il manifesto
23 Luglio 2006
Lubiana, vedi alla voce Europa
di Carla Casalini
«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse
fatto nulla di male, una mattina venne arrestato...». L'incipit del
Processo sovviene immediato, come le cose trovate senza cercarle, il
mondo kafkiano è già lì, sfondo adeguato alla percezione in parole
dei «cancellati»: le donne e uomini nati o comunque vissuti e
residenti da anni in Slovenia, che senza capire improvvisamente si
sono trovati il vuoto intorno, anzi sono divenuti essi stessi il
«vuoto»,fantasmi, coloro che appaiono ma non sono. Privati
d'improvviso dei diritti e fin dei documenti - di quello statuto
della «cittadinanza» che nel moderno via via diviene indispensabile
conferma dell'essere e dell'essere riconoscibili agli altri - privati
perciò delle «basi legali dell'esistenza».
L'angoscia persecutoria del non sapere perché evocata da Kafka, vive
immediata nelle parole di Milan Makuc, che al trovarsi
improvvisamente straniero in patria, presenza illegale sul territorio
sloveno in cui è vissuto, pensa che la causa deve essere stata un
misteriore errore. Poi la polizia davanti a casa, le sue cose giù in
strada, l'incubo si materializza. E non ci sono neppure le parole per
dirlo, come si fa a spiegare che quelli come lui sono stati
cancellati con un'operazione segreta del ministero degli interni?
Come si fa a tradurre la dismisura formale di quell'atto nella lingua
materna concreta del vivere quotidiano? «Forse la cancellazione è
troppo complessa per una persona comune, e poi, se uno capisse
comincerebbe a dubitare della giustizia...».
Milan e altri «cancellati» chiedono ora se quella giustizia può
esistere alla Corte europea dei diritti umani, ricorrono contro la
Repubblica slovena che pure ha una Costituzione in cui è scritto che
garantisce «la protezione dei diritti umani e delle libertà
fondamentali a tutte le persone che si trovano sul suo territorio,
indipendentemente dalla loro origine nazionale, senza alcun tipo di
discriminazione». Dismisura di nuovo della forma, per un agire che
viceversa tenta una base «etnica» per la cittadinanza.
Ma è una peculiarità aberrante delle istituzioni slovene, o non
piuttosto un caso concreto esplosivo, quello dei «cancellati», che
rinvia diritto alle ambigue basi della «cittadinanza europea»? In
quella Costituzione che è stata bocciata l'Unione rinculava di fronte
alla stessa prima definizione fondamentale: sancendo che non potevano
dirsi «cittadini europei» tutti coloro che «risiedono» sul
continente, ma solo quelli che già sono riconosciuti tali nei singoli
stati nazionali, o che i singoli stati decidono, a discrezione, nei
modi e nei tempi, di promuovere all'ambito titolo - se si tratta di
donne e uomini venuti da fuori, pur se a milioni vivono e «risiedono»
permanentemente da anni sul loro territorio. Quel fondamento è da
riscrivere.
Clandestini in casa Slovenia
1992, la neonata Repubblica slovena priva decine di migliaia di
persone della cittadinanza. Da allora i «cancellati» vivono come
spettri. Oggi, contro questa «pulizia etnica amministrativa»
ricorrono alla Corte europea dei diritti umani
Roberto Pignoni
Uno spettro vaga per l'Europa: è lo spettro dei «cancellati». Si è
materializzato a Strasburgo, in un corposo fascicolo che giace sul
tavolo della Corte europea dei diritti umani. Milan Makuc e 10 altri
accusano lo Stato sloveno di gravissime violazioni dei loro diritti
fondamentali, in un ricorso presentato da un gruppo di avvocati
coordinato da Anton Giulio Lana e sostenuto da una rete di
associazioni e movimenti sloveni e italiani,come Karaula MiR-
MigrazioniResistenze, Dostje!, Civilna Iniciativa Izbrisanih
Aktivistov. Le vicende dei ricorrenti sono una carrellata di abusi e
violenze, subite ormai da quattordici anni: famiglie divise, neonati
«sequestrati» in ospedale, lavoratori privati di casa e impiego,
ridotti all'indigenza ed esposti a vessazioni continue da parte delle
autorità... E ancora: espulsioni senza mandato, internamento nei Cpt,
malati gravissimi cui è negato l'accesso alle cure mediche...
Il ricorso non si limita a denunciare le conseguenze dell'operazione
che il 26 febbraio 1992 privò decine di migliaia di persone,
residenti in Slovenia, delle basi legali della loro esistenza. Ma
invita a leggerne la prospettiva più ampia, che mette in luce
l'incapacità della società europea di elaborare alcuni nodi
fondamentali, quali il rapporto fra diritti umani e diritti di
cittadinanza, e il principio della «cittadinanza di residenza».
La cittadinanza di residenza, o qualcosa di analogo, era uno dei
cardini dell'organizzazione della Repubblica federativa socialista
jugoslava. Lo status di cittadino era stratificato su tre livelli:
sul piano generale, la cittadinanza jugoslava garantiva, in linea di
principio, tutti i diritti civili e politici. Vi era poi la
cittadinanza di una Repubblica: le persone venivano formalmente
iscritte nel Registro dei cittadini di una delle sei Repubbliche
comprese, fino al '91, nella Jugoslavia. Ma l'istituto era
sconosciuto alla gente comune: i più ignoravano quale fosse la loro
classificazione burocratica di «cittadini di una Repubblica».
Infine, un terzo livello: la «residenza permanente», che si otteneva
in modo pressoché automatico nel luogo di residenza abituale - spesso
diverso da quello in cui si era registrati come cittadini di una
Repubblica -, e rendeva operativi i diritti politici, economici,
sociali (elettorato attivo e passivo, casa, lavoro, istruzione,
assistenza sanitaria...) assicurati, in linea teorica, dalla
cittadinanza jugoslava. Solo attraverso di essa i cittadini jugoslavi
diventavano cittadini nel pieno senso del termine, secondo
un'accezione di cittadinanza funzionale-relazionale e non «etnica».
Il 26 febbraio 1992, con un'operazione segreta, il Ministero degli
Interni della Repubblica slovena ha cancellato dai registri di
residenza permanente tutti i cittadini jugoslavi che, pur essendovi
nati o vivendo in Slovenia da anni, non erano iscritti nel registro
dei cittadini della Repubblica slovena e non avevano richiesto e
ottenuto la nazionalità slovena. La cancellazione ha precipitato
decine di migliaia di abitanti nella condizione di apolidi, o di
«stranieri» senza permesso di soggiorno. Questi «stranieri in
flagrante» (come li ha definiti nel '96 il Ministro degli Interni
Ster) si sono visti privare di ogni diritto: casa, lavoro, assistenza
sanitaria... Molti sono stati rinchiusi nel Cpt di Lubiana, prima di
essere espulsi dal paese.
Si è consumata, in questo modo, un'imponente e silenziosa operazione
di «pulizia etnica amministrativa», che ha avuto l'effetto di creare
il capro espiatorio necessario per canalizzare le ansie di una
popolazione che vedeva gettare alle ortiche, insieme alle istituzioni
jugoslave, un complesso patrimonio di garanzie sociali, divenuto
incompatibile con le esigenze del mercato «europeo».
Migliaia di cancellati furono costretti a emigrare, molti hanno
varcato le frontiere dell'Unione, nella totale indifferenza delle
istituzioni comunitarie che fingevano di non accorgersi
dell'accaduto. Un atteggiamento complice che non è mutato nemmeno
dopo i ripetuti pronunciamenti della Corte costituzionale slovena,
che ha dichiarato illegale la «cancellazione» e ordinato di
riconoscere le ragioni dei cancellati e ripristinare i loro diritti.
La mancata esecuzione delle sentenze della Corte fa della Slovenia un
caso unico in Europa e dimostra che il governo e il parlamento di un
paese dell'Unione possono operare indisturbati per anni, in una
condizione di incostituzionalità conclamata. Una situazione che non
depone certo a favore dello stato di salute della democrazia slovena
- e nemmeno di quella europea, dal momento che la Slovenia assumerà,
fra poco più di un anno, la Presidenza della Ue.
Oggi, la mobilitazione dei «cancellati» spesso si salda alle
manifestazioni sul lato italiano del confine: la loro presenza contro
il Cpt di Gradisca, ha lanciato un segnale forte - anche perché, per
chi è privo di documenti, varcare la frontiera non è esente da rischi.
Con il ricorso alla Corte di Strasburgo, le vittime della
cancellazione si impongono come un soggetto politico capace di
legarsi ai movimenti di altri paesi e di scatenare una limpida
battaglia per ripristinare lo stato di diritto e riconquistare la
«cittadinanza di residenza» illegalmente revocata quattordici anni
fa. E ricordano alla sinistra europea che quello che si è cercato di
esorcizzare in Slovenia nel '92, non era tanto il passato socialista
jugoslavo, quanto l'idea di un'Europa aperta, in grado di adottare
una nozione di cittadinanza depurata da ogni connotazione «etnica».
Vita invisibile di Milan Makuc
«Io, sloveno, da un giorno all'altro mi sono ritrovato straniero
illegale. Pensavo a un misterioso errore....»
Ursula Lipovec
Cebron Qualche giorno fa Milan mi ha detto: «Sem na koncu», sono alla
fine. Voleva dire che non ne può più della vita del barbone, con il
male che gli mangia la faccia e gli ha già portato via il labbro
superiore. Se continua così, morirà. La vita non è stata sempre
questa, per Milan Makuc. Nato poco dopo la seconda guerra mondiale a
Rasa (nell'Istria croata) da genitori sloveni, ricorda un'infanzia
felice. Da ragazzo si è convinto che uno deve conoscere il mondo,
girare, non fermarsi mai. È cresciuto a Pirano, in Slovenia. Dopo le
scuole, ha cominciato a viaggiare. La sera, davanti a un bicchiere di
refosco, parla della Boca, dei porti brasiliani, dei colori
dell'America centrale che si interecciano con le memorie
dell'Australia, e poi l'Africa, soprattutto l'Angola, dove ha visto
la guerra da vicino. Ha fatto altri lavori, sempre in riva al mare,
sulla stretta costa tra Pirano e Portorose. Ventidue anni, durante i
quali pagava diligentemente i contributi, compresa la pensione, e
l'assistenza sanitaria. Nel '92, da un giorno all'altro, si è trovato
«cancellato»: straniero illegale, senza documenti né diritti. «Per
lunghi anni non ho capito cosa mi fosse accaduto. Mi domandavo
perché. Mi sento sloveno, i miei genitori erano sloveni, da 53 anni
vivo in Slovenia. Ho persino votato per l'indipendenza della
Slovenia...» dice Milan con uno sguardo disperato, e tuttavia ancora
fiducioso. Il fatto è che Milan aveva un «difetto»: essere nato a
Rasa, in Croazia, ed essere iscritto all'anagrafe croata. Questo
«dettaglio» era passato inosservato sia a lui, sia ai suoi genitori.
Del resto, commenta, «anche se lo avessimo saputo, non ci avremmo
fatto caso». Ai computer del Ministero degli interni il «dettaglio»
non sfugge. Milan Makuc viene «cancellato» dal registro dei residenti
permanenti e diviene clandestino, in Slovenia. Non appena se ne rende
conto, si reca negli uffici dell'Unità amministrativa. Alcuni
impiegati si rifiutano di rivolgergli la parola, altri rispondono
freddamente. Qualcuno gli suggerisce di «tornare in Croazia». Perso
il lavoro, l'affitto di casa si è fatto insostenibile. Milan sentiva
avvicinarsi il naufragio, non sapeva a chi rivolgersi. Guardava i
vicini con invidia: grazie alla cittadinanza, potevano comprarsi la
casa «sociale» a prezzi di saldo. Nei primi tempi, era certo che
tutto fosse dovuto a un misterioso errore, che sarebbe stato presto
riparato. La vita avrebbe ripreso il suo corso normale. Un pomeriggio
del '94, rientrando, ha trovato la polizia davanti a casa. Le sue
cose erano sparse in mezzo alla strada. A quel punto è crollato. «Ho
vagato per giorni senza meta, senza sapere dove fossi. Ero perso. Ho
cominciato a vivere come un barbone e, come vedi, non ho mai smesso»
sorride amaramente, cercando di sdrammatizzare. Nei luoghi dove
viveva da sempre si vide costretto, sotto lo sguardo di vicini e
conoscenti, a dormire sulle panchine e a frugare nell'immondizia in
cerca di cibo. C'era chi, a volte, gli offriva un tetto, in una
baracca fatiscente o in un garage. Ogni tanto un amico, tra una
partita a carte e l'altra, gli preparava la cena. Milan provava a
spiegare a queste «persone di buon cuore» - come le definisce - che
cosa gli era accaduto. Dai loro sguardi e dall'inquieto agitarsi
delle braccia, si rendeva conto di non venire compreso: «Forse la
cancellazione è troppo complessa per una persona comune. E poi, se
uno capisse, comincerebbe a dubitare della giustizia in generale. Chi
sono io, per aprire questa porta». Milan è malato. L'altro giorno
l'ho accompagnato all'ambulatorio «di strada» di Lubiana. Vi si
rivolgono molti cancellati, privi di assistenza sanitaria. Quando
Milan ha lasciato la stanza, il medico, Aleksander Doplihar, si è
girato verso di me: «Com'è possibile? Lasciare una persona ridursi a
questo punto!». Mi ha consegnato un certificato per l'ospedale, c'era
scritto urgente a grandi lettere. All'ospedale, il corpo di Milan
pareva oggetto d'intenso interesse scientifico. C'era chi lo
osservava con stupore, e chi gli ha chiesto ripetutamente: «Signore,
come ha potuto trascurare così la sua salute?». Milan, pazientemente,
cercava di spiegare la sua situazione a ogni nuovo venuto: per 14
anni, nessun medico aveva voluto visitarlo. L'infermiera che ci
accompagnava alla stanza era certa che i medici avessero preso la
decisione sbagliata. «Lei non è assicurato e le cure saranno costose.
Chi pagherà? Lei o la signorina? Si pentirà di aver insistito tanto.
Quando la direzione saprà che è un cancellato non le daranno i
trattamenti dovuti, si limiteranno all'indispensabile». I sanitari di
Lubiana sono persone di buon cuore, direbbe Milan. Hanno accettato di
ricoverarlo, e fra qualche giorno dovrebbe essere operato. Nel
frattempo, il suo caso è approdato a Strasburgo.
L'operazione
La legge sugli stranieri
Ljubljana, 27-2-1992. Circolare n. 0016/4-14968. (...) È realistico
aspettarci molti problemi con le persone che, in data 28-2-1992,
diventeranno stranieri, e che non hanno richiesto né la residenza
temporanea né quella permanente. Vi avvertiamo che i loro documenti -
benché rilasciati dagli organi responsabili del nostro Stato e
tuttora formalmente validi - non hanno più valore legale, per via del
mutato status di queste persone (...) Allo straniero che arriva nel
nostro territorio in modo illegale e vi risiede senza permesso, si
applica l'art. 28 della Legge sugli stranieri: se si trattiene più a
lungo di quanto previsto dal par. primo dell'art.13, o dal decreto
che concede la residenza temporanea - il funzionario responsabile può
condurlo al confine dello Stato e avviarlo ad attraversare la
frontiera senza alcun decreto dell'Organo amministrativo.
---
il manifesto
30 Luglio 2006
Apolidi per forza. Velimir lo scacchista, e Black
Roberto Pignoni
Solo Ljubica, sua madre, gli tiene testa con gli scacchi. È stata lei
a istillargli la passione e negli anni del liceo Velimir non
conosceva rivali, a Capodistria.
I Dabetic erano saliti dal Montenegro negli anni '60, in cerca di
lavoro. Il porto di Capodistria, cocktail di industrie in una cornice
mediterranea, esercitava un'attrazione irresistibile.
Con i primi guadagni, il padre di Velimir si aggiustò una casetta
sulla collina che domina il golfo. Era il suo rifugio e non aveva
bisogno d'altro. Velimir, dopo il liceo, andò a lavorare in una
fabbrica di Vicenza. Nel complesso, per i Dabetic l'esistenza
scorreva tranquilla.
La crisi arrivò nel '91, con la secessione dalla Jugoslavia. La
«guerra» aveva deluso i nazionalisti sloveni: due sole settimane,
senza spargimento di sangue, troppo poco per alimentare un mito. La
frustrazione si scaricò sul «nemico interno». Un vicino denunciò i
Dabetic alla polizia, accusandoli di nascondere dei «cetnici».
Arrivarono di notte e costrinsero il fratello di Velimir ad andare
sulle ginocchia per 2 chilometri, con una pistola puntata al collo.
Giunti alla casetta dei genitori cominciarono a sparare, distruggendo
la cisterna dell'acqua e varie altre cose. Sfondata la porta, li
incalzavano, tenendoli sotto tiro: «Dove sono i cetnici?». Inutile
dirgli che era una follia: oltretutto, il nonno di Velimir era un
eroe partigiano, nemico mortale dei cetnici. Dopo aver frugato
ovunque, i poliziotti si convinsero di aver preso un granchio e li
lasciarono stare.
L'anno seguente i Dabetic si resero conto di essere stati
«cancellati» e di non esistere più come «cittadini», in Slovenia.
Nemmeno Velimir, nato e cresciuto a Capodistria.
La «cancellazione» è una bomba a tempo. In Italia, Velimir ha potuto
lavorare regolarmente per 12 anni, grazie all'unico documento
rimastgli: il passaporto rosso della Repubblica socialista jugoslava.
Ma quando è scaduto definitivamente, ha perso il permesso di
soggiorno, la casa e l'impiego: il destino di ogni «cancellato».
Senza perdersi d'animo, lo scacchista di Capodistria ha individuato
una delle poche mosse possibili e si è trasformato in artista di
strada. Il cagnolino che lo accompagna, Black, ha 4 anni: la stessa
età del nuovo Velimir, nato dalla «cancellazione» da parte della
Questura di Verona. I due amici si muovono lungo la costa, fiutando
l'odore del mare. Ogni tanto, la polizia li ferma. «Ti mandiamo in
Jugoslavia» gli hanno detto alla Questura di Ancona (un ambiente nel
quale le nozioni geopolitiche sull'altra sponda dell'Adriatico non
paiono aggiornatissime). «Mandatemi in Marocco, forse lì mi vogliono»
ha replicato Velimir, sconsolato.
Tre mesi fa, il questore di Pesaro gli ha ordinato di «lasciare il
territorio dello Stato entro il termine di 5 giorni attraverso la
frontiera di Milano Malpensa»; in caso contrario, «la pena
dell'arresto da sei mesi a un anno». Un'espulsione verso lo spazio
intergalattico: Velimir è apolide, il suo paese natale lo ha
«cancellato», non c'è uno stato disposto ad accoglierlo.
Il 16 giugno lo hanno incarcerato a Mantova, mentre Black veniva
chiuso in un C.P.T. per cani. Processato per direttissima, è stato
assolto e rimesso in libertà. Per la prima volta un tribunale
italiano ha riconosciuto le ragioni di un «cancellato», ma al
Ministero degli Interni questo non basta. Velimir continua a vagare
clandestino per le piazze, insieme a Black, guadagnandosi da vivere
con torce e birilli.
Ogni tanto tira fuori la scacchiera. Si tiene in allenamento.
---
SULLA ASSENZA DI DIRITTI IN SLOVENIA VEDI ANCHE:
Slovenia: a rischio il diritto d'asilo
[Franco Juri] Sarà praticamente impossibile ottenere asilo in
Slovenia, e molto verrà lasciato alla discrezionalità della polizia
di frontiera. In Slovenia si sta andando verso una riforma in senso
del tutto restrittivo della legge sul diritto d'asilo.
Associazionismo ed Alto commissariato per i rifugiati protestano,
l'UE sta zitta
http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/5035/1/51/
23 Luglio 2006
Lubiana, vedi alla voce Europa
di Carla Casalini
«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K., perché, senza che avesse
fatto nulla di male, una mattina venne arrestato...». L'incipit del
Processo sovviene immediato, come le cose trovate senza cercarle, il
mondo kafkiano è già lì, sfondo adeguato alla percezione in parole
dei «cancellati»: le donne e uomini nati o comunque vissuti e
residenti da anni in Slovenia, che senza capire improvvisamente si
sono trovati il vuoto intorno, anzi sono divenuti essi stessi il
«vuoto»,fantasmi, coloro che appaiono ma non sono. Privati
d'improvviso dei diritti e fin dei documenti - di quello statuto
della «cittadinanza» che nel moderno via via diviene indispensabile
conferma dell'essere e dell'essere riconoscibili agli altri - privati
perciò delle «basi legali dell'esistenza».
L'angoscia persecutoria del non sapere perché evocata da Kafka, vive
immediata nelle parole di Milan Makuc, che al trovarsi
improvvisamente straniero in patria, presenza illegale sul territorio
sloveno in cui è vissuto, pensa che la causa deve essere stata un
misteriore errore. Poi la polizia davanti a casa, le sue cose giù in
strada, l'incubo si materializza. E non ci sono neppure le parole per
dirlo, come si fa a spiegare che quelli come lui sono stati
cancellati con un'operazione segreta del ministero degli interni?
Come si fa a tradurre la dismisura formale di quell'atto nella lingua
materna concreta del vivere quotidiano? «Forse la cancellazione è
troppo complessa per una persona comune, e poi, se uno capisse
comincerebbe a dubitare della giustizia...».
Milan e altri «cancellati» chiedono ora se quella giustizia può
esistere alla Corte europea dei diritti umani, ricorrono contro la
Repubblica slovena che pure ha una Costituzione in cui è scritto che
garantisce «la protezione dei diritti umani e delle libertà
fondamentali a tutte le persone che si trovano sul suo territorio,
indipendentemente dalla loro origine nazionale, senza alcun tipo di
discriminazione». Dismisura di nuovo della forma, per un agire che
viceversa tenta una base «etnica» per la cittadinanza.
Ma è una peculiarità aberrante delle istituzioni slovene, o non
piuttosto un caso concreto esplosivo, quello dei «cancellati», che
rinvia diritto alle ambigue basi della «cittadinanza europea»? In
quella Costituzione che è stata bocciata l'Unione rinculava di fronte
alla stessa prima definizione fondamentale: sancendo che non potevano
dirsi «cittadini europei» tutti coloro che «risiedono» sul
continente, ma solo quelli che già sono riconosciuti tali nei singoli
stati nazionali, o che i singoli stati decidono, a discrezione, nei
modi e nei tempi, di promuovere all'ambito titolo - se si tratta di
donne e uomini venuti da fuori, pur se a milioni vivono e «risiedono»
permanentemente da anni sul loro territorio. Quel fondamento è da
riscrivere.
Clandestini in casa Slovenia
1992, la neonata Repubblica slovena priva decine di migliaia di
persone della cittadinanza. Da allora i «cancellati» vivono come
spettri. Oggi, contro questa «pulizia etnica amministrativa»
ricorrono alla Corte europea dei diritti umani
Roberto Pignoni
Uno spettro vaga per l'Europa: è lo spettro dei «cancellati». Si è
materializzato a Strasburgo, in un corposo fascicolo che giace sul
tavolo della Corte europea dei diritti umani. Milan Makuc e 10 altri
accusano lo Stato sloveno di gravissime violazioni dei loro diritti
fondamentali, in un ricorso presentato da un gruppo di avvocati
coordinato da Anton Giulio Lana e sostenuto da una rete di
associazioni e movimenti sloveni e italiani,come Karaula MiR-
MigrazioniResistenze, Dostje!, Civilna Iniciativa Izbrisanih
Aktivistov. Le vicende dei ricorrenti sono una carrellata di abusi e
violenze, subite ormai da quattordici anni: famiglie divise, neonati
«sequestrati» in ospedale, lavoratori privati di casa e impiego,
ridotti all'indigenza ed esposti a vessazioni continue da parte delle
autorità... E ancora: espulsioni senza mandato, internamento nei Cpt,
malati gravissimi cui è negato l'accesso alle cure mediche...
Il ricorso non si limita a denunciare le conseguenze dell'operazione
che il 26 febbraio 1992 privò decine di migliaia di persone,
residenti in Slovenia, delle basi legali della loro esistenza. Ma
invita a leggerne la prospettiva più ampia, che mette in luce
l'incapacità della società europea di elaborare alcuni nodi
fondamentali, quali il rapporto fra diritti umani e diritti di
cittadinanza, e il principio della «cittadinanza di residenza».
La cittadinanza di residenza, o qualcosa di analogo, era uno dei
cardini dell'organizzazione della Repubblica federativa socialista
jugoslava. Lo status di cittadino era stratificato su tre livelli:
sul piano generale, la cittadinanza jugoslava garantiva, in linea di
principio, tutti i diritti civili e politici. Vi era poi la
cittadinanza di una Repubblica: le persone venivano formalmente
iscritte nel Registro dei cittadini di una delle sei Repubbliche
comprese, fino al '91, nella Jugoslavia. Ma l'istituto era
sconosciuto alla gente comune: i più ignoravano quale fosse la loro
classificazione burocratica di «cittadini di una Repubblica».
Infine, un terzo livello: la «residenza permanente», che si otteneva
in modo pressoché automatico nel luogo di residenza abituale - spesso
diverso da quello in cui si era registrati come cittadini di una
Repubblica -, e rendeva operativi i diritti politici, economici,
sociali (elettorato attivo e passivo, casa, lavoro, istruzione,
assistenza sanitaria...) assicurati, in linea teorica, dalla
cittadinanza jugoslava. Solo attraverso di essa i cittadini jugoslavi
diventavano cittadini nel pieno senso del termine, secondo
un'accezione di cittadinanza funzionale-relazionale e non «etnica».
Il 26 febbraio 1992, con un'operazione segreta, il Ministero degli
Interni della Repubblica slovena ha cancellato dai registri di
residenza permanente tutti i cittadini jugoslavi che, pur essendovi
nati o vivendo in Slovenia da anni, non erano iscritti nel registro
dei cittadini della Repubblica slovena e non avevano richiesto e
ottenuto la nazionalità slovena. La cancellazione ha precipitato
decine di migliaia di abitanti nella condizione di apolidi, o di
«stranieri» senza permesso di soggiorno. Questi «stranieri in
flagrante» (come li ha definiti nel '96 il Ministro degli Interni
Ster) si sono visti privare di ogni diritto: casa, lavoro, assistenza
sanitaria... Molti sono stati rinchiusi nel Cpt di Lubiana, prima di
essere espulsi dal paese.
Si è consumata, in questo modo, un'imponente e silenziosa operazione
di «pulizia etnica amministrativa», che ha avuto l'effetto di creare
il capro espiatorio necessario per canalizzare le ansie di una
popolazione che vedeva gettare alle ortiche, insieme alle istituzioni
jugoslave, un complesso patrimonio di garanzie sociali, divenuto
incompatibile con le esigenze del mercato «europeo».
Migliaia di cancellati furono costretti a emigrare, molti hanno
varcato le frontiere dell'Unione, nella totale indifferenza delle
istituzioni comunitarie che fingevano di non accorgersi
dell'accaduto. Un atteggiamento complice che non è mutato nemmeno
dopo i ripetuti pronunciamenti della Corte costituzionale slovena,
che ha dichiarato illegale la «cancellazione» e ordinato di
riconoscere le ragioni dei cancellati e ripristinare i loro diritti.
La mancata esecuzione delle sentenze della Corte fa della Slovenia un
caso unico in Europa e dimostra che il governo e il parlamento di un
paese dell'Unione possono operare indisturbati per anni, in una
condizione di incostituzionalità conclamata. Una situazione che non
depone certo a favore dello stato di salute della democrazia slovena
- e nemmeno di quella europea, dal momento che la Slovenia assumerà,
fra poco più di un anno, la Presidenza della Ue.
Oggi, la mobilitazione dei «cancellati» spesso si salda alle
manifestazioni sul lato italiano del confine: la loro presenza contro
il Cpt di Gradisca, ha lanciato un segnale forte - anche perché, per
chi è privo di documenti, varcare la frontiera non è esente da rischi.
Con il ricorso alla Corte di Strasburgo, le vittime della
cancellazione si impongono come un soggetto politico capace di
legarsi ai movimenti di altri paesi e di scatenare una limpida
battaglia per ripristinare lo stato di diritto e riconquistare la
«cittadinanza di residenza» illegalmente revocata quattordici anni
fa. E ricordano alla sinistra europea che quello che si è cercato di
esorcizzare in Slovenia nel '92, non era tanto il passato socialista
jugoslavo, quanto l'idea di un'Europa aperta, in grado di adottare
una nozione di cittadinanza depurata da ogni connotazione «etnica».
Vita invisibile di Milan Makuc
«Io, sloveno, da un giorno all'altro mi sono ritrovato straniero
illegale. Pensavo a un misterioso errore....»
Ursula Lipovec
Cebron Qualche giorno fa Milan mi ha detto: «Sem na koncu», sono alla
fine. Voleva dire che non ne può più della vita del barbone, con il
male che gli mangia la faccia e gli ha già portato via il labbro
superiore. Se continua così, morirà. La vita non è stata sempre
questa, per Milan Makuc. Nato poco dopo la seconda guerra mondiale a
Rasa (nell'Istria croata) da genitori sloveni, ricorda un'infanzia
felice. Da ragazzo si è convinto che uno deve conoscere il mondo,
girare, non fermarsi mai. È cresciuto a Pirano, in Slovenia. Dopo le
scuole, ha cominciato a viaggiare. La sera, davanti a un bicchiere di
refosco, parla della Boca, dei porti brasiliani, dei colori
dell'America centrale che si interecciano con le memorie
dell'Australia, e poi l'Africa, soprattutto l'Angola, dove ha visto
la guerra da vicino. Ha fatto altri lavori, sempre in riva al mare,
sulla stretta costa tra Pirano e Portorose. Ventidue anni, durante i
quali pagava diligentemente i contributi, compresa la pensione, e
l'assistenza sanitaria. Nel '92, da un giorno all'altro, si è trovato
«cancellato»: straniero illegale, senza documenti né diritti. «Per
lunghi anni non ho capito cosa mi fosse accaduto. Mi domandavo
perché. Mi sento sloveno, i miei genitori erano sloveni, da 53 anni
vivo in Slovenia. Ho persino votato per l'indipendenza della
Slovenia...» dice Milan con uno sguardo disperato, e tuttavia ancora
fiducioso. Il fatto è che Milan aveva un «difetto»: essere nato a
Rasa, in Croazia, ed essere iscritto all'anagrafe croata. Questo
«dettaglio» era passato inosservato sia a lui, sia ai suoi genitori.
Del resto, commenta, «anche se lo avessimo saputo, non ci avremmo
fatto caso». Ai computer del Ministero degli interni il «dettaglio»
non sfugge. Milan Makuc viene «cancellato» dal registro dei residenti
permanenti e diviene clandestino, in Slovenia. Non appena se ne rende
conto, si reca negli uffici dell'Unità amministrativa. Alcuni
impiegati si rifiutano di rivolgergli la parola, altri rispondono
freddamente. Qualcuno gli suggerisce di «tornare in Croazia». Perso
il lavoro, l'affitto di casa si è fatto insostenibile. Milan sentiva
avvicinarsi il naufragio, non sapeva a chi rivolgersi. Guardava i
vicini con invidia: grazie alla cittadinanza, potevano comprarsi la
casa «sociale» a prezzi di saldo. Nei primi tempi, era certo che
tutto fosse dovuto a un misterioso errore, che sarebbe stato presto
riparato. La vita avrebbe ripreso il suo corso normale. Un pomeriggio
del '94, rientrando, ha trovato la polizia davanti a casa. Le sue
cose erano sparse in mezzo alla strada. A quel punto è crollato. «Ho
vagato per giorni senza meta, senza sapere dove fossi. Ero perso. Ho
cominciato a vivere come un barbone e, come vedi, non ho mai smesso»
sorride amaramente, cercando di sdrammatizzare. Nei luoghi dove
viveva da sempre si vide costretto, sotto lo sguardo di vicini e
conoscenti, a dormire sulle panchine e a frugare nell'immondizia in
cerca di cibo. C'era chi, a volte, gli offriva un tetto, in una
baracca fatiscente o in un garage. Ogni tanto un amico, tra una
partita a carte e l'altra, gli preparava la cena. Milan provava a
spiegare a queste «persone di buon cuore» - come le definisce - che
cosa gli era accaduto. Dai loro sguardi e dall'inquieto agitarsi
delle braccia, si rendeva conto di non venire compreso: «Forse la
cancellazione è troppo complessa per una persona comune. E poi, se
uno capisse, comincerebbe a dubitare della giustizia in generale. Chi
sono io, per aprire questa porta». Milan è malato. L'altro giorno
l'ho accompagnato all'ambulatorio «di strada» di Lubiana. Vi si
rivolgono molti cancellati, privi di assistenza sanitaria. Quando
Milan ha lasciato la stanza, il medico, Aleksander Doplihar, si è
girato verso di me: «Com'è possibile? Lasciare una persona ridursi a
questo punto!». Mi ha consegnato un certificato per l'ospedale, c'era
scritto urgente a grandi lettere. All'ospedale, il corpo di Milan
pareva oggetto d'intenso interesse scientifico. C'era chi lo
osservava con stupore, e chi gli ha chiesto ripetutamente: «Signore,
come ha potuto trascurare così la sua salute?». Milan, pazientemente,
cercava di spiegare la sua situazione a ogni nuovo venuto: per 14
anni, nessun medico aveva voluto visitarlo. L'infermiera che ci
accompagnava alla stanza era certa che i medici avessero preso la
decisione sbagliata. «Lei non è assicurato e le cure saranno costose.
Chi pagherà? Lei o la signorina? Si pentirà di aver insistito tanto.
Quando la direzione saprà che è un cancellato non le daranno i
trattamenti dovuti, si limiteranno all'indispensabile». I sanitari di
Lubiana sono persone di buon cuore, direbbe Milan. Hanno accettato di
ricoverarlo, e fra qualche giorno dovrebbe essere operato. Nel
frattempo, il suo caso è approdato a Strasburgo.
L'operazione
La legge sugli stranieri
Ljubljana, 27-2-1992. Circolare n. 0016/4-14968. (...) È realistico
aspettarci molti problemi con le persone che, in data 28-2-1992,
diventeranno stranieri, e che non hanno richiesto né la residenza
temporanea né quella permanente. Vi avvertiamo che i loro documenti -
benché rilasciati dagli organi responsabili del nostro Stato e
tuttora formalmente validi - non hanno più valore legale, per via del
mutato status di queste persone (...) Allo straniero che arriva nel
nostro territorio in modo illegale e vi risiede senza permesso, si
applica l'art. 28 della Legge sugli stranieri: se si trattiene più a
lungo di quanto previsto dal par. primo dell'art.13, o dal decreto
che concede la residenza temporanea - il funzionario responsabile può
condurlo al confine dello Stato e avviarlo ad attraversare la
frontiera senza alcun decreto dell'Organo amministrativo.
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il manifesto
30 Luglio 2006
Apolidi per forza. Velimir lo scacchista, e Black
Roberto Pignoni
Solo Ljubica, sua madre, gli tiene testa con gli scacchi. È stata lei
a istillargli la passione e negli anni del liceo Velimir non
conosceva rivali, a Capodistria.
I Dabetic erano saliti dal Montenegro negli anni '60, in cerca di
lavoro. Il porto di Capodistria, cocktail di industrie in una cornice
mediterranea, esercitava un'attrazione irresistibile.
Con i primi guadagni, il padre di Velimir si aggiustò una casetta
sulla collina che domina il golfo. Era il suo rifugio e non aveva
bisogno d'altro. Velimir, dopo il liceo, andò a lavorare in una
fabbrica di Vicenza. Nel complesso, per i Dabetic l'esistenza
scorreva tranquilla.
La crisi arrivò nel '91, con la secessione dalla Jugoslavia. La
«guerra» aveva deluso i nazionalisti sloveni: due sole settimane,
senza spargimento di sangue, troppo poco per alimentare un mito. La
frustrazione si scaricò sul «nemico interno». Un vicino denunciò i
Dabetic alla polizia, accusandoli di nascondere dei «cetnici».
Arrivarono di notte e costrinsero il fratello di Velimir ad andare
sulle ginocchia per 2 chilometri, con una pistola puntata al collo.
Giunti alla casetta dei genitori cominciarono a sparare, distruggendo
la cisterna dell'acqua e varie altre cose. Sfondata la porta, li
incalzavano, tenendoli sotto tiro: «Dove sono i cetnici?». Inutile
dirgli che era una follia: oltretutto, il nonno di Velimir era un
eroe partigiano, nemico mortale dei cetnici. Dopo aver frugato
ovunque, i poliziotti si convinsero di aver preso un granchio e li
lasciarono stare.
L'anno seguente i Dabetic si resero conto di essere stati
«cancellati» e di non esistere più come «cittadini», in Slovenia.
Nemmeno Velimir, nato e cresciuto a Capodistria.
La «cancellazione» è una bomba a tempo. In Italia, Velimir ha potuto
lavorare regolarmente per 12 anni, grazie all'unico documento
rimastgli: il passaporto rosso della Repubblica socialista jugoslava.
Ma quando è scaduto definitivamente, ha perso il permesso di
soggiorno, la casa e l'impiego: il destino di ogni «cancellato».
Senza perdersi d'animo, lo scacchista di Capodistria ha individuato
una delle poche mosse possibili e si è trasformato in artista di
strada. Il cagnolino che lo accompagna, Black, ha 4 anni: la stessa
età del nuovo Velimir, nato dalla «cancellazione» da parte della
Questura di Verona. I due amici si muovono lungo la costa, fiutando
l'odore del mare. Ogni tanto, la polizia li ferma. «Ti mandiamo in
Jugoslavia» gli hanno detto alla Questura di Ancona (un ambiente nel
quale le nozioni geopolitiche sull'altra sponda dell'Adriatico non
paiono aggiornatissime). «Mandatemi in Marocco, forse lì mi vogliono»
ha replicato Velimir, sconsolato.
Tre mesi fa, il questore di Pesaro gli ha ordinato di «lasciare il
territorio dello Stato entro il termine di 5 giorni attraverso la
frontiera di Milano Malpensa»; in caso contrario, «la pena
dell'arresto da sei mesi a un anno». Un'espulsione verso lo spazio
intergalattico: Velimir è apolide, il suo paese natale lo ha
«cancellato», non c'è uno stato disposto ad accoglierlo.
Il 16 giugno lo hanno incarcerato a Mantova, mentre Black veniva
chiuso in un C.P.T. per cani. Processato per direttissima, è stato
assolto e rimesso in libertà. Per la prima volta un tribunale
italiano ha riconosciuto le ragioni di un «cancellato», ma al
Ministero degli Interni questo non basta. Velimir continua a vagare
clandestino per le piazze, insieme a Black, guadagnandosi da vivere
con torce e birilli.
Ogni tanto tira fuori la scacchiera. Si tiene in allenamento.
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SULLA ASSENZA DI DIRITTI IN SLOVENIA VEDI ANCHE:
Slovenia: a rischio il diritto d'asilo
[Franco Juri] Sarà praticamente impossibile ottenere asilo in
Slovenia, e molto verrà lasciato alla discrezionalità della polizia
di frontiera. In Slovenia si sta andando verso una riforma in senso
del tutto restrittivo della legge sul diritto d'asilo.
Associazionismo ed Alto commissariato per i rifugiati protestano,
l'UE sta zitta
http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/5035/1/51/