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il manifesto
15 Marzo 2007

Kosovo-intervista «Non è più un contenzioso Pristina- Belgrado, decideranno Usa, Russia e Ue»

«Indipendenza? Qui regnano i clan»

Parla padre Sava: «Il piano di Ahtisaari ha molti elementi importanti, ma nel contesto di un Kosovo indipendente che non avrà più legami istituzionali con la Serbia. Così non sarà più possibile garantire la presenza a lungo termine del popolo serbo». Ci vuole una soluzione provvisoria: niente seggio all'Onu, autonomia quasi statuale e per i serbi legame istituzionale con Belgrado

Tommaso Di Francesco
Decani (Kosovo)

È il monumento medioevale più importante della Serbia, per i suoi affreschi e la sua storia, tomba di re e luogo d'incoronazione. Chiesa, monastero, un grande complesso monastico, ora con le officina del legno e della pittura delle icone, più a sud una vigna antica. Per l'Unesco è patrimonio dell'umanità, per la storia dell'arte «l'anello mancante per capire il nostro medioevo». Fuori il contingente militare italiano che lo protegge - nel 2004 sono stati sparati contro il monastero anche colpi di mortaio. Dentro una comunità di rifugiati dalle distruzioni che vanno dal 1999 a oggi, con un picco nel 2004, comprese le quattro donne riparate nel convento dopo la distruzione della Santa Trinità di Djakovica. Un litania di profughi che ha visto fuggire nel terrore 200mila serbi e altrettanti rom. E siccome non è possibile immaginare un luogo di culto in assoluto, tantomeno ortodosso, senza un comunità - tantopiù che queste province si sono semprte chiamate Kosmet (Kosovo e Metohja, Terra della chiesa) - i monasteri ormai sono un presidio, un simbolo della residua presenza dei serbi in quel Kosovo che buona parte della comunità internazionale vuole consegnato ad una nuova indipendenza statuale etnica, quella albanese.
A padre Sava, responsabile del monastero e spesso portavoce dei serbi rimasti - che il giorno prima abbiamo incontrato a Villaggio Italia, base dei contingenti Kfor, dove era venuto per un incontro interconfessionale con esponenti musulmani e cattolici promosso dal generale Attilio Claudio Borreca che comanda i contigenti Kfor della zona ovest -, abbiamo rivolto alcune domande nella straordinaria biblioteca del convento, con l'aiuto di padre Andrej.

Che fareste se venisse concessa l'indipendenza secondo il piano del mediatore dell'Onu, Martthi Ahtisaari respinto nelle trattative ufficiali di Vienna? Il Patriarca Pavle ha invitato i serbi a rimanere in Kosovo.

I serbi vivono in queste terre da secoli, ci hanno vissuto sotto diversi stati e sotto diverse autorità, così la chiesa ortodossa ci ha vissuto, anche sotto diversi sistemi politici, a testimoniare la verità di Cristo. Il patriarca Pavle ha invitato il nostro popolo a rimanere fedele alla sua fede e alla sua tradizione. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu deve ancora decidere come si svilupperà la crisi del Kosovo. Non si tratta più di una questione «locale» tra Belgrado e Pristina, ma del nuovo ordine geostrategico mondiale. Il piano di Ahtisaari presenta molti elementi significativi per una permanenza dei serbi, ma nel contesto di un Kosovo indipendente che non avrà più legami istituzionali con la Serbia. E questo crea una grande preoccupazione da parte serba, perché c'è la fondata paura che senza legami con la Serbia non sarà possibile garantire la presenza a lungo termine in Kosovo del popolo serbo. Il piano ha molti elementi positivi, ma il contesto politico istituzionale negativo che propone scoraggia i serbi dall'accettare anche gli elementi positivi. Ora si discute molto a Belgrado sull'ultima versione del piano Ahtisaari. Che da una parte rifiuta il disegno di Pristina di indebolire i contenuti di protezione della minoranza serba, ma dall'altra dice no anche alla richiesta delle autorità di Belgrado di una connessione tra le proposte del piano e la risoluzione dell'Onu 1244. Quella che assumeva gli accordi di pace di Kumanovo che ponevano fine alla guerra della Nato e che prevedeva il ritorno del Kosovo all'autorità statuale della Serbia.

In questi giorni, dopo le aggressioni subite da molti monasteri, le autorità di Belgrado hanno chiesto che a protezione delle chiese ortodosse oltre ai militari della Kfor ci sia la polizia serba...

I media l'hanno presentata come il tema dominante delle trattative alle quali ha partecipato il nostro vescovo Teodosio. E' stato solo uno degli argomentiin discussione, subito abbandonato. La proposta è stata fatta però perché a Belgrado c'è il timore che la Kfor, di fronte all'avvio della cosiddetta indipendenza, prepari il ritiro della protezione dei monasteri ortodossi per consegnarla al Corpo di polizia kosovaro-albanese (in maggioranza composto dalle ex milizie dell'Uck, ndr). Perché nel piano Ahtisaari si dice che «bisogna liberare la Kfor appena possibile della sua attività militare». La posizione della Chiesa è che la Kfor-Nato continui a proteggere il più a lungo possibile gli otto luoghi sacri ortodossi che la Kfor-Nato sta già proteggendo - il numero più grande è in questa zona e vede coinvolto il contingente italiano. La polizia kosovaro-albanese, specialmente in questa zona, non è né capace né motivata a proteggere monumenti cristiani. Nella sommossa del marzo 2004 il loro ruolo è stato deludente. Per questo la proposta della compresenza della polizia di Belgrado a supporto dei militari Nato era abbastanza legittima, ma improponibile perché poi ci vorrebbero più militari Kfor per proteggere i poliziotti serbi. Ma parlare di polizia serba non è una provocazione, il pericolo c'è ancora tutto. E riguarda anche le chiese che stiamo ricostruendo di Pristina, di Podujevo e in particolare di Pec che è stata nuovamente violata nei giorni scorsi. Sono chiese che hanno subito distruzioni e incendi nel marzo 2004, sono state ricostruite grazie al Consiglio europeo con dentro rappresentanti albanesi e serbi e i soldi del governo kosovaro, ma voglio denunciare che sono state di nuovo violate e derubate. La polizia kosovara non ha fatto nulla.

Ma esistono per voi gli standard democratici - rispetto delle minoranze, metodi non violenti, garanzie dei diritti umani - per concedere l'indipendenza al Kosovo?

Noi poniamo sempre una domanda ai rappresentanti della comunità internazionale: come si fa a parlare di indipendenza per una società che praticamente è al livello dei clan che governano il Kosovo? E dove le istituzioni sono una facciata dietro alla quale comandano potenti personaggi dell'ex Uck? Quando noi continuiamo ad avere gravi problemi con i municipi che ci rispondono che sono impotenti a risolvere i problemi che poniamo come comunità religiosa e serba e dove tutti i problemi sono demandati all'influenza di personaggi come Ramush Haradinaj e Hasim Thaqi internazionalmente squalificati. Mentre per attivare un piano d'indipendenza assai complesso ci vuole almeno il coinvolgimento di autorità, non solo locali, reali e politicamente credibili ed efficienti. Forse nel Kosovo centrale, dov'è maggiore la presenza internazionale, c'è una maggiore credibilità. Ma il nodo, dappertutto, restano i municipi. Prima che una decisione raggiunga Decani, Djakovica o Pec si perderà per strada. Perciò temiamo che molti provvedimenti del piano siano impossibili da mantenere; i poteri esecutivi devono restare nelle mani della comunità internazionale, sperando che si sviluppi prima o poi una élite politica democratica che non avrà più bisogno di protettorati. Per la protezione del patrimonio culturale ortodosso noi chiediamo concretamente una tutela dell'Unione europea. Vogliamo che la Nato rimanga il più a lungo possibile. Questi luoghi sacri potrebbero essere distrutti in una notte e tutto lo sforzo finora dimostrato dai vostri contingenti potrebbe essere vanificato con la poco prudente concessione dell'indipendenza.

Come finirà allora?

Siamo ottimisti. Naturalmente per esserlo ci basiamo su valutazioni non solo politiche, altrimenti dovremmo essere più che pessimisti. Abbiamo una visione dei problemi escatologica. Come gli affreschi della nostra chiesa, non ci raffiguriamo la realtà così com'è ma come crediamo sarà nel regno dei cieli. Ma torniamo alla realtà. Noi speriamo che la presenza internazionale rimanga, sia quella militare che quella civile, almeno finché tutti i Balcani occidentali siano integrati nell'Unione europea. E' molto importante mantenere la stabilità politica in Serbia, facendo la concessione di non dare al Kosovo un posto alle Nazioni unite come fosse uno stato internazionalmente riconosciuto, fino al momento della piena integrazione dei Balcani occidentali in Europa quando questa questione sarà risolta. La Serbia è pronta adesso a concedere al Kosovo molti elementi di uno status di autonomia, quasi statale, ma all'interno della Serbia: avrebbe tutte le prerogative di uno stato senza il posto all'Onu e certamente con il mantenimento di legami istituzionali con i serbi del Kosovo, attraverso una collaborazione flessibile con le istituzioni del Kosovo. La proclamazione di una indipendenza completa causerebbe una maggiore destabilizzazione in tutti i Balcani. Non dico questo perché gli albanesi non ottengano quello che vogliono. Forse anche loro hanno diritto a desiderare l'indipendenza, così come i serbi hanno diritto di continuare a vivere nel loro paese, in un Kosovo serbo, come è stato in tutti questi secoli. Bisogna trovare una soluzione provvisoria, legata ad una via dinamica verso l'Unione europea. Questo condizionerebbe Belgrado e Pristina ad uno scopo comune e li costringerebbe ad essere fedeli agli accordi. E' l'unico modo che potrebbe portare maggiore stabilità a quest'area, ai Balcani e all'Europa. Ora vedremo che cosa decideranno i grandi poteri mondiali, perché alla fine l'accordo sarà tra Washington, Mosca e Bruxelles tutti pronti a far accettare il piano Ahtisaari così com'è.


il manifesto
15 Marzo 2007

Piano dell'Onu

Il simulacro e il fallimento

T. D. F.

Lunedì scorso il mediatore dell'Onu Martti Ahtisaari è tornato a Vienna per annunciare che le trattative sullo status finale del Kosovo erano fallite. Era annunciato, fin dal momento in cui gli era stata affidata la «mediazione» - strana, per uno che è a favore dell'indipendenza. L'Occidente non ha deflettuto, riproponendosi nel ruolo nefasto di chi ha partecipato alla guerra balcanica con le concessioni delle indipendenze proclamate su base etnica - Slovenia e Croazia - già nel 1991. E ora si avvia a confermare una nuova indipendenza monoetnica, quella albanese del Kosovo. A un bel dire ora il governo italiano, che bisogna «uscire dagli schemi» per insistere sul compromesso e non imporre l'indipendenza alla Serbia. I giochi, pericolosi, sembrano fatti. Tutto ormai è finito nel grande calderone internazionale che vede protagonista la Russia di Putin, gli Stati uniti di George W. Bush eredi della guerra «democratica» e spesso bipartisan, l'Ue che da tempo ha affidato alla Nato la sua politica estera.
Nessuno che si chieda quale sia stato alla fine il risultato della guerra «umanitaria» di 78 giorni di bombardamenti aerei, l'ambigua uscita della missione Osce dal territorio del Kosovo (dove mediava tra esercito di Belgrado e Uck) per colpa della messainscena della strage di Racak, la truffa dei diktat di Rambouillet. Milosevic non c'è più, ma alla Serbia è stata proposta solo e soltanto l'indipendenza di una parte del suo territorio. Suo anche secondo gli accordi di pace di Kumanovo e la risoluzione 1244 dell'Onu. Rivelando che la guerra della Nato, giustificata per scopi umanitari, aveva in realtà l'obiettivo di una secessione etnica. Un bel precedente, per l'incerta Bosnia Erzegovina, per la crisi in Macedonia, per le «altre indipendenze» nel Caucaso, in Europa e nel mondo.
I monasteri ortodossi aprono ai diritti degli albanesi, confermando il diritto dei serbi al Kosovo. Con una maggiore disponibilità della Chiesa ortodossa che lì vive sotto la pressione albanese, e che parla ai democratici e ai moderati nazionalisti in Serbia; mentre un'altra parte più dura del Patriarcato respinge le rivendicazioni di Pristina. Vojslav Kostunica e il presidente Boris Tadic, che rappresentano la stabilità serba, mandano a dire che non ci saranno concessioni sulla sovranità. Tadic aggiunge che anche se la situazione precipiterà, non muoverà l'esercito. Ma tutto è possibile, perché a Belgrado ancora è in ballo il nodo del governo e il primo partito alle elezioni è stato quello ultranazionalista.
Il disastro vero è quello della leadership kosovaro-albanese. La Lega democratica che fu di Ibrahim Rugova è in frantumi; l'ex leader dell'Uck, Hasim Thaqi appare fuori scena; al premier Agim Ceku hanno arrestato per traffico di valuta il suo principale consigliere; è fallita l'alternativa dell'Alleanza di Ramush Haradinaj che, prima di morire, Ibrahim Rugova aveva nomimato premier, nelle stesse ore in cui veniva accusato all'Aja per crimini contro l'umanità. Al nuovo processo, il procuratore Carla Del Ponte lo ha chiamato «gangster in divisa» ricordando i 37 capi d'imputazione che pendono contro di lui - la sua immagine in uniforme «all'eroe della patria Ramush Haradinaj» pende sempre su un grande telone nella piazza di Decani. Regnano i clan in Kosovo, della droga e dei trafici di armi e ricchi aiuti internazionali. Purtuttavia chiedono l'indipendenza. E ricattano con la violenza di un movimento eterodiretto che chiede tutto e subito. I serbi dicono no.
All'ultima conferenza alla Farnesina il ministro degli esteri Massimo D'Alema aveva intimato a Belgrado: «Vi attaccate al passato, il Kosovo è solo un simulacro». Vagli a spiegare ai serbi ortodossi che considerano il Kosovo come la loro Gerusalemme, la culla della loro storia - e, visti i monumenti, anche della nostra - della quale è stato fatto scempio in questi sette anni di protettorato Nato, che «invece» è un simulacro.


=== en français ===


Kosovo : « Indépendance ? Ici c’est le règne des clans »

Tommaso Di Francesco
15 mars 2007
Il manifesto

Decani (KOSOVO) - C’est le monument médiéval le plus important de Serbie, par ses fresques et par son histoire, tombe de rois et lieu de couronnements. Eglise, monastère, un grand ensemble monastique, et maintenant les ateliers du bois et de la peinture d’icônes, et plus au sud, une antique vigne. Pour l’Unesco elle appartient au patrimoine de l’humanité, pour l’histoire de l’art c’est « le chaînon manquant pour comprendre notre Moyen-Âge ».

Dehors, le contingent militaire italien qui le protège – en 2004 on a même tiré des coups de mortiers sur le monastère. Dedans, une communauté de gens réfugiés des destructions qui vont de 1999 à aujourd’hui, avec un pic en 2004, y compris les quatre religieuses qui sont venues se mettre à l’abri dans ce couvent après la destruction de la Sainte Trinité de Djakovica. Une litanie de réfugiés qui a vu fuir dans la terreur 200 mille serbes et autant de roms. Et comme il est impossible d’imaginer un lieu de culte dans l’absolu, d’autant moins chez les orthodoxes, sans une communauté – d’autant que ces provinces se sont toujours appelées Kosmet (Kosovo et Metohja, Terre de l’église) – les monastères sont désormais une lieu de défense, un symbole de ce qui reste de la présence des Serbes dans ce Kosovo qu’une bonne partie de la communauté internationale veut remettre à une nouvelle indépendance statale ethnique : albanaise. 

Nous avons posé quelques questions au Père Sava, responsable et souvent porte-parole des Serbes qui sont restés : nous l’avions rencontré la veille à Villaggio Italia, la base du contingent de la Kfor, où il était venu pour une rencontre interconfessionnelle avec des représentants musulmans et catholiques, organisé par le général Attilio Claudio Borreca, commandant des contingents Kfor de la zone ouest. Notre entrevue a eu lieu dans l’extraordinaire bibliothèque du couvent, avec l’aide de Père Andrej.

Que feriez-vous si l’on accordait l’indépendance selon le plan du médiateur de l’Onu, Martthi Ahtisaari, plan rejeté dans les négociations officielles de Vienne ? Le Patriarche Pavle a invité les serbes à rester au Kosovo.

Les Serbes vivent sur ces terres depuis des siècles, ils y ont vécu sous diverses autorités, et l’église orthodoxe y a vécu, même sous différents systèmes politiques, en témoignant de la vérité de Christ. Le Patriarche Pavle a invité notre peuple à rester fidèle à sa foi et à sa tradition. Le Conseil de sécurité de l’Onu doit encore décider comment va se développer la crise du Kosovo. Il ne s’agit pas d’une question « locale » entre Belgrade et Pristina, mais du nouvel ordre géostratégique mondial. Le plan de Ahtisaari contient pas mal d’éléments significatifs pour une permanence des Serbes, mais dans le contexte d’un Kosovo indépendant qui n’aura plus de liens institutionnels avec la Serbie. Et cela génère une grande préoccupation du côté serbe, à cause de la peur, fondée, que sans liens avec la Serbie il ne soit pas possible de garantir la présence à long terme du peuple serbe au Kosovo. Le plan a de nombreux éléments positifs, mais le contexte politique institutionnel négatif qu’il propose décourage les serbes d’accepter même les éléments positifs. Maintenant on discute beaucoup à Belgrade de la dernière version du plan Ahtasaari. Qui, d’un côté refuse le projet de Pristina d’affaiblir les dispositios de protection de la minorité serbe, mais de l’autre dit non aussi à la demande des autorités de Belgrade d’une connexion entre les propositions du plan et la résolution de l’Onu 1244. Cette résolution reconnaissait les accords de paix de Kumanovo mettant fin à la guerre de l’OTAN, et qui prévoyait le retour du Kosovo sous l’autorité étatique de la Serbie.

Ces jours ci, après les agressions dont les monastères ont été l’objet, les autorités de Belgrade ont demandé qu’en plus des militaires de la Kfor, la police serbe assure la protection des églises orthodoxes…

Les médias l’ont présenté comme le thème majeur des négociations auxquelles a participé notre évêque Théodose. Ça n’a été qu’un des arguments de la discussion, immédiatement abandonné. La proposition, par contre, a été faite parce qu’à Belgrade on craint que la Kfor, face à la déclaration de la fameuse indépendance, ne prépare son retrait de la protection des monastères orthodoxes pour la transmettre au Corps de police kosovar-albanais (en majorité composé des ex-milices de l’Uck, NDR). Car, dans le plan Ahtisaari, on dit qu’ « il faut libérer la Kfor dès que possible de son activité militaire ». La position de l’Eglise est que la Kfor continue à protéger le plus longtemps possible les huit lieux sacrés orthodoxes que la Kfor-OTAN protège déjà – la majorité étant dans cette zone et impliquant le contingent italien. La police kosovar-albanaise, en particulier dans cette zone, n’est ni capable ni motivée pour protéger des monuments chrétiens. Pendant le soulèvement de mars 2004, leur rôle a été décevant. C’est pour cela que la proposition de la co-présence de la police de Belgrade en appui des militaires OTAN était assez légitime, mais impossible à proposer parce qu’ensuite il faudrait encore plus de militaires Kfor pour protéger les policiers serbes. Mais parler de police serbe n’est pas une provocation, le danger est encore entier. Et il concerne aussi les églises que nous reconstruisons à Pristina, à Podujevo, et en particulier à Pec, qui a été à nouveau violée ces jours derniers. Ce sont des églises qui ont subi des destructions et des incendies en mars 2004, elles ont été reconstruites grâce au Conseil européen, qui avaient des représentants albanais et serbes, et avec l’argent du gouvernement kosovar ; mais je dois dire qu’elles ont à nouveau été violés et volées. La police kosovar n’a rien fait.

Mais existe-t-il pour vous des systèmes démocratiques - à l’égard des minorités, des méthodes non violentes, des garanties des droits humains – pour concéder son indépendance au Kosovo ?

Nous posons toujours la même question aux représentants de la communauté internationale : comment peut-on parler d’indépendance pour une société qui est pratiquement au niveau des clans qui gouvernent le Kosovo ? Et où les institutions sont une façade derrière laquelle commandent de puissants personnages de l’ex-Uck ? Quand nous continuons, nous, à avoir de graves problèmes avec les municipalités qui nous répondent qu’ils sont impuissants à résoudre les problèmes que nous posons en tant que communauté religieuse et serbe, et où tous les problèmes sont délégués, sous l’influence de personnages comme Ramush Haradinaj et Hasim Thaqui qui se sont disqualifié internationalement. Alors que pour mettre en acte un plan d’indépendance assez complexe il faut au moins qu’il y ait une implication d’autorités réelles, pas seulement locales, et politiquement crédibles et efficientes. Peut-être que la crédibilité est plus grande dans le centre du Kosovo, où la présence internationale est plus importante. Mais le nœud du problème, partout, reste les municipalités. Avant qu’une décision n’arrive à Decani, Djakovica ou Pec, elle se perdra en chemin. Et nous craignons, de ce fait, que de nombreuses dispositions du plan soient impossibles à garder : les pouvoirs exécutifs doivent rester dans les mains de la communauté internationale, en espérant que se développe tôt ou tard une élite démocrate qui n’aura plus besoin de protectorats. Pour la protection du patrimoine culturel orthodoxe nous demandons concrètement une tutelle de l’Union Européenne. Nous voulons que l’OTAN reste le plus loin possible. Ces lieux sacrés pourraient être détruits en une seule nuit et tout l’effort apporté jusqu’à présent par vos contingents pourrait être réduit à zéro à cause de la concession peu prudente à l’indépendance. 

Comment cela va-t-il finir, alors ?

Nous sommes optimistes. Bien sûr, pour l’être, nous ne nous fondons pas que sur des évaluations politiques, sinon nous devrions être plus que pessimistes. Nous avons une vision eschatologique des problèmes. Comme les fresques de notre église, nous ne nous représentons pas la réalité comme elle est mais comme nous croyons qu’elle sera dans le royaume des cieux. Mais revenons à la réalité. Nous souhaitons, nous, que la présence internationale demeure, autant militaire que civile, au moins jusqu’à ce que tous les Balkans occidentaux soient intégrés dans l’Union européenne. C’est très important de maintenir la stabilité politique en Serbie, en faisant la concession de ne pas donner au Kosovo une place aux Nations Unies comme si c’était un état reconnu internationalement, et cela jusqu’au moment de l’intégration totale des Balkans occidentaux en Europe quand cette question aura été résolue. La Serbie est prête maintenant à concéder au Kosovo de nombreux éléments d’un statut d’autonomie, quasiment étatique, mais à l’intérieur de la Serbie : il aurait toutes les prérogatives d’un état sans un poste à l’ONU, et bien sûr avec le maintien de liens institutionnels avec les Serbes du Kosovo, à travers une collaboration flexible avec les institutions du Kosovo. La proclamation d’une indépendance complète entraînerait une déstabilisation plus grande dans tous les Balkans. Je ne dis pas ça pour que les Albanais n’obtiennent pas ce qu’ils veulent. Peut-être eux aussi ont-ils le droit de désirer leur indépendance, de la même façon que les Serbes ont le droit de continuer à vivre dans leur pays, dans un Kosovo serbe, comme il l’a été pendant tous ces siècles. 

Il faut trouver une solution provisoire, liée à une dynamique vers l’Union européenne. Cela conditionnerait Belgrade et Pristina à un objectif commun, et cela les obligerait à être fidèles aux accords. C’est le seul moyen qui pourrait apporter une plus grande stabilité à cette région, aux Balkans et à l’Europe. Nous allons voir maintenant ce que vont décider les grands pouvoirs mondiaux, parce que, pour finir, l’accord se fera entre Washington, Moscou et Bruxelles, tous prêts à faire accepter le plan Ahtisaari tel qu’il est.

Edition de jeudi 15 mars 2007 de il manifesto
Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio