http://www.repubblica.it/2006/11/sezioni/economia/conti-pubblici-29/
spesa-militare/spesa-militare.html
Per Esercito, Marina e Aeronautica sono previsti 12 miliardi e 437
milioni. Lettera a Prodi di sedici senatori
Sorpresa tra la selva dei tagli: le spese militari si impennano
Il governo dell'Unione investe in armamenti più della Cdl
di CARLO BONINI
DICONO i numeri che in una Finanziaria che a tutti toglie, c'è una
voce di spesa che sale. Quella militare. Cinque punti percentuali in
più rispetto all'ultima legge di bilancio licenziata dal governo di
centrodestra. 12 miliardi 437 milioni di euro per Esercito, Marina,
Aeronautica. se è vero che il 72 per cento di questa somma andrà a
coprire i "costi del personale" e dunque la spesa corrente per i
salari e il mantenimento dei 193 mila uomini delle nostre forze
armate (sono esclusi i costi delle missioni all'estero, per le quali
è prevista un'ulteriore voce di spesa di 1 miliardo di euro).
E' altrettanto vero che, spalmati nel prossimo triennio, altri 4
miliardi e rotti di euro andranno a finanziare un "Fondo per il
sostegno dell'industria nazionale ad alto contenuto tecnologico".
Dove per alto contenuto tecnologico, si deve leggere "ricerca
militare" e per "industria nazionale" Finmeccanica, azienda per un
terzo di proprietà dello Stato, con un core business che, concentrato
nel settore degli armamenti, è spinto e alimentato da un mercato
domestico in cui opera in regime di sostanziale monopolio.
Nel suo ufficio di Corso Trieste, a Roma, Gianni Alioti, sindacalista
della Fim-Cisl, consumato osservatore dell'industria militare
italiana ed europea, sorride: "Nel paradosso di un governo di
sinistra che investe in armamenti più di quanto non abbia fatto negli
ultimi due anni il governo di destra, mi sembra di intravedere una
forma di tardo keynesismo militare. Per altro non sostenuto dai
fatti. Dire che aumentare gli investimenti in armamenti significa
sostenere contemporaneamente i livelli di occupazione e la ricerca
tecnologica significa dimenticare la lezione di Federico Caffè, che
definiva questo tipo di scelta "liberismo spurio"".
Un dato. Tra il 2000 e il 2005, Finmeccanica ha raddoppiato il
proprio fatturato (da 6,7 a 11,4 miliardi di euro). Nello stesso
periodo, gli occupati sono passati da 41 mila a 56 mila. "Non esiste
alcun andamento proporzionale o quantomeno convergente tra crescita
dei ricavi e aumento dell'occupazione - osserva Alioti - Esiste, al
contrario, una verità comune all'intero mercato europeo e mondiale.
L'industria della Difesa è tale che, inevitabilmente, lo sviluppo
della tecnologia impone una riduzione della manodopera. Guardiamo
quel che è accaduto a La Spezia, un distretto industriale
storicamente dipendente dall'industria militare. In quindici anni,
gli occupati nell'industria degli armamenti sono passati dal 40 al 19
per cento della forza lavoro totale".
Sedici senatori dell'Unione hanno scritto una lettera a Prodi. Si
legge: "Caro Presidente, l'Italia è al settimo posto nel mondo come
spesa militare con ingiustificati acquisti di armamenti come la
portaerei Cavour (quasi 1 miliardo di euro, sistema d'arma esclusi),
dieci nuove fregate (3,5 miliardi di euro), 121 caccia eurofighter
(oltre 6,5 miliardi di euro). Da soli rappresentano l'1 per cento del
nostro Pil. Ti ricordiamo che nel programma di governo dell'Unione,
ci sono tre riferimenti alla necessità di politiche di disarmo
(pagine 90, 91, 109)". Qui, evidentemente, il "keynesismo militare"
non c'entra. Ma qui, la discussione politica interna al governo
appare questione accantonata.
Giovanni Lorenzo Forcieri, 57 anni, diessino di La Spezia, senatore
nelle ultime quattro legislature, è arrivato sei mesi fa a "Palazzo
Marina" come sottosegretario alla Difesa. Dice: "Con questa
Finanziaria non facciamo altro che riportare la spesa militare al
livello del 2004. Prima cioè che il governo di centrodestra tagliasse
di fatto la spesa militare di 2 miliardi e mezzo di euro. Per altro,
a fronte degli investimenti che abbiamo previsto e che servono né più
e ne meno che a coprire impegni di spesa già assunti negli ultimi
anni e dunque ad onorare dei debiti già contratti, la Difesa cederà
al demanio beni per circa 4 miliardi di euro nei prossimi due anni.
Come si vede, dunque, il saldo tra entrate e uscite è in equilibrio.
Con il vantaggio di smobilizzare risorse necessarie a portare avanti
un programma di ammodernamento delle nostre forze armate. E' evidente
infatti che non stiamo parlando soltanto di numeri. Se vogliamo che
l'Italia possa efficacemente svolgere il ruolo internazionale che si
è conquistata in questi anni, non possiamo rinunciare a investire su
una forza armata efficiente e moderna".
L'argomento di Forcieri riproduce come un calco recenti
considerazioni di Pierfrancesco Guarguaglini, amministratore delegato
di Finmeccanica: "Se un governo, indipendentemente dal proprio
orientamento, vuole portare avanti una politica internazionale di un
certo livello, ha bisogno di una componente della Difesa efficiente.
E nel passato erano stati fatti tagli notevoli".
Se il problema non è "se" o "quanto" investire in spesa militare,
resta allora il "come". La qualità delle commesse e la loro urgenza.
Allo Stato Maggiore della Difesa non ne parlano volentieri. Frugando
nella foresta di sigle e numeri che battezza pezzi di artiglieria,
autoblindo, caccia, navi, se ne comprende il perché. Si scopre, ad
esempio, che, nel maggio 2006, la Direzione Generale per gli
Armamenti Terrestri del ministero ha chiuso con la Oto Melara
(Finmeccanica) un accordo di congruità di 310 milioni di euro per la
fornitura di 49 veicoli blindati su ruota ("Vbc", la sigla tecnica.
"Freccia" quella da combattimento) le cui torrette dovranno essere
allestite per sistemi di lancio di missili anticarro di nuova
generazione. Missili "Spike", di fabbricazione israeliana. L'arnese -
spiegano gli addetti - è un costosissimo gioiello tecnologico. Di
tipo "intelligente", "spara e dimentica".
Centomila dollari il pezzo, cinque volte il costo del suo omologo di
fabbricazione americana, il "Tow". Missile attualmente in dotazione
alle forze Nato e al nostro esercito, che ne ha pieni gli arsenali.
Raccontano a palazzo Baracchini che le pressioni dell'Esercito
sull'ex ministro Martino per ottenere questa "meraviglia" della
tecnica considerata troppo costosa persino dall'esercito americano
siano state robuste. Ma ammettono anche che il giochino costerà una
tombola.
Per ovvie economie di scala (costi di manutenzione e pezzi di
ricambio), i 49 veicoli blindati su ruota "Freccia" erano stati
concepiti dalla "Oto Melara" per essere perfettamente fungibili con i
loro "gemelli" cingolati, i "Dardo". Stessi abitacoli, stessa
strumentazione, stesse torrette. Stessi missili anticarro: i "tow".
Con la scelta del missile "spike", addio risparmi. Fabio Mini, ex
comandante della forza Nato in Kosovo, osserva: "Non riesco a capire
che senso abbia dotare di armi anticarro diverse mezzi cingolati e su
ruota, che dovrebbero integrarsi sul campo di battaglia. Così come
non capisco che senso abbia dotare di una tecnologia più avanzata
anticarro un mezzo su ruota che, a rigore di logica, non dovrebbe
affrontare in campo aperto mezzi corazzati". Alla "Oto Melara"
concordano. Ma alla "Oto Melara" sanno anche quel che accadrà.
Completata la fornitura dei "Freccia", i "Dardo", le cui consegne
sono state appena ultimate, torneranno nei cantieri per modificare le
loro torrette di lancio. I soldi non saranno un problema.
Come i 650 milioni di euro già impegnati a bilancio per consegnare ai
nostri Stati maggiori, di qui ai prossimi anni, 72 obici semoventi
fabbricati in Germania e assemblati da "Oto Melara" (Pzh, la sigla
tecnica) con cui difendere le nostre frontiere. Cosa debba farsene il
nostro esercito di un numero così consistente di pezzi di artiglieria
immaginati per conflitti di posizione, per scenari di difesa o offesa
lungo linee di fronte profonde un centinaio di chilometri (questo il
raggio di azione dell'obice), Dio solo lo sa. Meglio, solo l'Esercito
lo sa. Ma - sebbene sollecitato - lo Stato maggiore non ha ritenuto
di dover fornire risposte.
Risposte che invece, prima o poi, la Difesa e il governo saranno
costretti a dare sulla nostra partecipazione al più faraonico dei
progetti che la storia dell'aeronautica civile e militare abbia mai
conosciuto. Un'avventura dall'acronimo inglese, Jsf, "Joint Strike
Fighter", consorzio a guida statunitense per la costruzione del
cacciabombardiere del futuro (le consegne del nuovo aereo, battezzato
"F35-lightning II", dovrebbero cominciare nel 2012). La
partecipazione italiana al progetto (che ha quali ulteriori partner
Inghilterra, Canada, Danimarca, Norvegia, Olanda, Australia e
Turchia) fu una scelta del governo di centrosinistra (1998, premier
D'Alema). Berlusconi, nei suoi cinque anni a Palazzo Chigi, ne decise
i termini economici, fissando la quota del nostro investimento per la
sola "fase di sviluppo" in 1 miliardo 359 milioni di euro.
Cifra a cui l'Italia dovrà ora sommare altri 11 miliardi di dollari
per l'acquisto dei 131 caccia già ordinati da Aeronautica e Marina.
Anche perché la nostra Difesa non ha scommesso e acquistato soltanto
nel consorzio a guida americana, ma ha investito e comprato anche nel
progetto concorrente europeo, "l'Eurofighter Typhoon" (dove l'Italia
è partner di Gran Bretagna, Germania e Spagna). Ce ne verranno altri
121 caccia. Più o meno 7 miliardi di euro.
Ce n'è abbastanza per chiedersi se a decidere della qualità e
dell'entità della nostra spesa militare siano i ministri e il
parlamento. O non invece gli stati maggiori. O, ancora, se a portare
per mano gli uni e gli altri non sia l'industria degli armamenti. Per
dirla con le parole di un addetto del settore, "se in Italia il vero
ministro della difesa sia Parisi o non l'amministratore delegato di
Finmeccanica Guarguaglini". Un fatto è certo. Negli anni, i capi di
Stato maggiore delle nostre tre forze armate hanno tolto l'uniforme
per entrare senza soluzione di continuità nel top management delle
società di Finmeccanica. Una legge dello Stato lo vieterebbe.
Aggirarla è diventata una prassi. E' successo con il generale Mario
Arpino (da capo di stato maggiore della Difesa alla "Vitrociset"),
con l'ammiraglio Guido Venturoni (da capo di stato maggiore della
Difesa alla "Marconi"), con il generale Giulio Fraticelli (da capo di
stato maggiore dell'Esercito alla "Oto Melara"), con il generale
Sandro Ferracuti (da capo di stato maggiore dell'Aeronautica alla
Ams). Gli impegni di spesa con Finmeccanica che questa e le prossime
finanziarie andranno ad onorare portano anche le loro firme. Da
generali, naturalmente.
(14 novembre 2006)
spesa-militare/spesa-militare.html
Per Esercito, Marina e Aeronautica sono previsti 12 miliardi e 437
milioni. Lettera a Prodi di sedici senatori
Sorpresa tra la selva dei tagli: le spese militari si impennano
Il governo dell'Unione investe in armamenti più della Cdl
di CARLO BONINI
DICONO i numeri che in una Finanziaria che a tutti toglie, c'è una
voce di spesa che sale. Quella militare. Cinque punti percentuali in
più rispetto all'ultima legge di bilancio licenziata dal governo di
centrodestra. 12 miliardi 437 milioni di euro per Esercito, Marina,
Aeronautica. se è vero che il 72 per cento di questa somma andrà a
coprire i "costi del personale" e dunque la spesa corrente per i
salari e il mantenimento dei 193 mila uomini delle nostre forze
armate (sono esclusi i costi delle missioni all'estero, per le quali
è prevista un'ulteriore voce di spesa di 1 miliardo di euro).
E' altrettanto vero che, spalmati nel prossimo triennio, altri 4
miliardi e rotti di euro andranno a finanziare un "Fondo per il
sostegno dell'industria nazionale ad alto contenuto tecnologico".
Dove per alto contenuto tecnologico, si deve leggere "ricerca
militare" e per "industria nazionale" Finmeccanica, azienda per un
terzo di proprietà dello Stato, con un core business che, concentrato
nel settore degli armamenti, è spinto e alimentato da un mercato
domestico in cui opera in regime di sostanziale monopolio.
Nel suo ufficio di Corso Trieste, a Roma, Gianni Alioti, sindacalista
della Fim-Cisl, consumato osservatore dell'industria militare
italiana ed europea, sorride: "Nel paradosso di un governo di
sinistra che investe in armamenti più di quanto non abbia fatto negli
ultimi due anni il governo di destra, mi sembra di intravedere una
forma di tardo keynesismo militare. Per altro non sostenuto dai
fatti. Dire che aumentare gli investimenti in armamenti significa
sostenere contemporaneamente i livelli di occupazione e la ricerca
tecnologica significa dimenticare la lezione di Federico Caffè, che
definiva questo tipo di scelta "liberismo spurio"".
Un dato. Tra il 2000 e il 2005, Finmeccanica ha raddoppiato il
proprio fatturato (da 6,7 a 11,4 miliardi di euro). Nello stesso
periodo, gli occupati sono passati da 41 mila a 56 mila. "Non esiste
alcun andamento proporzionale o quantomeno convergente tra crescita
dei ricavi e aumento dell'occupazione - osserva Alioti - Esiste, al
contrario, una verità comune all'intero mercato europeo e mondiale.
L'industria della Difesa è tale che, inevitabilmente, lo sviluppo
della tecnologia impone una riduzione della manodopera. Guardiamo
quel che è accaduto a La Spezia, un distretto industriale
storicamente dipendente dall'industria militare. In quindici anni,
gli occupati nell'industria degli armamenti sono passati dal 40 al 19
per cento della forza lavoro totale".
Sedici senatori dell'Unione hanno scritto una lettera a Prodi. Si
legge: "Caro Presidente, l'Italia è al settimo posto nel mondo come
spesa militare con ingiustificati acquisti di armamenti come la
portaerei Cavour (quasi 1 miliardo di euro, sistema d'arma esclusi),
dieci nuove fregate (3,5 miliardi di euro), 121 caccia eurofighter
(oltre 6,5 miliardi di euro). Da soli rappresentano l'1 per cento del
nostro Pil. Ti ricordiamo che nel programma di governo dell'Unione,
ci sono tre riferimenti alla necessità di politiche di disarmo
(pagine 90, 91, 109)". Qui, evidentemente, il "keynesismo militare"
non c'entra. Ma qui, la discussione politica interna al governo
appare questione accantonata.
Giovanni Lorenzo Forcieri, 57 anni, diessino di La Spezia, senatore
nelle ultime quattro legislature, è arrivato sei mesi fa a "Palazzo
Marina" come sottosegretario alla Difesa. Dice: "Con questa
Finanziaria non facciamo altro che riportare la spesa militare al
livello del 2004. Prima cioè che il governo di centrodestra tagliasse
di fatto la spesa militare di 2 miliardi e mezzo di euro. Per altro,
a fronte degli investimenti che abbiamo previsto e che servono né più
e ne meno che a coprire impegni di spesa già assunti negli ultimi
anni e dunque ad onorare dei debiti già contratti, la Difesa cederà
al demanio beni per circa 4 miliardi di euro nei prossimi due anni.
Come si vede, dunque, il saldo tra entrate e uscite è in equilibrio.
Con il vantaggio di smobilizzare risorse necessarie a portare avanti
un programma di ammodernamento delle nostre forze armate. E' evidente
infatti che non stiamo parlando soltanto di numeri. Se vogliamo che
l'Italia possa efficacemente svolgere il ruolo internazionale che si
è conquistata in questi anni, non possiamo rinunciare a investire su
una forza armata efficiente e moderna".
L'argomento di Forcieri riproduce come un calco recenti
considerazioni di Pierfrancesco Guarguaglini, amministratore delegato
di Finmeccanica: "Se un governo, indipendentemente dal proprio
orientamento, vuole portare avanti una politica internazionale di un
certo livello, ha bisogno di una componente della Difesa efficiente.
E nel passato erano stati fatti tagli notevoli".
Se il problema non è "se" o "quanto" investire in spesa militare,
resta allora il "come". La qualità delle commesse e la loro urgenza.
Allo Stato Maggiore della Difesa non ne parlano volentieri. Frugando
nella foresta di sigle e numeri che battezza pezzi di artiglieria,
autoblindo, caccia, navi, se ne comprende il perché. Si scopre, ad
esempio, che, nel maggio 2006, la Direzione Generale per gli
Armamenti Terrestri del ministero ha chiuso con la Oto Melara
(Finmeccanica) un accordo di congruità di 310 milioni di euro per la
fornitura di 49 veicoli blindati su ruota ("Vbc", la sigla tecnica.
"Freccia" quella da combattimento) le cui torrette dovranno essere
allestite per sistemi di lancio di missili anticarro di nuova
generazione. Missili "Spike", di fabbricazione israeliana. L'arnese -
spiegano gli addetti - è un costosissimo gioiello tecnologico. Di
tipo "intelligente", "spara e dimentica".
Centomila dollari il pezzo, cinque volte il costo del suo omologo di
fabbricazione americana, il "Tow". Missile attualmente in dotazione
alle forze Nato e al nostro esercito, che ne ha pieni gli arsenali.
Raccontano a palazzo Baracchini che le pressioni dell'Esercito
sull'ex ministro Martino per ottenere questa "meraviglia" della
tecnica considerata troppo costosa persino dall'esercito americano
siano state robuste. Ma ammettono anche che il giochino costerà una
tombola.
Per ovvie economie di scala (costi di manutenzione e pezzi di
ricambio), i 49 veicoli blindati su ruota "Freccia" erano stati
concepiti dalla "Oto Melara" per essere perfettamente fungibili con i
loro "gemelli" cingolati, i "Dardo". Stessi abitacoli, stessa
strumentazione, stesse torrette. Stessi missili anticarro: i "tow".
Con la scelta del missile "spike", addio risparmi. Fabio Mini, ex
comandante della forza Nato in Kosovo, osserva: "Non riesco a capire
che senso abbia dotare di armi anticarro diverse mezzi cingolati e su
ruota, che dovrebbero integrarsi sul campo di battaglia. Così come
non capisco che senso abbia dotare di una tecnologia più avanzata
anticarro un mezzo su ruota che, a rigore di logica, non dovrebbe
affrontare in campo aperto mezzi corazzati". Alla "Oto Melara"
concordano. Ma alla "Oto Melara" sanno anche quel che accadrà.
Completata la fornitura dei "Freccia", i "Dardo", le cui consegne
sono state appena ultimate, torneranno nei cantieri per modificare le
loro torrette di lancio. I soldi non saranno un problema.
Come i 650 milioni di euro già impegnati a bilancio per consegnare ai
nostri Stati maggiori, di qui ai prossimi anni, 72 obici semoventi
fabbricati in Germania e assemblati da "Oto Melara" (Pzh, la sigla
tecnica) con cui difendere le nostre frontiere. Cosa debba farsene il
nostro esercito di un numero così consistente di pezzi di artiglieria
immaginati per conflitti di posizione, per scenari di difesa o offesa
lungo linee di fronte profonde un centinaio di chilometri (questo il
raggio di azione dell'obice), Dio solo lo sa. Meglio, solo l'Esercito
lo sa. Ma - sebbene sollecitato - lo Stato maggiore non ha ritenuto
di dover fornire risposte.
Risposte che invece, prima o poi, la Difesa e il governo saranno
costretti a dare sulla nostra partecipazione al più faraonico dei
progetti che la storia dell'aeronautica civile e militare abbia mai
conosciuto. Un'avventura dall'acronimo inglese, Jsf, "Joint Strike
Fighter", consorzio a guida statunitense per la costruzione del
cacciabombardiere del futuro (le consegne del nuovo aereo, battezzato
"F35-lightning II", dovrebbero cominciare nel 2012). La
partecipazione italiana al progetto (che ha quali ulteriori partner
Inghilterra, Canada, Danimarca, Norvegia, Olanda, Australia e
Turchia) fu una scelta del governo di centrosinistra (1998, premier
D'Alema). Berlusconi, nei suoi cinque anni a Palazzo Chigi, ne decise
i termini economici, fissando la quota del nostro investimento per la
sola "fase di sviluppo" in 1 miliardo 359 milioni di euro.
Cifra a cui l'Italia dovrà ora sommare altri 11 miliardi di dollari
per l'acquisto dei 131 caccia già ordinati da Aeronautica e Marina.
Anche perché la nostra Difesa non ha scommesso e acquistato soltanto
nel consorzio a guida americana, ma ha investito e comprato anche nel
progetto concorrente europeo, "l'Eurofighter Typhoon" (dove l'Italia
è partner di Gran Bretagna, Germania e Spagna). Ce ne verranno altri
121 caccia. Più o meno 7 miliardi di euro.
Ce n'è abbastanza per chiedersi se a decidere della qualità e
dell'entità della nostra spesa militare siano i ministri e il
parlamento. O non invece gli stati maggiori. O, ancora, se a portare
per mano gli uni e gli altri non sia l'industria degli armamenti. Per
dirla con le parole di un addetto del settore, "se in Italia il vero
ministro della difesa sia Parisi o non l'amministratore delegato di
Finmeccanica Guarguaglini". Un fatto è certo. Negli anni, i capi di
Stato maggiore delle nostre tre forze armate hanno tolto l'uniforme
per entrare senza soluzione di continuità nel top management delle
società di Finmeccanica. Una legge dello Stato lo vieterebbe.
Aggirarla è diventata una prassi. E' successo con il generale Mario
Arpino (da capo di stato maggiore della Difesa alla "Vitrociset"),
con l'ammiraglio Guido Venturoni (da capo di stato maggiore della
Difesa alla "Marconi"), con il generale Giulio Fraticelli (da capo di
stato maggiore dell'Esercito alla "Oto Melara"), con il generale
Sandro Ferracuti (da capo di stato maggiore dell'Aeronautica alla
Ams). Gli impegni di spesa con Finmeccanica che questa e le prossime
finanziarie andranno ad onorare portano anche le loro firme. Da
generali, naturalmente.
(14 novembre 2006)