L'ATTO D'ACCUSA DI JAIME Y. PRIETO
Mentre in Cile si uccidono lentamente gli ultimi prigionieri politici,
detenuti in carceri di massima sicurezza, in Italia le forze di polizia
minacciano un difensore della democrazia cilena. Così, mentre in Cile
Pedro Rosas Aravena, affetto da cancro, viene curato (meglio torturato)
con semplici anestetici e a Marcela Rodríguez Valdivieso, paraplegica
dal 1990, non si concede un visto per andare a curarsi in qualsiasi
paese straniero (unica speranza che le garantirebbe il diritto alla
vita), in Italia la Questura di Perugia si permette di minacciare,
maltrattare e vessare Jaime Yovanovic Prieto, cittadino cileno che lottò
per la democrazia cilena.
Che la vergogna smuova quanti si professano democratici in questo paese,
per verificare le responsabilità sui fatti descritti e procedere, di
conseguenza, a punire i responsabili delle violazioni dei diritti umani
cui è stato sottoposto Jaime Yovanovic Prieto!
Che la vergogna generi una solidarietà concreta verso i Prigionieri
Politici, per Marcela Rodríguez Valdivieso (l'Italia potrebbe salvarle
la vita!), per Pedro Rosas Aravena, per Oriana Alcayaga, per María
Cristina San Juan e per tutti gli altri !
Che i 1500 fax ricevuti dal Ministero di Giustizia si trasformino in
solidarietà concreta.
Dal racconto di Jaime Yovanovic Prieto
Al termine del Campo Antimperialista di Assisi, di grande successo per
la
quantità e la qualità dei gruppi e delle Persone presenti, per i temi
affrontati, per la convivenza e lo spirito rivoluzionario che univa i
presenti, nonché per le conclusioni raggiunte (tra cui quella di aprire
un
portale web antimperialista e di creare una rete antimperialista), venni
accompagnato alla stazione ferroviaria dove avrei dovuto prendere il
treno
per Roma.
Fin dall'uscita dal campeggio mi era sembrato che la nostra auto fosse
sotto
controllo, dal momento che una vettura bianca con un uomo e una donna a
bordo si manteneva costantemente a vista dietro di noi, benché il nostro
percorso avesse molteplici varianti di rotta.
Alla stazione venni circondato da quattro persone, tre uomini e una
donna,
la stessa dell'auto bianca. Due di loro, dopo aver mostrato un tesserino
della polizia, pretesero che li seguissi, adducendo il pretesto che il
passaporto non aveva il visto consolare.
Durante il tragitto mi dissero invece che il motivo era un altro, ovvero
il
fatto che non mi ero presentato alla polizia negli otto giorni seguenti
il
mio arrivo. In seguito dissero che il mio nome, Jaime Yovanovic Prieto,
appariva nell'elenco degli espulsi dalla Germania e che pertanto mi
avrebbero portato in caserma per accertamenti.
La caserma in cui venni portato è una caserma della Polizia, mentre
coloro
che mi hanno arrestato sono uomini della DIGOS, Direzione Investigazioni
Generali Operazioni Speciali, vale a dire uomini della sicurezza dello
Stato.
Lì sono stato trattenuto per alcune ore, nella giornata di domenica 6
agosto, a partire dalle ore 18.
Alla fine mi hanno detto la verità, e cioè che la polizia cilena, venuta
a
conoscenza della mia presenza in Italia, aveva chiesto alla polizia
italiana
di arrestarmi, sulla base dell'accusa di omicidio del generale di
brigata di
Santiago, Carol Urúa, nel 1983, e cioè in piena dittatura militare!
In caserma mi chiesero, come se stessero facendo conversazione, se avevo
ucciso io il generale. Risposi che rifiutavo fermamente l'accusa. Poiché
insistevano ad affermare che ero un terrorista, sono stato obbligato a
rifiutare di continuare
la "conversazione" senza la presenza di un avvocato.
A quel punto mi informarono che secondo la legge italiana potevano
mantenermi in stato di detenzione per 24 ore, senza alcuna accusa, con
il
solo pretesto di identificazione, e che siccome era tardi (quasi
mezzanotte), mi avrebbero tenuto a dormire nel carcere per continuare il
giorno seguente. Si trattava di un meschino inganno, perché la scorta
armata
che ci accompagnava dimostrava che in realtà ero formalmente prigioniero
e
non in "stato di detenzione".
Nel carcere mi fecero togliere i vestiti e controllarono tutte le mie
cose,
perfino il minimo dettaglio. Mi chiesero anche se ero della mafia o
della
camorra. Di fronte al mio sorriso, si innervosirono, e mi ordinarono a
voce
alta di tacere. A questo punto mi arrabbiai e dissi loro che ero stato
perseguitato e avevo sofferto la repressione sotto la dittatura e che
non
volevo sentirmi perseguitato qui, che cambiassero il tono della voce e
che
non avrei accettato di essere trattato con urla. La mia scarsa
conoscenza
dell'italiano non mi permetteva di esprimermi bene, però immagino che
abbiano inteso il messaggio, dal momento che fino ad ora mi hanno
parlato
con cortesia.
Verso le tre del mattino mi portarono dal medico, che dormiva
felicemente, e
mi sottoposero ad un superficiale esame del cuore, della pressione e dei
polmoni [ ]
Poi venni messo nell'ala medica, perché chiesi di rimanere da solo. Ero
nella cella n°4, una cella di 3x5 metri con due letti e un bagno di 1x5
metri, senza doccia e senza scolo nel pavimento per l'acqua. Nella cella
c'erano poi due
catini, uno in bagno e l'altro fuori, due banchi di legno e un armadio a
due
ante.
La porta, larga 1 metro, era di sbarre spesse e di notte veniva chiusa
anche
una seconda porta, tutta di metallo e molto pesante, che lasciava solo
una
finestrella nel centro. Sopra la porta c'era una televisione, dalla
quale ho
potuto seguire le mobilitazioni dei compagni italiani e di altri paesi
che
protestavano per il mio arresto.
Il lunedì la colazione venne distribuita alle 8:30. Un uomo ed una donna
passarono a consegnarmi un pacchetto di plastica trasparente, sigillato,
che
conteneva alcune fette di pane italiano senza sale, un pezzetto di
anguria
avvolto in un tovagliolo di carta, burro e una tazza di plastica con del
the
al limone.
L'uomo è un detenuto marocchino e distribuisce il cibo, oltre a
raccogliere
la spazzatura. La donna è invece etiope ed è una infermiera, che lavora
presso il carcere. Entrambi molto seri, silenziosi e timidi [ ].
Alle 9:00 mi portarono al piano terra (io ero detenuto al terzo piano)
per
essere interrogato dall' "educatore", che affermava di non essere né un
poliziotto né un magistrato, ma di lavorare da 20 anni come volontario,
occupandosi di diverse questioni dei prigionieri, come orientamento ,
ecc
Costui stava preparando un esame per il suo titolo di sociologo e aveva
con
sé un libro di Max Weber. Io gli diedi alcuni suggerimenti per capire
meglio
questo autore e lui alla fine ne rimase soddisfatto, tanto che disse
alle
guardie che
il professore cileno gli aveva tenuto una lezione su Weber che gli
sarebbe
stata utile per l'esame. Questo sembra che abbia aiutato, dal momento
che in
Italia un professore universitario è molto ben visto e rispettato da
tutti.
Alle 11 circa, venni portato a pranzo nella cella. Il pranzo consisteva
in
una zuppa di riso, dal sapore orribile, che fui costretto a gettare nel
sanitario.
Così al mattino ho mangiato solo del pane e ho conservato il resto per
supplire alle cattive condizioni del cibo.
Alla sera mi portarono da una psicologa che mi fece molte domande e
concluse
alla fine che io ero un uomo forte e profondo. Replicai che anche un
torturatore poteva essere forte, ma io in più ero cosciente, il che
rappresentava la
differenza sostanziale.
Conversammo quindi sulla psicologia del detenuto e concordammo che di
fronte
a tanta ingiustizia è necessario riscattare l'essere umano concreto. Che
dal
quotidiano bisogna sviluppare il suo grido e la sua lotta per la
libertà.
Lo stesso lunedì 7 agosto, ricevetti un telegramma di Moreno, Alessandro
ed
Elias, che mi consigliavano di scegliere come mio difensore l'avvocato
Francesco Innamorati. Mi comunicavano inoltre che stavano combattendo e
che
si erano ben organizzati per la campagna contro la mia estradizione in
Cile.
L'emozione è stata forte, e la riconoscenza e l'allegria che ho provato
nel
recepire la determinazione dell'azione di solidarietà che andava
strutturandosi mi hanno commosso fino alle lacrime.
Moreno è uno dei dirigenti della Associazione Voce Operaia e della
Corrente
Leninista Internazionale. E' un uomo chiaro e molto umano, uno degli
organizzatori del Campo Antimperialista, e mi azzardo a dire uno degli
imprescindibili di Bertold Brecht.
Alessandro è uno dei compagni del Comitato Internazionalista Arco Iris,
grande amico, molto sensibile e molto cosciente. Il lavoro che fanno di
divulgazione delle lotte di tutto il mondo è insostituibile.
Elias Letelier è cileno, poeta, fu anche ufficiale dell'Esercito
Sandinista;
attualmente coordina la Rete per i Prigionieri Politici e ha realizzato
con
successo la magnifica responsabilità di creare il portale web della Rete
Antimperialista.
Potrete immaginare cosa abbia significato per me ricevere il telegramma
di
questi tre compagni. Questo mi ha trasmesso molta tranquillità.
Lo stesso lunedì, però, non mi venne concesso di inviare il telegramma
per
nominare l'avvocato.
Il giorno successivo, martedì, accettarono il telegramma, che però venne
inviato solo il giorno seguente (mercoledì 9 agosto). Sempre martedì
ricevetti un telegramma di Melinka, questo indomabile che non si stanca
mai,
che mi trasmetteva forza e mi informava che una avvocatessa di Roma si
sta
unendo al gruppo. E' l'avvocatessa che difende i cileni a Roma.
Nuova emozione, nuove lacrime, in particolare adesso che è prossimo il
15
agosto, giorno in cui celebriamo l'anniversario del MIR, più saldi che
mai,
e io qui in questa nuova trincea che mi è toccata e che assumo con
responsabilità. Grazie Melinka. Grazie a tutti. La lotta è una, la lotta
continua e solo la lotta ci renderà liberi.
Mi hanno anche dato e fatto firmare un comunicato della Corte d'Appello
di
Perugia, dove mi informano che le autorità giudiziarie di Santiago del
Cile
mi accusano di omicidio e porto d'armi e di esplosivo, e che il giorno
10
agosto verrà un giudice a chiedermi se accetto o meno l'estradizione.
Ho elaborato la mia difesa per iscritto e in qualche modo risponderò a
questa domanda, che lascerò alla coscienza dei giudici, ma continuo a
rifiutare con decisione le accuse. Spero che il testo completo della mia
difesa già stia circolando su internet e sulla stampa prima che io sia
interrogato.
Oggi 9 agosto ho colloquiato con l'avvocato che mi è sembrato
sensazionale,
dal momento che si tratta di un vecchio partigiano che ha combattuto
contro
Mussolini.
Mi ha spiegato che può passare un certo tempo prima della decisione
sull'estradizione e che cercheranno di commutare l'arresto in arresti
domiciliari, cosa che mi sembra difficile da ottenere. Mi hanno anche
informato che domani, a partire dalle 10:00 fino alle 12:00 ci sarà una
manifestazione davanti all'ingresso del carcere, visto che alle 10:30
viene
il giudice per interrogarmi.
Il giorno della Manifestazione e della Libertà
Il giudice è entrato nel carcere accompagnato da due persone, credo una
segretaria e una dattilografa, oltre all'interprete, che lavora al primo
piano della Polizia e aveva svolto lo stesso lavoro il primo giorno del
mio
arresto, cioè domenica 6 agosto, il che dimostra una relazione operativa
tra
la polizia e il potere giudiziario. Il potere giudiziario utilizza
l'interprete della polizia!!!
E' arrivato anche il mio avvocato, Francesco Innamorati, insieme a una
avvocatessa del suo gruppo. Sono stato quindi ricevuto con un sorriso
immenso dal giudice, che si è alzato dal tavolo per stringermi la mano,
la
qual cosa ha richiamato la mia attenzione; inoltre l'interprete
insisteva
perché mi sedessi e mi diceva che fuori c'erano molte persone, e nel
frattempo osservava il mio volto per captare le mie reazioni.
La prima cosa che fece l'avvocato fu di segnalare il mio diritto ad
avere
due avvocati, quindi io procedetti a nominare l'avvocatessa che mi
mandavano
i cileni di Roma, che entrò in aula e si sedette al lato di Innamorati.
Il giudice volle quindi sapere se accettavo l'estradizione in Cile. Lo
informai che la mia risposta era lì scritta, e gliene consegnai una
copia,
ma lui in un primo momento non vi diede molta importanza, preoccupato di
parlare di altre
cose. Quando si rese conto che il passaporto era stato emesso dal Cile
nel
1999, ordinò di chiedere i miei documenti alla direzione del carcere.
Nuova
attesa. Quando tornò, raccontò che avevano chiamato da Roma perché fossi
rimesso in
libertà, poiché non c'erano i presupposti per un processo di
estradizione.
Il giudice ripetè due volte che all'uscita avrei dovuto presentarmi alla
polizia prima di circolare liberamente, però non disse che sarei stato
ritirato dal carcere dalla stessa polizia.
Chiesi all'avvocato che rimanesse con me fino a che uscissi o almeno che
lasciasse un altro avvocato o un'altra persona. Gli dissi che non mi
sentivo
tranquillo e che avevo bisogno di maggiore forza nella pressione verso
le
autorità carcerarie e di polizia. Però non fu possibile. Quindi arrivò
la
polizia internazionale e quando domandai che cosa ci facessero lì visto
che
io ero libero, mi dissero che il giudice mi aveva già informato che
prima di
uscire dovevo passare dalla polizia. Mi giurarono che tutto era a posto,
che
era un semplice passaggio, ma che io dovevo capire che prima dovevo
chiarire
la mancanza del visto, che dovevo parlare con la stampa e poi tutto si
sarebbe concluso.
Adesso penso che avrei dovuto scendere dall'auto e mischiarmi alla
moltitudine per creare un caso politico più forte, però nulla sembrava
indicare la trappola che si stava preparando.
Parlai quindi con i giornalisti e lessi la mia dichiarazione pubblica
che
consegnai al giudice. La manifestazione era bella. Molti compagni
gridavano
per me, cantavano, agitavano bandiere e cartelli. Mi emozionai tanto che
sentii una
gran voglia di gridare e piangere. La voce mi si bloccò due volte mentre
leggevo il comunicato. Poi mi portarono alla polizia dove mi lasciarono
con
il questore ed il suo vice, che mi comunicarono che la Germania aveva
detto
che io non
potevo entrare nel suo territorio; mi informarono inoltre che dalla
Germania
avevano inviato una nota ufficiale all'Italia su questa decisione, cosa
che
suppongo avere a che fare con le pressioni cilene.
Quindi mi spiegarono che poiché vi è un accordo tra i paesi della
Comunità
Europea, nessun altro paese avrebbe potuto accogliermi, ragion per cui
dovevano espellermi verso il mio paese, ovvero in Cile. Dal momento che
io
ero residente in Brasile, avrebbero potuto espellermi (utilizzarono
questa
parola 23 volte) anche in questo paese; potevo scegliere io.
E' chiaro che considerai questo un ricatto assurdo, dal momento che non
c'era alternativa possibile, e i termini delle frasi che mi gettavano
addosso non lasciavano nessun dubbio: o il Cile o il Brasile. Di fronte
a
questo optai per mandare a chiamare un compagno della manifestazione per
vedere quello che si poteva fare ed arrivò Marcello, grande amico e
compagno, che mi trasmise la solidarietà e l'appoggio di tutti quelli
che
stavano fuori.
A lui spiegai la sintesi: avevo deciso di ritornare in Brasile di fronte
alla mancanza di alternative, strizzando l'occhio perché capisse che non
mi
stavano lasciando altre opportunità. Considerai che il trattamento
ricevuto
era umiliante e vessatorio; varie volte il questore mi minacciò con la
possibilità di spedirmi in Cile e si arrabbiava perché fuori c'era la
manifestazione e i compagni italiani che esigevano un'altra conferenza
stampa, che i poliziotti non permisero, temendo che io dicessi che stavo
subendo minacce.
Dico ed affermo davanti all'opinione pubblica italiana e internazionale:
1. che sono stato sottoposto ad un trattamento umiliante e vessatorio da
parte della polizia italiana, con costanti minacce di espulsione in
Cile;
2. che sono stato ingannato dal giudice, che ha detto che ero in libertà
e
non mi ha avvisato che sarei stato trattenuto dalla polizia. Non ho
nessun
dubbio che il giudice sapesse della questione tedesca;
3. che l'interrogatorio con il giudice è stato controllato totalmente
dalla
polizia, dal momento che l'interprete, la stessa utilizzata il primo
giorno
del mio arresto, è stata fornita dalla polizia stessa;
4. che il mio arresto è stato ingannevole, poiché inizialmente mi fu
detto
di stare tranquillo che venivo portato alla sede della polizia, perché
mancava un visto sul passaporto, situazione questa che si era già
verificata
con un compagno messicano;
5. che la polizia dell'aeroporto di Milano ha cercato di umiliarmi
quando il
responsabile della DIGOS di Milano mi ha offeso in pubblico,
obbligandomi a
chiedergli di tacere;
6. per finire, sostengo che la democrazia italiana è uscita molto male
da
questa situazione, perché hanno trattato come un nemico un lottatore per
la
democrazia.
Esigo che il governo italiano mi permetta di entrare e circolare
liberamente
nel paese, che non vengano accettate le pressioni cilene e mi vengano
chieste pubbliche scuse per il maltrattamento, il ricatto e le minacce
ricevute dalla
polizia italiana.
Momentaneamente dal Brasile,
Jaime Yovanovic Prieto
Profesor J
cittadino libero, secondo la giustizia italiana
cittadino perseguitato, secondo la polizia italiana
Campo Antimperialista
www.antiimperialista.com
campo@...
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DHKC
Information Bureau Brussels
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FEHRIYE E' SEMPRE IN PERICOLO
LO SCIOPERO DELLA FAME DI FERHIYE CONTINUA
Il 16 agosto, su decisione comune delle diverse istanze dello Stato
Belga,
Ferhiye Erdal e stata liberata su condizione e messa agli arresti
domiciliari.
Mentre il luogo di confino doveva rimanere segreto, il gabinetto del
ministero delle finanze ha dato lo indirizzo agli organi di
informazione,
mettendo cosi in pericolo la vita della compagna del DHKC Questo
comportamento dimostra come sia poco credibile e irresponsabile il
governo
Belga.
Il giorno del rilascio dal carcere di Bruges e` cosi scoppiata la
polemica
che ha costretto le autorita` ad assegnare un nuovo posto per la
detenzione.
Ma il giorno dopo il ministero ha subito comunicato il nuovo indirizzo
ai
media turchi, dimostrando questa volta che piu` che negligenza bisogna
parlare di complotto.
Il Belgio deve dare la dimostrazione di essere uno Stato serio
Fin dall`inizio del processo di Ferhiye, il Belgio si e` astenuto dal
rispettare il suo stesso diritto e questo sia per le pressioni dello
Stato
Turco sia per quelle dei Sabanci. La stessa sua liberazione tardiva e`
un
atto illegale.
Cosi` per la legge Ferhiye e` libera ma e` lo stesso sequestrata in
una
residenza sorvegliata.
Per di piu` la polizia seguita a far subire alla famiglia di
accoglienza
di
Ferhiye continue vessazioni e a fermare gli abitanti del quartiere per
controlli di identita', mentre non sono assolutamente intervenuti ieri
quando dei provocatori travestiti da giornalisti turchi hanno fatto 15
minuti di riprese davanti alla casa dove la compagna e` trattenuta e
hanno
intervistato i vicini.
La polizia si dovrebbe occupare della sua sicurezza, ma di che
sicurezza
si
sta parlando e' difficile capirlo. Non hanno mai rispettato la
segretezza
dell`indirizzo, mentre questa era una delle condizioni concordate con
le
autorita'.
Ma le fughe di notizie, che avvengono sempre per canali ufficiali, non
implicano solo la comunicazione dell`indirizzo. Esse mettono in causa
la
serieta` dello Stato Belga. Durante tutto il processo ci sono state
varie
violazioni del diritto e sono spesso emerse contraddizioni pesanti.
Fino a
rendere caduche decisioni prese dagli organi giuridici supremi in
seguitop
alle minacce dello stato Turco e del partito di azione nazionalista, il
MHP
fascista.
Il Belgio ha il dovere di garantire la sicurezza di Ferhiye.
Ogni volta viene pubblicato l`indirizzo aumenta il pericolo per la vita
della nostra compagna, e deve essere considerato come un tentativo di
omicidio.
L`unica soluzione che potrebbe garantire la sicurezza di Ferhiye e` la
sua
liberazione.
NON CHIEDIAMO REGALI MA GIUSTIZIA
VOGLIAMO LA LIBERAZIONE DI FERHIYE
Il Belgio deve liberare Ferhiye. E questo sarebbe semplicemente
l`applicazione di quanto deciso in sede giudiziaria.
La liberazione e`l`unico modo per assicurare la sua sicurezza.
L`identirta` di Ferhiye e` stata ufficialmente accertata dai tribunali
e
Ferhiye spera di potere ottenere il diritto d`asilo politico, sempre
che
la
decisione dei magistrati non venga influenzata da pressioni esterne.
Teoricamente Ferhiye potra` beneficiare dell`asilo politico.
Ma illegalita` commesse fino adora e I contatti segreti fra stati
dimostrano
come il vero problema sia dello Stato Belga. Ogni segno di impotenza di
fronte alla Turchia e a Sabanci e` una nuova palla al piede che rimanda
sempre piu` la liberazione di Ferhiye e legittima di fatto tutte le
irregolarita` commesse dallo Stato.
Difendere la causa di Ferhiye diventa cosi il problema anche di tutti I
Belgi di fronte agli abusi commessi dai loro dirigenti.
In virtu` della nostra tradizione di Detenuta Libera, Ferhiye e` libera
di
fatto, questo grazie alle sue convinzioni e al suo spirito. Ma quello
che
non e` libera e` sicuramente la concezione del diritto secondo loStato
Belga.
FERHIYE NON FA ALTRO CHE FARE IL SUO DOVERE
Ferhiye ha iniziato lo scorso 14 luglio uno sciopero della fame per
protestare contro le irregolarita` subite. Ha gia` perso piu` di dieci
chili
e rischia di perdere la vista.
Dopo 35 giorni di sciopero della fame Ferhiye ha deciso di continuare
fino
a
quando non fosse liberata.
Chiediamo pertanto la solidarieta` di tutti nel sostenere Ferhiye in
questa
dura lotta.
FERMIAMO TUTTE LE RESTRIZIONI CHE COLPISCONO Ferhiye
FERMIAMO L`ARBITRIO, E CHIEDIAMO DIRITTI SICURI E GIUSTIZIA
LIBERTA` PER FERHIYE
FRONTE RIVOLUZIONARIO DI LIBERAZIONE DEL POPOLO
DHKC- belgio-
DHKC - Information Bureau Brussels
Rue Belliard 197 Bte 8 Bruxelles
tel:003222802228 - fax:003222802229
mail: dhkc.bruxelles@... mail: dhkc@... Internetsite:
www.dhkc.org
Fehriye e' in sciopero della fame da 41 giorni
Fehriye deve vivere
La sua vita dipende dalla sua liberta'
Lo scorso 16 agosto, la militante del Dhkc Fehriye Erdal e' stata
trasferita
dal carcere di Bruges dove era detenuta illegalmente, verso una casa
dove e'
stata messa agli arresti domiciliari.
In 24 ore le autorita' belghe hanno divulgato alla stampa due indirizzi
dei
luoghi di detenzione di Fehriye malgrado il governo si fosse impegnato a
tenerli segreti. E cosi Fehriye continua a subire le ingiustizie, le
illegalita' e gli arbitri che i dirigenti del Belgi ; le stanno
infliggendo
ormai da mesi.
In Turchia Fehriye e' stata giudicata da un tribunale militari, e per
motivi
politici e' stata condannata a morte.
Il potere fascista e repressivo della Turchia, deciso ad eliminarla non
bada
ai mezzi per catturarla. Questo accanimento e' totalmente caratteristico
di
un paese la cui politica si basa sui massacri e la tortura. Cosi la base
della poltica dello stato turco e` la minaccia, il ricatto, il
non-diritto e
la tirannide.
Fehriye Erdal e' in scipero della fame da 41 giorni ormai.
E' per difendere la sua dignita', la sua liberta' e la sua vita, ma
anche
per resistere contro le ingiustizie, il non-diritto e i giochetti
politici
del governo belga che questa giovane compagna di soli 23 anni
compromette il
suo corpo [rischia di diventare cieca] e la sua salute da piu' di 40
giorni.
Fehriye vuole vivere.
Mal sua vita dipende dalla sua sicurezza, e la sua sicurezza dipende
dalla
sua liberta'. Da 41 giorni Fehriye paga il suo tributo alla liberta'.
La sua liberta' sono i membri del governo belga, primo fra i quali il
ministro ndegli Interni Duquesne ad avergliela rubata. Sono loro che
mettono
in pericolo la sua vita. Loro, sono grandi personaggi fieri,
dall'aspetto
sobrio, tipico degli uomini si stato, che si riuniscono per speculare
sulla
vita di una ragazza che non hanno mai visto ne' incontrata e con la
quale
non hanno avuto nessun contatto.
Il problema, il dilemma per loro e' solo «come fare per consegnarla
nelle
mani insanguinate dei boia turchi, per via diretta o via transito in uno
Stato terzo ?»
Nel quadro degli accordi segreti che legano il Belgio alla Turchia, il
Belgio voleva estradare Fehriye in Turchia. Il progetto e' fallito. E
ora il
Belgio punta su un paese terzo come intermediario.
Prima di essere un omicidio sarebbe una palese violazione del diritto.
Ma da quando gli accordi segreti si sono scontrati alle conclusioni dei
tribunali, le minacce della Turchia sono diventate sempre piu'
pressanti.
In uno scenario gia' visto con l'Italia, la Turchia ha subito minacciato
il
Belgio di un bel embargo econimico sui prodotti belgi.
Il Belgio cedera' ancora una volta ?
Di fronte alla minaccia il Belgio decidera' di nuovo di violare il
proprio
diritto ?
Chiedera' grazia sacrificando Fehriye ?
La dignita' del popolo belga verra' di nuovo macchiata?
Dipende tutto dal signor Duquesne e dal governo.
Fehriye vuole vivere e cio' dipende dalla sua liberta'. La sua liberta'
dipende dal riconoscimento del diritto d'asilo e dall'abbandandono del
progetto di espulsione anche verso uno mstato terzo, vera spada di
Damocle
che pende sulla testa di Fehriye.
Fehriye deve vivere
Liberta' per Fehriye
Per esprimere solidarieta' o per contatti : Rue Belliard, 197 bte 8
1050 Bruxelles
Tel 00322 2802228 Fax 2802229
Internet : www.dhkc.org
Fehriyeye ozgurluk (lista di solidarieta`) : fehriye@...
Ufficio dhkc: dhkc@...
Oppure : dhkc.bruxelles@...
--------- COORDINAMENTO ROMANO PER LA JUGOSLAVIA -----------
RIMSKI SAVEZ ZA JUGOSLAVIJU
e-mail: crj@... - URL: http://marx2001.org/crj
http://www.egroups.com/group/crj-mailinglist/
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Mentre in Cile si uccidono lentamente gli ultimi prigionieri politici,
detenuti in carceri di massima sicurezza, in Italia le forze di polizia
minacciano un difensore della democrazia cilena. Così, mentre in Cile
Pedro Rosas Aravena, affetto da cancro, viene curato (meglio torturato)
con semplici anestetici e a Marcela Rodríguez Valdivieso, paraplegica
dal 1990, non si concede un visto per andare a curarsi in qualsiasi
paese straniero (unica speranza che le garantirebbe il diritto alla
vita), in Italia la Questura di Perugia si permette di minacciare,
maltrattare e vessare Jaime Yovanovic Prieto, cittadino cileno che lottò
per la democrazia cilena.
Che la vergogna smuova quanti si professano democratici in questo paese,
per verificare le responsabilità sui fatti descritti e procedere, di
conseguenza, a punire i responsabili delle violazioni dei diritti umani
cui è stato sottoposto Jaime Yovanovic Prieto!
Che la vergogna generi una solidarietà concreta verso i Prigionieri
Politici, per Marcela Rodríguez Valdivieso (l'Italia potrebbe salvarle
la vita!), per Pedro Rosas Aravena, per Oriana Alcayaga, per María
Cristina San Juan e per tutti gli altri !
Che i 1500 fax ricevuti dal Ministero di Giustizia si trasformino in
solidarietà concreta.
Dal racconto di Jaime Yovanovic Prieto
Al termine del Campo Antimperialista di Assisi, di grande successo per
la
quantità e la qualità dei gruppi e delle Persone presenti, per i temi
affrontati, per la convivenza e lo spirito rivoluzionario che univa i
presenti, nonché per le conclusioni raggiunte (tra cui quella di aprire
un
portale web antimperialista e di creare una rete antimperialista), venni
accompagnato alla stazione ferroviaria dove avrei dovuto prendere il
treno
per Roma.
Fin dall'uscita dal campeggio mi era sembrato che la nostra auto fosse
sotto
controllo, dal momento che una vettura bianca con un uomo e una donna a
bordo si manteneva costantemente a vista dietro di noi, benché il nostro
percorso avesse molteplici varianti di rotta.
Alla stazione venni circondato da quattro persone, tre uomini e una
donna,
la stessa dell'auto bianca. Due di loro, dopo aver mostrato un tesserino
della polizia, pretesero che li seguissi, adducendo il pretesto che il
passaporto non aveva il visto consolare.
Durante il tragitto mi dissero invece che il motivo era un altro, ovvero
il
fatto che non mi ero presentato alla polizia negli otto giorni seguenti
il
mio arrivo. In seguito dissero che il mio nome, Jaime Yovanovic Prieto,
appariva nell'elenco degli espulsi dalla Germania e che pertanto mi
avrebbero portato in caserma per accertamenti.
La caserma in cui venni portato è una caserma della Polizia, mentre
coloro
che mi hanno arrestato sono uomini della DIGOS, Direzione Investigazioni
Generali Operazioni Speciali, vale a dire uomini della sicurezza dello
Stato.
Lì sono stato trattenuto per alcune ore, nella giornata di domenica 6
agosto, a partire dalle ore 18.
Alla fine mi hanno detto la verità, e cioè che la polizia cilena, venuta
a
conoscenza della mia presenza in Italia, aveva chiesto alla polizia
italiana
di arrestarmi, sulla base dell'accusa di omicidio del generale di
brigata di
Santiago, Carol Urúa, nel 1983, e cioè in piena dittatura militare!
In caserma mi chiesero, come se stessero facendo conversazione, se avevo
ucciso io il generale. Risposi che rifiutavo fermamente l'accusa. Poiché
insistevano ad affermare che ero un terrorista, sono stato obbligato a
rifiutare di continuare
la "conversazione" senza la presenza di un avvocato.
A quel punto mi informarono che secondo la legge italiana potevano
mantenermi in stato di detenzione per 24 ore, senza alcuna accusa, con
il
solo pretesto di identificazione, e che siccome era tardi (quasi
mezzanotte), mi avrebbero tenuto a dormire nel carcere per continuare il
giorno seguente. Si trattava di un meschino inganno, perché la scorta
armata
che ci accompagnava dimostrava che in realtà ero formalmente prigioniero
e
non in "stato di detenzione".
Nel carcere mi fecero togliere i vestiti e controllarono tutte le mie
cose,
perfino il minimo dettaglio. Mi chiesero anche se ero della mafia o
della
camorra. Di fronte al mio sorriso, si innervosirono, e mi ordinarono a
voce
alta di tacere. A questo punto mi arrabbiai e dissi loro che ero stato
perseguitato e avevo sofferto la repressione sotto la dittatura e che
non
volevo sentirmi perseguitato qui, che cambiassero il tono della voce e
che
non avrei accettato di essere trattato con urla. La mia scarsa
conoscenza
dell'italiano non mi permetteva di esprimermi bene, però immagino che
abbiano inteso il messaggio, dal momento che fino ad ora mi hanno
parlato
con cortesia.
Verso le tre del mattino mi portarono dal medico, che dormiva
felicemente, e
mi sottoposero ad un superficiale esame del cuore, della pressione e dei
polmoni [ ]
Poi venni messo nell'ala medica, perché chiesi di rimanere da solo. Ero
nella cella n°4, una cella di 3x5 metri con due letti e un bagno di 1x5
metri, senza doccia e senza scolo nel pavimento per l'acqua. Nella cella
c'erano poi due
catini, uno in bagno e l'altro fuori, due banchi di legno e un armadio a
due
ante.
La porta, larga 1 metro, era di sbarre spesse e di notte veniva chiusa
anche
una seconda porta, tutta di metallo e molto pesante, che lasciava solo
una
finestrella nel centro. Sopra la porta c'era una televisione, dalla
quale ho
potuto seguire le mobilitazioni dei compagni italiani e di altri paesi
che
protestavano per il mio arresto.
Il lunedì la colazione venne distribuita alle 8:30. Un uomo ed una donna
passarono a consegnarmi un pacchetto di plastica trasparente, sigillato,
che
conteneva alcune fette di pane italiano senza sale, un pezzetto di
anguria
avvolto in un tovagliolo di carta, burro e una tazza di plastica con del
the
al limone.
L'uomo è un detenuto marocchino e distribuisce il cibo, oltre a
raccogliere
la spazzatura. La donna è invece etiope ed è una infermiera, che lavora
presso il carcere. Entrambi molto seri, silenziosi e timidi [ ].
Alle 9:00 mi portarono al piano terra (io ero detenuto al terzo piano)
per
essere interrogato dall' "educatore", che affermava di non essere né un
poliziotto né un magistrato, ma di lavorare da 20 anni come volontario,
occupandosi di diverse questioni dei prigionieri, come orientamento ,
ecc
Costui stava preparando un esame per il suo titolo di sociologo e aveva
con
sé un libro di Max Weber. Io gli diedi alcuni suggerimenti per capire
meglio
questo autore e lui alla fine ne rimase soddisfatto, tanto che disse
alle
guardie che
il professore cileno gli aveva tenuto una lezione su Weber che gli
sarebbe
stata utile per l'esame. Questo sembra che abbia aiutato, dal momento
che in
Italia un professore universitario è molto ben visto e rispettato da
tutti.
Alle 11 circa, venni portato a pranzo nella cella. Il pranzo consisteva
in
una zuppa di riso, dal sapore orribile, che fui costretto a gettare nel
sanitario.
Così al mattino ho mangiato solo del pane e ho conservato il resto per
supplire alle cattive condizioni del cibo.
Alla sera mi portarono da una psicologa che mi fece molte domande e
concluse
alla fine che io ero un uomo forte e profondo. Replicai che anche un
torturatore poteva essere forte, ma io in più ero cosciente, il che
rappresentava la
differenza sostanziale.
Conversammo quindi sulla psicologia del detenuto e concordammo che di
fronte
a tanta ingiustizia è necessario riscattare l'essere umano concreto. Che
dal
quotidiano bisogna sviluppare il suo grido e la sua lotta per la
libertà.
Lo stesso lunedì 7 agosto, ricevetti un telegramma di Moreno, Alessandro
ed
Elias, che mi consigliavano di scegliere come mio difensore l'avvocato
Francesco Innamorati. Mi comunicavano inoltre che stavano combattendo e
che
si erano ben organizzati per la campagna contro la mia estradizione in
Cile.
L'emozione è stata forte, e la riconoscenza e l'allegria che ho provato
nel
recepire la determinazione dell'azione di solidarietà che andava
strutturandosi mi hanno commosso fino alle lacrime.
Moreno è uno dei dirigenti della Associazione Voce Operaia e della
Corrente
Leninista Internazionale. E' un uomo chiaro e molto umano, uno degli
organizzatori del Campo Antimperialista, e mi azzardo a dire uno degli
imprescindibili di Bertold Brecht.
Alessandro è uno dei compagni del Comitato Internazionalista Arco Iris,
grande amico, molto sensibile e molto cosciente. Il lavoro che fanno di
divulgazione delle lotte di tutto il mondo è insostituibile.
Elias Letelier è cileno, poeta, fu anche ufficiale dell'Esercito
Sandinista;
attualmente coordina la Rete per i Prigionieri Politici e ha realizzato
con
successo la magnifica responsabilità di creare il portale web della Rete
Antimperialista.
Potrete immaginare cosa abbia significato per me ricevere il telegramma
di
questi tre compagni. Questo mi ha trasmesso molta tranquillità.
Lo stesso lunedì, però, non mi venne concesso di inviare il telegramma
per
nominare l'avvocato.
Il giorno successivo, martedì, accettarono il telegramma, che però venne
inviato solo il giorno seguente (mercoledì 9 agosto). Sempre martedì
ricevetti un telegramma di Melinka, questo indomabile che non si stanca
mai,
che mi trasmetteva forza e mi informava che una avvocatessa di Roma si
sta
unendo al gruppo. E' l'avvocatessa che difende i cileni a Roma.
Nuova emozione, nuove lacrime, in particolare adesso che è prossimo il
15
agosto, giorno in cui celebriamo l'anniversario del MIR, più saldi che
mai,
e io qui in questa nuova trincea che mi è toccata e che assumo con
responsabilità. Grazie Melinka. Grazie a tutti. La lotta è una, la lotta
continua e solo la lotta ci renderà liberi.
Mi hanno anche dato e fatto firmare un comunicato della Corte d'Appello
di
Perugia, dove mi informano che le autorità giudiziarie di Santiago del
Cile
mi accusano di omicidio e porto d'armi e di esplosivo, e che il giorno
10
agosto verrà un giudice a chiedermi se accetto o meno l'estradizione.
Ho elaborato la mia difesa per iscritto e in qualche modo risponderò a
questa domanda, che lascerò alla coscienza dei giudici, ma continuo a
rifiutare con decisione le accuse. Spero che il testo completo della mia
difesa già stia circolando su internet e sulla stampa prima che io sia
interrogato.
Oggi 9 agosto ho colloquiato con l'avvocato che mi è sembrato
sensazionale,
dal momento che si tratta di un vecchio partigiano che ha combattuto
contro
Mussolini.
Mi ha spiegato che può passare un certo tempo prima della decisione
sull'estradizione e che cercheranno di commutare l'arresto in arresti
domiciliari, cosa che mi sembra difficile da ottenere. Mi hanno anche
informato che domani, a partire dalle 10:00 fino alle 12:00 ci sarà una
manifestazione davanti all'ingresso del carcere, visto che alle 10:30
viene
il giudice per interrogarmi.
Il giorno della Manifestazione e della Libertà
Il giudice è entrato nel carcere accompagnato da due persone, credo una
segretaria e una dattilografa, oltre all'interprete, che lavora al primo
piano della Polizia e aveva svolto lo stesso lavoro il primo giorno del
mio
arresto, cioè domenica 6 agosto, il che dimostra una relazione operativa
tra
la polizia e il potere giudiziario. Il potere giudiziario utilizza
l'interprete della polizia!!!
E' arrivato anche il mio avvocato, Francesco Innamorati, insieme a una
avvocatessa del suo gruppo. Sono stato quindi ricevuto con un sorriso
immenso dal giudice, che si è alzato dal tavolo per stringermi la mano,
la
qual cosa ha richiamato la mia attenzione; inoltre l'interprete
insisteva
perché mi sedessi e mi diceva che fuori c'erano molte persone, e nel
frattempo osservava il mio volto per captare le mie reazioni.
La prima cosa che fece l'avvocato fu di segnalare il mio diritto ad
avere
due avvocati, quindi io procedetti a nominare l'avvocatessa che mi
mandavano
i cileni di Roma, che entrò in aula e si sedette al lato di Innamorati.
Il giudice volle quindi sapere se accettavo l'estradizione in Cile. Lo
informai che la mia risposta era lì scritta, e gliene consegnai una
copia,
ma lui in un primo momento non vi diede molta importanza, preoccupato di
parlare di altre
cose. Quando si rese conto che il passaporto era stato emesso dal Cile
nel
1999, ordinò di chiedere i miei documenti alla direzione del carcere.
Nuova
attesa. Quando tornò, raccontò che avevano chiamato da Roma perché fossi
rimesso in
libertà, poiché non c'erano i presupposti per un processo di
estradizione.
Il giudice ripetè due volte che all'uscita avrei dovuto presentarmi alla
polizia prima di circolare liberamente, però non disse che sarei stato
ritirato dal carcere dalla stessa polizia.
Chiesi all'avvocato che rimanesse con me fino a che uscissi o almeno che
lasciasse un altro avvocato o un'altra persona. Gli dissi che non mi
sentivo
tranquillo e che avevo bisogno di maggiore forza nella pressione verso
le
autorità carcerarie e di polizia. Però non fu possibile. Quindi arrivò
la
polizia internazionale e quando domandai che cosa ci facessero lì visto
che
io ero libero, mi dissero che il giudice mi aveva già informato che
prima di
uscire dovevo passare dalla polizia. Mi giurarono che tutto era a posto,
che
era un semplice passaggio, ma che io dovevo capire che prima dovevo
chiarire
la mancanza del visto, che dovevo parlare con la stampa e poi tutto si
sarebbe concluso.
Adesso penso che avrei dovuto scendere dall'auto e mischiarmi alla
moltitudine per creare un caso politico più forte, però nulla sembrava
indicare la trappola che si stava preparando.
Parlai quindi con i giornalisti e lessi la mia dichiarazione pubblica
che
consegnai al giudice. La manifestazione era bella. Molti compagni
gridavano
per me, cantavano, agitavano bandiere e cartelli. Mi emozionai tanto che
sentii una
gran voglia di gridare e piangere. La voce mi si bloccò due volte mentre
leggevo il comunicato. Poi mi portarono alla polizia dove mi lasciarono
con
il questore ed il suo vice, che mi comunicarono che la Germania aveva
detto
che io non
potevo entrare nel suo territorio; mi informarono inoltre che dalla
Germania
avevano inviato una nota ufficiale all'Italia su questa decisione, cosa
che
suppongo avere a che fare con le pressioni cilene.
Quindi mi spiegarono che poiché vi è un accordo tra i paesi della
Comunità
Europea, nessun altro paese avrebbe potuto accogliermi, ragion per cui
dovevano espellermi verso il mio paese, ovvero in Cile. Dal momento che
io
ero residente in Brasile, avrebbero potuto espellermi (utilizzarono
questa
parola 23 volte) anche in questo paese; potevo scegliere io.
E' chiaro che considerai questo un ricatto assurdo, dal momento che non
c'era alternativa possibile, e i termini delle frasi che mi gettavano
addosso non lasciavano nessun dubbio: o il Cile o il Brasile. Di fronte
a
questo optai per mandare a chiamare un compagno della manifestazione per
vedere quello che si poteva fare ed arrivò Marcello, grande amico e
compagno, che mi trasmise la solidarietà e l'appoggio di tutti quelli
che
stavano fuori.
A lui spiegai la sintesi: avevo deciso di ritornare in Brasile di fronte
alla mancanza di alternative, strizzando l'occhio perché capisse che non
mi
stavano lasciando altre opportunità. Considerai che il trattamento
ricevuto
era umiliante e vessatorio; varie volte il questore mi minacciò con la
possibilità di spedirmi in Cile e si arrabbiava perché fuori c'era la
manifestazione e i compagni italiani che esigevano un'altra conferenza
stampa, che i poliziotti non permisero, temendo che io dicessi che stavo
subendo minacce.
Dico ed affermo davanti all'opinione pubblica italiana e internazionale:
1. che sono stato sottoposto ad un trattamento umiliante e vessatorio da
parte della polizia italiana, con costanti minacce di espulsione in
Cile;
2. che sono stato ingannato dal giudice, che ha detto che ero in libertà
e
non mi ha avvisato che sarei stato trattenuto dalla polizia. Non ho
nessun
dubbio che il giudice sapesse della questione tedesca;
3. che l'interrogatorio con il giudice è stato controllato totalmente
dalla
polizia, dal momento che l'interprete, la stessa utilizzata il primo
giorno
del mio arresto, è stata fornita dalla polizia stessa;
4. che il mio arresto è stato ingannevole, poiché inizialmente mi fu
detto
di stare tranquillo che venivo portato alla sede della polizia, perché
mancava un visto sul passaporto, situazione questa che si era già
verificata
con un compagno messicano;
5. che la polizia dell'aeroporto di Milano ha cercato di umiliarmi
quando il
responsabile della DIGOS di Milano mi ha offeso in pubblico,
obbligandomi a
chiedergli di tacere;
6. per finire, sostengo che la democrazia italiana è uscita molto male
da
questa situazione, perché hanno trattato come un nemico un lottatore per
la
democrazia.
Esigo che il governo italiano mi permetta di entrare e circolare
liberamente
nel paese, che non vengano accettate le pressioni cilene e mi vengano
chieste pubbliche scuse per il maltrattamento, il ricatto e le minacce
ricevute dalla
polizia italiana.
Momentaneamente dal Brasile,
Jaime Yovanovic Prieto
Profesor J
cittadino libero, secondo la giustizia italiana
cittadino perseguitato, secondo la polizia italiana
Campo Antimperialista
www.antiimperialista.com
campo@...
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Information Bureau Brussels
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FEHRIYE E' SEMPRE IN PERICOLO
LO SCIOPERO DELLA FAME DI FERHIYE CONTINUA
Il 16 agosto, su decisione comune delle diverse istanze dello Stato
Belga,
Ferhiye Erdal e stata liberata su condizione e messa agli arresti
domiciliari.
Mentre il luogo di confino doveva rimanere segreto, il gabinetto del
ministero delle finanze ha dato lo indirizzo agli organi di
informazione,
mettendo cosi in pericolo la vita della compagna del DHKC Questo
comportamento dimostra come sia poco credibile e irresponsabile il
governo
Belga.
Il giorno del rilascio dal carcere di Bruges e` cosi scoppiata la
polemica
che ha costretto le autorita` ad assegnare un nuovo posto per la
detenzione.
Ma il giorno dopo il ministero ha subito comunicato il nuovo indirizzo
ai
media turchi, dimostrando questa volta che piu` che negligenza bisogna
parlare di complotto.
Il Belgio deve dare la dimostrazione di essere uno Stato serio
Fin dall`inizio del processo di Ferhiye, il Belgio si e` astenuto dal
rispettare il suo stesso diritto e questo sia per le pressioni dello
Stato
Turco sia per quelle dei Sabanci. La stessa sua liberazione tardiva e`
un
atto illegale.
Cosi` per la legge Ferhiye e` libera ma e` lo stesso sequestrata in
una
residenza sorvegliata.
Per di piu` la polizia seguita a far subire alla famiglia di
accoglienza
di
Ferhiye continue vessazioni e a fermare gli abitanti del quartiere per
controlli di identita', mentre non sono assolutamente intervenuti ieri
quando dei provocatori travestiti da giornalisti turchi hanno fatto 15
minuti di riprese davanti alla casa dove la compagna e` trattenuta e
hanno
intervistato i vicini.
La polizia si dovrebbe occupare della sua sicurezza, ma di che
sicurezza
si
sta parlando e' difficile capirlo. Non hanno mai rispettato la
segretezza
dell`indirizzo, mentre questa era una delle condizioni concordate con
le
autorita'.
Ma le fughe di notizie, che avvengono sempre per canali ufficiali, non
implicano solo la comunicazione dell`indirizzo. Esse mettono in causa
la
serieta` dello Stato Belga. Durante tutto il processo ci sono state
varie
violazioni del diritto e sono spesso emerse contraddizioni pesanti.
Fino a
rendere caduche decisioni prese dagli organi giuridici supremi in
seguitop
alle minacce dello stato Turco e del partito di azione nazionalista, il
MHP
fascista.
Il Belgio ha il dovere di garantire la sicurezza di Ferhiye.
Ogni volta viene pubblicato l`indirizzo aumenta il pericolo per la vita
della nostra compagna, e deve essere considerato come un tentativo di
omicidio.
L`unica soluzione che potrebbe garantire la sicurezza di Ferhiye e` la
sua
liberazione.
NON CHIEDIAMO REGALI MA GIUSTIZIA
VOGLIAMO LA LIBERAZIONE DI FERHIYE
Il Belgio deve liberare Ferhiye. E questo sarebbe semplicemente
l`applicazione di quanto deciso in sede giudiziaria.
La liberazione e`l`unico modo per assicurare la sua sicurezza.
L`identirta` di Ferhiye e` stata ufficialmente accertata dai tribunali
e
Ferhiye spera di potere ottenere il diritto d`asilo politico, sempre
che
la
decisione dei magistrati non venga influenzata da pressioni esterne.
Teoricamente Ferhiye potra` beneficiare dell`asilo politico.
Ma illegalita` commesse fino adora e I contatti segreti fra stati
dimostrano
come il vero problema sia dello Stato Belga. Ogni segno di impotenza di
fronte alla Turchia e a Sabanci e` una nuova palla al piede che rimanda
sempre piu` la liberazione di Ferhiye e legittima di fatto tutte le
irregolarita` commesse dallo Stato.
Difendere la causa di Ferhiye diventa cosi il problema anche di tutti I
Belgi di fronte agli abusi commessi dai loro dirigenti.
In virtu` della nostra tradizione di Detenuta Libera, Ferhiye e` libera
di
fatto, questo grazie alle sue convinzioni e al suo spirito. Ma quello
che
non e` libera e` sicuramente la concezione del diritto secondo loStato
Belga.
FERHIYE NON FA ALTRO CHE FARE IL SUO DOVERE
Ferhiye ha iniziato lo scorso 14 luglio uno sciopero della fame per
protestare contro le irregolarita` subite. Ha gia` perso piu` di dieci
chili
e rischia di perdere la vista.
Dopo 35 giorni di sciopero della fame Ferhiye ha deciso di continuare
fino
a
quando non fosse liberata.
Chiediamo pertanto la solidarieta` di tutti nel sostenere Ferhiye in
questa
dura lotta.
FERMIAMO TUTTE LE RESTRIZIONI CHE COLPISCONO Ferhiye
FERMIAMO L`ARBITRIO, E CHIEDIAMO DIRITTI SICURI E GIUSTIZIA
LIBERTA` PER FERHIYE
FRONTE RIVOLUZIONARIO DI LIBERAZIONE DEL POPOLO
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Fehriye e' in sciopero della fame da 41 giorni
Fehriye deve vivere
La sua vita dipende dalla sua liberta'
Lo scorso 16 agosto, la militante del Dhkc Fehriye Erdal e' stata
trasferita
dal carcere di Bruges dove era detenuta illegalmente, verso una casa
dove e'
stata messa agli arresti domiciliari.
In 24 ore le autorita' belghe hanno divulgato alla stampa due indirizzi
dei
luoghi di detenzione di Fehriye malgrado il governo si fosse impegnato a
tenerli segreti. E cosi Fehriye continua a subire le ingiustizie, le
illegalita' e gli arbitri che i dirigenti del Belgi ; le stanno
infliggendo
ormai da mesi.
In Turchia Fehriye e' stata giudicata da un tribunale militari, e per
motivi
politici e' stata condannata a morte.
Il potere fascista e repressivo della Turchia, deciso ad eliminarla non
bada
ai mezzi per catturarla. Questo accanimento e' totalmente caratteristico
di
un paese la cui politica si basa sui massacri e la tortura. Cosi la base
della poltica dello stato turco e` la minaccia, il ricatto, il
non-diritto e
la tirannide.
Fehriye Erdal e' in scipero della fame da 41 giorni ormai.
E' per difendere la sua dignita', la sua liberta' e la sua vita, ma
anche
per resistere contro le ingiustizie, il non-diritto e i giochetti
politici
del governo belga che questa giovane compagna di soli 23 anni
compromette il
suo corpo [rischia di diventare cieca] e la sua salute da piu' di 40
giorni.
Fehriye vuole vivere.
Mal sua vita dipende dalla sua sicurezza, e la sua sicurezza dipende
dalla
sua liberta'. Da 41 giorni Fehriye paga il suo tributo alla liberta'.
La sua liberta' sono i membri del governo belga, primo fra i quali il
ministro ndegli Interni Duquesne ad avergliela rubata. Sono loro che
mettono
in pericolo la sua vita. Loro, sono grandi personaggi fieri,
dall'aspetto
sobrio, tipico degli uomini si stato, che si riuniscono per speculare
sulla
vita di una ragazza che non hanno mai visto ne' incontrata e con la
quale
non hanno avuto nessun contatto.
Il problema, il dilemma per loro e' solo «come fare per consegnarla
nelle
mani insanguinate dei boia turchi, per via diretta o via transito in uno
Stato terzo ?»
Nel quadro degli accordi segreti che legano il Belgio alla Turchia, il
Belgio voleva estradare Fehriye in Turchia. Il progetto e' fallito. E
ora il
Belgio punta su un paese terzo come intermediario.
Prima di essere un omicidio sarebbe una palese violazione del diritto.
Ma da quando gli accordi segreti si sono scontrati alle conclusioni dei
tribunali, le minacce della Turchia sono diventate sempre piu'
pressanti.
In uno scenario gia' visto con l'Italia, la Turchia ha subito minacciato
il
Belgio di un bel embargo econimico sui prodotti belgi.
Il Belgio cedera' ancora una volta ?
Di fronte alla minaccia il Belgio decidera' di nuovo di violare il
proprio
diritto ?
Chiedera' grazia sacrificando Fehriye ?
La dignita' del popolo belga verra' di nuovo macchiata?
Dipende tutto dal signor Duquesne e dal governo.
Fehriye vuole vivere e cio' dipende dalla sua liberta'. La sua liberta'
dipende dal riconoscimento del diritto d'asilo e dall'abbandandono del
progetto di espulsione anche verso uno mstato terzo, vera spada di
Damocle
che pende sulla testa di Fehriye.
Fehriye deve vivere
Liberta' per Fehriye
Per esprimere solidarieta' o per contatti : Rue Belliard, 197 bte 8
1050 Bruxelles
Tel 00322 2802228 Fax 2802229
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Fehriyeye ozgurluk (lista di solidarieta`) : fehriye@...
Ufficio dhkc: dhkc@...
Oppure : dhkc.bruxelles@...
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