali dall’estero di cui gli
Stati Uniti hanno beneficiato: un’immissione di ricchezza nell’economia
a stelle e strisce che ha sostenuto i corsi azionari di Wall Street, ha
finanziato il debito pubblico federale, ha mantenuto sui circuiti
finanziari e valutari il signoraggio del dollaro, riconosciuto come
valuta internazionale di riferimento. In altre parole, è il resto del
mondo che consente agli Usa - e soprattutto ai ceti privilegiati di
questo paese - di continuare a vivere al di sopra delle loro
possibilità proseguendo la loro corsa al consumo.
Tuttavia, anche qui arrivano le cattive notizie. L’economia americana
non è più attraente come prima: i titoli azionari non sono più quelli
della seconda metà degli anni ’90 e la politica dei bassi tassi di
interesse tenacemente praticata dalla Federal Reserve non costituisce
certo un’attrattiva per i capitali di prestito. Il flusso di capitali
esteri in entrata tende dunque a ridursi minacciando di lasciare il
deficit commerciale in tutta la sua devastante solitudine. Ma
soprattutto il dollaro ha iniziato il suo inarrestabile deprezzamento:
nel solo 2003 aveva già perso il 30% del suo valore rispetto all’euro.
E continua a svalutarsi, bruciando un minimo storico dopo l’altro. Gli
operatori sembrano essersi passati la parola: non fidarsi dell’economia
americana che non tira più come prima e che sta sprofondando sotto il
peso dei “deficit gemelli”. Quindi, vendere dollari. In realtà, c’è
dell’altro in tale deriva nel cambio della moneta statunitense: il
fatto è che l’establishment Usa dà mostra di assecondare tale corso, in
quanto ritiene che un dollaro sempre più debole serva a deprezzare lo
stesso disavanzo (un meccanismo ben noto ai nostri ex-governanti
democristiani) e, contemporaneamente, possa essere il traino ideale
per le esportazioni statunitensi (oltre che un’argine per le
importazioni dall’Europa). E’ quindi più che comprensibile che i
mercati, sulla base di tale autorevole input, scommettano sul dollaro
debole: si è sicuri che il dollaro continuerà a calare e che, per
contro, euro e yen continueranno a salire; quindi tutti vendono dollari
e comprano euro e yen. In tale spirale verso il basso, il dollaro perde
di valore per il semplice motivo che tutti lo vendono e nessuno lo
compra.
7) Il rischio dollaro e la precarietà degli equilibri economici globali
Le autorità americane stanno dunque scommettendo su una svalutazione
dolce, graduale della loro moneta e non sono disposte a dar retta ai
lamenti provenienti dall’altra parte dell’oceano Atlantico. Rispetto
alla svalutazione del dollaro e alla conseguente rivalutazione
dell’euro, gli interessi degli esportatori europei sono infatti
specularmente opposti a quelli dei loro colleghi americani. Le economie
dei principali paesi europei (in particolare della Germania) dipendono
in grande misura dalle esportazioni: in presenza di una debole domanda
interna, che ovviamente il Patto di stabilità non contribuisce a
rivitalizzare, un’alta percentuale del totale della produzione europea
va all’export. Il caro-euro - a fronte della debolezza del dollaro -
dipende anche da questa non secondaria circostanza: e,
conseguentemente, c’è chi ritiene ingiustificate le proteste degli
europei, i quali farebbero bene a incentivare la domanda interna e a
cercare di ridare fiato ad un’economia così dipendente dalle
esportazioni, cioè dalla crescita altrui (cfr. L. Spaventa, “Bush,
l’Europa e la cura del dollaro”, La Repubblica del 9-11-2004). Anche
in Italia salgono le preoccupazioni per il nostro sistema moda, per la
nostra industria meccanica, per l’industria di prodotti per la casa e
la persona, comparti indicati come particolarmente vessati dal
super-euro. Basta aprire a caso il Sole 24 Ore per rendersene conto:
se, col cambio euro/dollaro in parità, è stato concordato col partner
Usa un prezzo di listino di 10 dollari per ogni paio di pantofole
esportate e poi il dollaro scivola ad un cambio di 1,30 con l’euro,
l’esportatore made in Italy convertirà i dollari incassati in euro, ma
per un corrispettivo di 7,69 dollari a paio invece che di 10 (con una
perdita secca del 23%) (cfr. “Doppio impatto sulle imprese italiane”,
Il Sole 24 Ore del 9-11-2004). Non è qui il caso di indugiare sulle
lacrime dei nostri imprenditori e sulla legittimità delle loro
lamentazioni: i guai del nostro sistema industriale non pare derivino
tutti e prevalentemente dal caro-euro.
Sta di fatto che la situazione ora descritta determina un altissimo
grado di incertezza e rissosità nel contesto dei rapporti
internazionali intercapitalistici.
Va inoltre sottolineato che la stessa strategia delle autorità
americane è esposta a due gravi rischi. In primo luogo, mentre è certo
che la svalutazione del dollaro fa fuggire i capitali dalle attività
espresse in dollari e dunque dall’insieme dell’economia statunitense,
non è detto che da questa medesima svalutazione possano trarre grandi
benefici le esportazioni Usa. Infatti potrebbe risultare più redditizio
per gli imprenditori statunitensi produrre in paesi a valuta forte e
poi rimpatriare i profitti, così da guadagnare sul cambio favorevole;
ma soprattutto le multinazionali Usa, che mantengono all’estero una
grossa fetta dell’apparato produttivo, sottraggono una quota
consistente all’export degli Usa e, al contrario, ne incrementano
l’import (il 60% dell’export cinese proviene da multinazionali
straniere che operano in Cina, molte delle quali americane). Se così
fosse, resterebbero tutti i danni della svalutazione e ne
risulterebbero largamente vanificati i benefici. Tuttavia, il secondo
rischio è quello più pesante. E’ evidente che la caduta del valore del
dollaro penalizza chi possiede dollari o attività espresse in dollari.
Ora, il valore complessivo degli scambi internazionali di petrolio si
aggira attorno ai 450 miliardi di dollari all’anno ed è noto che tali
transazioni avvengono effettivamente con la valuta statunitense quale
mezzo di pagamento: non vi è dubbio che, con il dollaro in caduta
libera, un divorzio da tale valuta potrebbe ridurre il rischio
valutario per i produttori. Non è dunque un caso se, secondo una stima
approssimativa, le riserve ufficiali della banca centrale russa abbiano
rimpolpato del 30% la loro dotazione in euro e se si fanno sempre più
esplicite le intenzioni russo-europee di fissare in euro il valore
delle ingenti importazioni di petrolio russo. Né può stupire che la
Banca dei Regolamenti Internazionali segnali l’incipiente tendenza dei
paesi Opec a spostarsi dal dollaro all’euro. Entro certi limiti, le
autorità monetarie americane sono convinte di governare la tendenza al
ribasso della loro valuta. Ma i suddetti segnali di fibrillazione
lasciano intravedere un altro possibile scenario: una caduta
accelerata, che sfugga al controllo degli apprendisti stregoni e arrivi
a configurare quella che il premio Nobel Paul Samuelson ha recentemente
definito una specie di “Hiroshima valutaria”, che polverizzerebbe le
attività in dollari e potrebbe preludere ad un nuovo 1929 (“Dollaro, il
rischio è grande”, Il Sole 24 Ore, 9-11-2004).
8) Le prospettive di lungo periodo
A questo punto, potrebbe ragionevolmente porsi il seguente
interrogativo: perché, nonostante tutto, il sistema globale scricchiola
ma per ora tiene? La risposta è che, in generale, nel mondo si ritiene
che le importazioni Usa siano ancora (insieme alla Cina) la locomotiva
mondiale e che, tutto sommato, sono in molti a detenere ancora i loro
risparmi in dollari. Ma, più nel dettaglio, occorre dire che è l’area
asiatica - Cina e Giappone in testa - ad evitare per ora agli Stati
Uniti guai peggiori. Nel loro insieme, queste realtà - pure assai
diverse quanto a sistemi economici e politici - generano da sole con le
loro esportazioni il 50% del deficit commerciale Usa; ma
contemporaneamente sono ad oggi i più formidabili acquirenti di buoni
del tesoro statunitensi. Se abbandonassero anche loro la nave, questa
colerebbe a picco. Per un paese come il Giappone, tradizionale alleato
degli Usa dal dopoguerra in poi, un tale soccorso non fa problema. Ma
anche la Cina ha in esso il suo immediato tornaconto: una simile spada
di Damocle equivale infatti ad un potente strumento di dissuasione, per
evitare che gli stessi Stati Uniti alzino più di tanto la voce,
premendo per una rivalutazione dello yuan (di certo penalizzante per
l’export cinese), o cedano alla tentazione di erigere barriere
tariffarie per contrastare l’afflusso di merci cinesi sul loro mercato
interno. Tutto ciò serve a procrastinare lo statu quo, ma non
disinnesca il potenziale squilibrio ad esso intrinseco: tanto più che
la Cina, pur tra non lievi difficoltà, è tuttavia sospinta da una
crescita impetuosa (che corrisponde ad un’espansione della sua economia
reale) ed è impegnata ad operare sui tempi lunghi; laddove il tempo non
sembra affatto giocare a favore degli Usa e della loro economia, ancora
oggi consistente ma sempre più drogata e insidiata da nuovi concorrenti.
“Difenderò il nostro stile di vita ad ogni costo” ha dichiarato George
W. Bush nel corso della recente campagna presidenziale. Non vi è dubbio
che, accanto alle pulsioni ideologiche reazionarie, un tale proclama in
nome dell’american way of life abbia toccato corde profonde,
contribuendo a convincere molti circa l’opportunità di una sua
rielezione. Ma egli non potrà a lungo aggirare i nodi strutturali che
comprimono l’economia Usa. E dovrà prima o poi decidere - come sono
portati a ritenere i più accreditati osservatori delle vicende
americane - se stringere i cordoni della borsa: con evidenti riflessi
sulle condizioni sociali di una grande parte del suo paese. In ogni
caso, potendo contare sul più potente apparato bellico mai visto sulla
scena della storia, difficilmente sarà disposto ad allentare la morsa
del dominio geopolitico e militare. Rimane da vedere se il mondo sia
disponibile a restare appeso a tale prospettiva. Ma qui la parola
spetta di diritto ai “dannati della terra” e alla resistenza
antimperialista.
NOTE
1. I dati sopra riportati sono contenuti in: V. Giacchè, Imperialismo e
capitale finanziario, in “l’ernesto”, n°3 maggio/giugno 2004, p.75 sgg.
2. Cfr. ad esempio L. Tronti, Slowdown e aggiustamento, in “Rivista di
economia politica”, marzo 1987.
3. G. Carchedi, Il valore e l’imperialismo: sono ancora attuali per
un’analisi del capitalismo contemporaneo?, in AA.VV., Il piano
inclinato del capitale, Milano 2003, pp.57-65.
4. Su tale questione e sull’importanza del dominio delle fonti di
risorse energetiche da parte degli Usa, cfr. ad esempio J. Halevi,
L’imperialismo del petrolio, in “La rivista del manifesto”, settembre
2003, pp.31-34.