Ancora sul '56 ungherese
1) INFILTRATI DELLA CIA A BUDAPEST DURANTE LA RIVOLTA
2) Il PCI e il 1956. Dal XX Congresso ai fatti d’Ungheria.
Un’antologia di scritti e documenti a cura di Alexander Höbel
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UNGHERIA: INFILTRATI DELLA CIA A BUDAPEST DURANTE LA RIVOLTA
DECLASSIFICATI DOCUMENTI DELL'INTELLIGENCE USA SUI FATTI DEL '56
Washington, 5 nov. - (Adnkronos) - Nella Budapest dell'invasione sovietica del '56, i servizi segreti americani riuscirono ad infiltrare piccoli gruppi paramilitari e unita' di guerra psicologica. Si trattava di emigrati che erano riusciti ad entrare nel paese del Patto di Varsavia gia' nei primi anni cinquanta, denominati 'Red Sox' o 'Red Cap' o ancora 'Volunteer Freedom Corps'. Anche se ufficialmente l'Agenzia non ne ha mai confermato l'esistenza, da alcuni documenti appena declassificati in occasione del cinquantenario dei fatti d'Ungheria emerge che questi gruppi riuscirono a portare a termine diverse operazioni e fornire preziose informazioni al quartier generale oltreoceano, in piena Guerra Fredda. La penetrazione della Cia al di la' della cortina di ferro colpì particolarmente i sovietici. Tanto da far sentenziare il 28 ottobre 1956 al generale Klement Voroshilov durante la sessione del Presidio:''i servizi segreti americani sono piu' attivi in Ungheria dei compagni Suslov e Mikoyan''. Tuttavia, sempre secondo i file declassificati dalll'intelligence USA sulla rivolta ungherese, l'Agenzia nata nel 1947 dalle ceneri dell'Office Strategic Service (Oss), non potè contare che su un solo ufficiale di collegamento a Budapest: Geza Katona, che ha permesso allo storico Charles Gati, professore della John Hopkins University, di rivelare il suo nome nel libro appena pubblicato dal titolo 'Failed illusions: Moscow, Washington, Budapest and the 1956 Hungarian Revolt'.
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Subject: PCI e 1956
Date: November 15, 2006 12:57:09 PM GMT+01:00
da qualche giorno è uscito, edito dalla casa editrice "La Città del Sole" nella collana "Archivio storico del movimento operaio", un libretto che ho curato dal titolo "Il PCI e il 1956. Scritti e documenti dal XX Congresso del PCUS ai fatti d'Ungheria". Si tratta di una raccolta di testi dell'epoca - prevalentemente di Togliatti, ma non solo - sui principali nodi politici che emersero in quell'anno. Al di là dei giudizi che se ne possono dare e delle diverse posizioni che possono esservi in ambito comunista oggi su quei fatti, mi sembra si tratti di una documentazione interessante, utile da conoscersi o da rileggersi, in quanto può: 1) aiutarci a respingere l'offensiva avversaria sul '56 e non solo, restituendo le motivazioni e la complessità delle posizioni espresse allora; 2) contribuire a rilanciare il dibattito dei comunisti oggi sulle questioni che si posero in quei mesi (storia dell'URSS e degli anni di direzione staliniana, ruolo dell'URSS negli anni della Guerra fredda, decolonizzazione, rapporti tra partiti comunisti, "vie nazionali" ecc.), andando al di là delle banalizzazioni di temi così complessi emerse in ambito politico negli scorsi mesi e anni.
Vi allego pertanto indice e premessa del volume (frutto di un lavoro di mediazione tra le diverse posizioni presenti nell'Archivio storico del mov. op.), sperando che possano essere di qualche interesse. In particolare, se vi fossero compagni o strutture interessati ad acquistare un po' di copie (il costo è di 10 euro, le pagine poco più di 200), possono rivolgersi alla casa editrice (info@...). Se invece ci fosse l'intenzione di presentazioni o dibattiti che prendano spunto dal libro, possiamo sentirci direttamente per e-mail.
Fraterni saluti,
Alessandro Höbel
Il PCI e il 1956
Dal XX Congresso ai fatti d’Ungheria.
Un’antologia di scritti e documenti
a cura di Alexander Höbel
Indice
- Premessa
- Introduzione
1.P. Togliatti, Il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, rapporto alla sessione del CC del PCI del 13-14 marzo 1956
2.P. Togliatti, Conclusioni al Consiglio nazionale del PCI, 5 aprile 1956
3.P. Togliatti, Risposte a “Nove domande sullo stalinismo” (Intervista a “Nuovi Argomenti”), maggio-giugno 1956
4.P. Togliatti, La via italiana al socialismo, rapporto alla sessione del CC del PCI del 24-25 giugno 1956
5.P. Togliatti, La presenza del nemico, “l’Unità”, 3 luglio 1956
6.Sugli avvenimenti polacchi e ungheresi e sulla dichiarazione della delegazione recatasi in Jugoslavia, comunicato della Direzione del PCI, “l’Unità”, 26 ottobre 1956
7.Cellula del PCI “Giaime Pintor” della casa editrice Einaudi, Appello ai comunisti, 29 ottobre 1956
8.Lettera dei 101, 29 ottobre 1956
9.P. Togliatti, Sui fatti d’Ungheria, “l’Unità”, 30 ottobre 1956
10. Verbale della riunione della Direzione del PCI, 30 ottobre 1956
11. Il giudizio della Direzione del PCI sui fatti di Ungheria e di Polonia, comunicato della Direzione del PCI, “l’Unità”, 3 novembre 1956
12. P. Togliatti, Ancora sui fatti di Ungheria, discorso tenuto all’VIII Congresso della Federazione bolognese del PCI 18 novembre 1956
13. P. Togliatti, Per una via italiana al socialismo. Per un governo democratico delle classi lavoratrici, rapporto all’VIII Congresso del PCI, 8 dicembre 1956
14. P. Togliatti, Iradalmi Ujsàg, “Rinascita”, marzo 1957
Premessa
1.Il cinquantesimo anniversario del 1956 – anno cruciale per la vicenda del comunismo storico novecentesco, con il XX Congresso del PCUS, lo scioglimento del Cominform, le rivolte di Poznan e Budapest e l’intervento sovietico in Ungheria – ha inevitabilmente riaperto il dibattito su quegli eventi. O meglio, di due tipi di dibattito. Quello ideologico (nel senso marxiano di produttore di falsa coscienza), condotto in primo luogo dai mass-media, egemonizzato dai critici acerrimi e dai demonizzatori del comunismo, i quali si fanno forza anche delle autocritiche di importanti esponenti dell’allora PCI; e quello più propriamente storico-politico, frutto del lavoro di vari ricercatori a livello internazionale, oltre che della passione critica di studiosi militanti e di alcuni dei protagonisti di allora.
Soffermiamoci brevemente sul primo versante, molto forte soprattutto sulla vicenda ungherese. È un tipo di discussione fatta perlopiù di anatemi, giudizi morali e a volte moralistici, che non si cura molto dei fatti in quanto tali né tanto meno del loro contesto, né riporta nulla della nuova documentazione emersa nei più accreditati studi sulla guerra fredda. Parliamo, ad esempio, dei verbali del Presidium del PCUS dei giorni che precedono il secondo intervento sovietica, che dimostrano il peso dell’attacco anglo-francese a Suez nel determinare il mutamento di linea del gruppo dirigente del PCUS, facendolo optare per il ritorno dell’Armata Rossa in Ungheria. (1)
Naturalmente la stampa ricorda solo en passant che negli stessi giorni Israele, Gran Bretagna e Francia attaccavano l’Egitto, che aveva osato nazionalizzare il canale di Suez. Un articolo di “Repubblica” pare ridurre quell’aggressione quasi a un fatto di costume, di cui segnalare aspetti “singolari” come il piano di battaglia disegnato su un pacchetto di sigarette, sottolineando altresì che l’Egitto era per Israele un “avversario tenace e bellicoso”, decisamente pericoloso. (2) Toni ben diversi, dunque, rispetto a quelli usati per i fatti ungheresi. Cosicché, mentre si sollecitano e si raccolgono le autocritiche degli ex-dirigenti comunisti, è piuttosto improbabile che si chieda a qualcuno dei leader politici occidentali di allora di “autocriticarsi” per Suez. Eppure non pochi uomini politici e intellettuali occidentali appoggiarono l’attacco, compresi molti democratici e progressisti (presidente del Consiglio francese era il socialista Guy Mollet). Il governo italiano, che aveva giudicato la nazionalizzazione del Canale un atto ‘illecito’ e ‘chiaramente ostile nei confronti di tutto il mondo occidentale’, non approvò la guerra, ma il ministro Martino alla Camera espresse comprensione verso Israele, che aveva dovuto reprimere ‘le forze più bellicose e intransigenti dei paesi vicini’, aggiungendo di non aver ‘potuto approvare le ultime decisioni anglo-francesi’ non in base a un giudizio di merito, ma per non ‘menomare l’autorità delle Nazioni Unite’. (3)
E qui veniamo a quella che si potrebbe definire la “asimmetria delle critiche e delle autocritiche”, che rimanda a un’asimmetria complessiva nell’informazione e nell’analisi che i mass-media impongono rispetto alla guerra fredda, e in generale al Novecento e al tremendo scontro di classe su scala mondiale che lo ha caratterizzato: i “buoni” sono collocati da una parte, i violenti e gli antidemocratici dall’altra. Dimenticando che, proprio in nome dell’anticomunismo e della “difesa della democrazia” e della “libertà” (o, come si dice più sinceramente, “del nostro stile di vita”), si sono giustificate decine di golpe e dittature militari promossi o sostenuti dagli USA, e si sono perpetrati una quantità di crimini orrendi, che vanno da guerre spaventose come quella del Vietnam fino alla strategia della tensione che ha insanguinato il nostro paese, passando per il milione di comunisti uccisi in Indonesia dopo il colpo di Stato del 1965: un vero e proprio genocidio. (4) Di quest’ultimo è da poco ricorso l’anniversario: qualcuno se n’è ricordato?
Nessuno chiede conto di tutto ciò ai politici che sostenevano lo schieramento atlantico. E qui c’è l’asimmetria, abilmente costruita e consolidata dai mass-media e da un revisionismo storico che mette sullo stesso piano le foibe e la Shoah. Asimmetria per cui i comunisti si autocriticano da 50 anni, gli ex-comunisti da almeno 15, ma non si cessa di chiedere loro pentimenti e abiure, ma nessuno ha mai chiesto, ad esempio, a un ex dirigente della DC, di autocriticarsi per la guerra del Vietnam, in cui gli USA massacrarono la popolazione per circa dieci anni con bombe e napalm, mentre Moro, che era un cattolico democratico, esprimeva “comprensione” per l’alleato statunitense, nel quadro degli equilibri della guerra fredda, e tutti i partiti filo-occidentali – pur con significativi distinguo – furono sulla stessa linea. Il silenzio su questi eventi rende dubbia – oltre che unilaterale e incompleta – l’abbondanza di commenti, servizi giornalistici, inchieste, sui fatti ungheresi e le relative “responsabilità del PCI”. (5)
2.Di questo tipo di dibattito, che rimanda alla battaglia per l’uso pubblico della storia, non si può non tenere conto, e occorre un rinnovato impegno su questo terreno. C’è, però, anche un secondo tipo di confronto, non pregiudiziale e non strumentale, che tenta di entrare maggiormente nel merito delle questioni. Esso riguarda tutti i nodi del 1956, dal significato storico del XX Congresso alle nuove contraddizioni (economiche, ideologiche ecc.) che esso apre, dalla natura della rivolta ungherese all’intervento militare sovietico. A tale proposito, la questione posta da Rossana Rossanda non può essere elusa:
Non è vano – scrive Rossanda – chiedersi che cosa sarebbe avvenuto ‘se’ nel 1956 il rapporto segreto di Kruscev fosse stato recepito come un goffo ma serio segnale, ‘se’ il PCUS e gli altri partiti lo avessero elaborato invece che sfuggito, ‘se’ pochi mesi dopo avessero inteso la rivolta di Poznan, e poi quella di Budapest, e infine ‘se’ [...] la seconda non fosse stata repressa dall’intervento militare sovietico.
La possibilità, cioè, di andare verso un socialismo che desse più spazio alla partecipazione attiva delle masse e più ascolto ai loro bisogni – pur nella complessità della pianificazione e in una situazione di difficoltà economica oggettiva – non va sottovalutata. (6) E tuttavia, oltre alla questione della realizzabilità di tale prospettiva nel contesto dato, non si può negare che, soprattutto nel caso ungherese, accanto alle forze riformatrici, fossero “scese in campo” anche forze apertamente anti-sistema: il simbolo della rivolta – la bandiera con lo stemma della Repubblica tagliato – e gli obiettivi del ritiro di ogni presenza militare sovietica sul territorio nazionale e della fuoriuscita dal Patto di Varsavia, paiono confermarlo. E in questo quadro va considerato che, negli equilibri ferrei della guerra fredda, a nessuna forza “anti-sistema” era consentito di accedere al potere, nell’uno come nell’altro campo: non al PCI in Italia, perfino dopo la sua accettazione della NATO; e tanto meno ai rivoltosi ungheresi, che volevano la neutralità del Paese (decretata da Nagy il 1° novembre), il che significava un vero e proprio terremoto negli equilibri tra i due campi. (7) È stato scritto a tale riguardo:
Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo in Italia se il PCI, anziché attenersi alla logica di Jalta avesse trasformato lo sciopero di protesta seguito all’attentato di Togliatti in un movimento insurrezionale e in una rivoluzione socialista. C’è qualcuno, sano di mente, convinto che gli americani avrebbero osservato impassibili un simile evento senza usare i loro cingolati?. (8)
Quanto al PCI, la Rossanda afferma che esso nel 1956 avrebbe potuto “mettersi ragionatamente contro il gruppo dirigente dell’URSS e dare una sponda a quanto di popolare e fin socialista c’era nel dissenso”. (9) Dal canto suo, Mario Pirani contesta il “ritardo” del PCI nel compiere lo “strappo” dall’Unione Sovietica – e nello specifico la mancata condanna dell’intervento in Ungheria – come cause del mancato accesso delle sinistre al governo del Paese. (10) Ha scritto invece lo storico Martinelli:
‘Ritardo’ [...] è evidentemente un termine non scientifico, assai poco idoneo a dar conto [...] di fenomeni e processi reali: i quali, com’è noto, non sono meramente e unicamente riconducibili a scelte politiche soggettive. ‘Ritardo’ rispetto a che cosa? La storia del PCI non è [...] la storia di scelte da valutare – in rapporto a uno svolgimento finalistico e lineare – giuste o sbagliate, ma un complicato percorso in cui giocano un peso essenziale eventi, realtà, fattori interni e internazionali talvolta imprevedibili, tali da limitare di molto la libertà di scelta [...] dei dirigenti. (11)
Sullo stesso inserto del “Manifesto” in cui è comparso l’articolo della Rossanda, Valentino Parlato ha sostenuto una posizione opposta:
Nel 1956 quella del PCI e di tutti noi che restammo nel PCI fu una scelta obbligata e giusta, anche nel medio periodo. [...] c’era la guerra fredda e [...] il mondo era diviso in due secondo l’accordo di Yalta. [...] dopo il primo intervento i sovietici si ritirarono e [...] il secondo brutale intervento ci fu quando Nagy [...] annunciò l’uscita dell’Ungheria dal patto di Varsavia [...].
Non mi convince neppure la tesi dell’‘occasione perduta’ da parte del PCI. A mio parere il PCI [...] si sarebbe spaccato. [...] Invece, forse proprio per quell’‘occasione perduta’, già le elezioni del 1958 segnarono un consolidamento del PCI. Il quale [...] con il suo VIII Congresso segna la fine dello stato guida e del partito guida e avvia [...] la via italiana al socialismo. (12)
C’è poi un altro punto, che si dimentica sempre. Il movimento comunista è per sua natura internazionalista. Anche al di là della guerra fredda, è del tutto ovvio che il PCI avesse un legame organico col paese in cui era in corso il più importante tentativo di costruire una società socialista, e cercasse di mantenerlo in tutti i modi, sia pure in chiave critica e cercando di avviare in Occidente un processo che sarebbe stato necessariamente diverso. Secondo lo storico D. Blackmer, nel 1956 “l’alternativa di separare il PCI dal movimento internazionale non esisteva come possibilità pratica”; il PCI “non poteva fare un simile passo senza virtualmente autodistruggersi”. (13)
È evidente, dunque, che su queste questioni esistono, a sinistra e tra gli studiosi, posizioni diverse, e che pertanto il dibattito resta aperto. Anche all’interno dell’Archivio storico del movimento operaio – la struttura di cui questa collana editoriale è emanazione – i giudizi sul 1956 e il ruolo del PCI sono diversi, e la pubblicazione di questo volume ha stimolato una discussione non formale né sterile, ma anzi ricca di stimoli e sollecitazioni, che ha migliorato il presente lavoro. Tra l’altro, è parso chiaro che la rivolta ungherese è stata un evento complesso, per cui appaiono fuorvianti sia la definizione di “controrivoluzione”, emersa nei primi giudizi dati dal PCI, sia quella di “rivoluzione”, oggi ampiamente in auge. Si è trattato piuttosto di un fenomeno articolato ed eterogeneo, in cui erano presenti diverse componenti: quella studentesca e intellettuale, di orientamento prevalentemente nazionalista; quella operaia, di impostazione consiliare (e dunque socialista, sindacalista-rivoluzionaria o addirittura comunista di sinistra); e infine quella costituita dai residui dei vecchi ceti dominanti, con l’appoggio della Chiesa, apertamente reazionaria. (14) L’antisovietismo, tuttavia, e/o l’ambizione di liberarsi della tutela dell’URSS, appare l’elemento comune che poi ha determinato l’intervento.
Nel suo emendamento a una bozza di comunicato comune col PCF, Togliatti parla di “movimento popolare” e dell’intervento sovietico come di una “dura necessità”, incontrando l’opposizione dei francesi, che parlano di “controrivoluzione” e intervento come “dovere di classe”. Il comunicato comune non si farà, e anche da questa contrapposizione esce confermata una posizione del PCI più dialettica rispetto a quella di altre forze comuniste, anche rispetto ai “fatti d’Ungheria”.
Negli scritti di Togliatti sull’argomento – accanto a un netto schieramento “di campo” e alla convinzione che la rivolta, se non fermata, avrebbe avuto effetti disastrosi per la revanche delle forze reazionarie e l’indebolimento del “campo socialista” – troviamo elementi di critica forte al gruppo dirigente ungherese; troviamo cioè la consapevolezza che se la situazione era giunta a tale grado di tensione, significava che qualcosa si era rotto nel rapporto tra partito e masse, e che ben prima che si arrivasse a tanto occorreva correggere, rettificare, migliorare. E dunque bene faceva il PCI a porre al centro della “via italiana” il rapporto dialettico democrazia-socialismo, rilanciata proprio nel 1956 assieme al “policentrismo” del movimento comunista internazionale. Tutto ciò costituisce il retroterra comune a tutto il gruppo dirigente. D’altra parte, sui fatti d’Ungheria si apre un dibattito ricco e aspro, con prese di posizione di aperto dissenso come quella di Di Vittorio o di molti intellettuali, di cui pure nel presente volume si dà conto. Certo, tali posizioni rimangono minoritarie e vengono emarginate, ma pure hanno avuto il loro peso politico nella vicenda del PCI e della sinistra nel suo complesso.
3.Nel 1956, peraltro, non c’è solo l’Ungheria. Il XX Congresso provoca nel gruppo dirigente del PCI una riflessione sulla figura di Stalin e sulla storia dell’Unione Sovietica, che è tuttora di grande interesse. In particolare la porta avanti Togliatti, e nei suoi scritti di quel periodo che qui riproponiamo – l’intervista a “Nuovi Argomenti” in primis – si ritrovano elementi di analisi su ciò che non ha funzionato nell’esperienza sovietica, sul come, quando e perché hanno cominciato a prodursi quelli che definisce “fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione, e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell’organismo sociale”, attirandosi la critica di Chruščëv; elementi di analisi che consentono di affrontare il tema nel merito, al di là degli attacchi pregiudiziali o complessivi e delle difese acritiche. Si può certo osservare che tale elaborazione non ha ricevuto poi uno sviluppo sistematico a livello di partito: e questo rimane un limite; e tuttavia in occasione del XXII Congresso del PCUS (1961) e poi col Memoriale di Jalta Togliatti tornerà su questi temi, e più in generale tutta la sua elaborazione degli ultimi anni è centrata sul problema della “rivoluzione in Occidente” e sul nesso fra trasformazioni socialiste, programmazione e sviluppo democratico.
Quanto allo “stalinismo”, Togliatti rifiuta questa categoria. All’VIII Congresso del PCI – dopo aver ricordato lo sforzo immane successivo alla Rivoluzione d’Ottobre per porre le basi della società socialista, e il fatto che questa “ha dimostrato la capacità di scoprire [...] i propri difetti, di criticarli con coraggio e di accingersi a correggerli” – afferma:
Per questo noi non accettiamo l’uso del termine di ‘stalinismo’ e dei suoi derivati, perché porta alla conclusione, che è falsa, di un sistema in sé sbagliato, anziché spingere alla ricerca dei mali inseritisi, per cause determinate, in un quadro di positiva costruzione economica e politica, di giusta attività nel campo dei rapporti internazionali e di conseguenti, decisive vittorie. Errano coloro che ritengono che quei mali fossero inevitabili. Ancora più gravemente coloro che su di essi cercano di fondare una vana critica distruttiva. (15)
Del tutto diversa la posizione del leader socialista Nenni, che parla di difetti del sistema e non nel sistema, ma anche dei firmatari della lettera dei 101 o di dirigenti del PCI come Giolitti; non a caso alcuni di loro confluiranno nel PSI. Anche per la sinistra italiana nel suo complesso, dunque, il 1956 costituisce un tornante di eccezionale importanza. Riguardo al PCI, il suo VIII Congresso, alla fine dell’anno, ribadisce con Togliatti che “non vi è né Stato guida, né partito guida”, e sancisce la sistemazione e il rilancio della “via italiana al socialismo”, che costituisce comunque un passaggio essenziale della sua storia, già in nuce nella svolta del 1944 e da cui sono derivati molti degli sviluppi successivi.
Con questo volume cerchiamo dunque di documentare come il PCI si è rapportato al “terribile 1956”, e di restituire spunti ed elementi di analisi che possono essere interessanti e util ancora oggi. Tornare da un lato ai fatti di quell’anno, e dall’altro ai documenti, all’elaborazione dei protagonisti di allora, può servire inoltre ad avvicinarsi a una comprensione maggiore di quelle vicende e a una loro visione più storica e meno “ideologica”. È questo l’intento a cui è ispirato il presente lavoro.
Accanto alla documentazione, è inevitabile che emerga un livello di giudizio, parziale e temporaneo. Occorrerà quindi proseguire la ricerca e la discussione, col conforto – è auspicabile – anche di nuovi materiali documentari provenienti da archivi poco esplorati o fino a poco fa non accessibili.
A. H.
Nota ai testi
I testi qui selezionati sono stati tutti ridotti per motivi di spazio. Sono state quindi “tagliati” incisi, excursus, e le ripetizioni inevitabili in scritti e discorsi che si susseguono in un contesto che mantiene elementi di fondo costanti. Naturalmente i “tagli”, segnalati con parentesi quadra e puntini, sono stati operati in modo tale da non inficiare i contenuti essenziali dei testi stessi.
Ringraziamenti
Un grazie a Giuseppe Aragno, Sergio Manes e Sergio Muzzupappa per l’appassionata discussione collettiva che ha accompagnato la preparazione di questo libro, migliorandolo significativamente rispetto alla versione originaria. Ringrazio inoltre il direttore della Fondazione Istituto Gramsci, prof. Silvio Pons, per l’autorizzazione concessa alla pubblicazione dell’appello della cellula “Giaime Pintor”. Grazie infine a Daniele Quatrano per il supporto tecnico.
(1) M. Kramer, The “Malin Notes” on the Crises in Hungary and Poland, 1956, “Cold War International History Project Bullettin”, 1996-97, nn. 8-9.
(2) A. Stabile, Suez, la guerra di Dayan su un pacchetto di sigarette, “la Repubblica”, 9 ottobre 2006.
(3) Cfr. G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, tomo I, Torino, Einaudi, 1995, pp. 222-227. La redazione de “Il Mondo”, di area radical-democratica, si spaccò. Il “Corriere della Sera”, per bocca dell’editorialista Augusto Guerriero, si rammaricò che l’azione bellica non fosse giunta fino alla ‘liquidazione’ e alla resa di Nasser. Lo stesso Mollet esprimerà un parere analogo (D. Sassoon, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 260).
(4) Cfr. W. Blum, Con la scusa della libertà, Milano, Marco Troppa Editore, 2002; Id., Il libro nero degli Stati Uniti, Roma, Fazi Editore, 2003. Quanto all’Europa occidentale, si veda D. Ganser, Gli eserciti segreti della NATO. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, prefazione di G. De Lutiis, Roma, Fazi Editore, 2005.
(5) Allo stesso modo, sono sospette le aspre condanne di tali fatti da parte di chi, oggi, rimane indifferente dinanzi alle aggressioni all’Iraq o al Libano, ai civili uccisi ogni giorno in Afghanistan o in Iraq, alle “esecuzioni mirate” e ai raid contro i palestinesi, ad aberrazioni come Guantanamo o Abu-Ghraib, o magari le giustifica in nome della “lotta al terrorismo”.
(6) R. Rossanda, Un “Se” che è utile porsi, “il manifesto”, 22 ottobre 2006
(7) Paradossalmente, sarà proprio nel blocco sovietico che infine forze anti-sistema come Solidarnosc in Polonia potranno accedere al potere, col benestare dei gruppi dirigenti polacco e sovietico.
(8) S. Ricaldone, Budapest 1956: l’Europa ad un passo dal conflitto nucleare. Pentimenti e ipocrisie di postcomunisti cinquanta anni dopo, in www.resistenze.org.
(9) Rossanda, Un “Se” che è utile porsi, cit.
(10) Si veda ad es. M. Pirani, L’occasione persa dal PCI, “la Repubblica”, 3 ottobre 2006.
(11) R. Martinelli, Introduzione a Quel terribile 1956. I verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI, a cura di M.L. Righi, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. XLVIII.
(12) V. Parlato, Troppo comodo pentirsi, 50 anni dopo, “il manifesto”, 22 ottobre 2006.
(13) D.L.M. Black
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