Segnaliamo questa intervista al Generale Mini, già impegnato alcuni anni fa al comando delle truppe di occupazione italiane in Kosovo. Le tesi qui avanzate meriterebbero ciascuna un'ampia riflessione e disamina, impossibili da sviluppare in questa sede. È però il caso di notare, in particolare, come nonostante tutto riaffiorino, quasi compulsivamente, i luoghi comuni sulle presunte "cancellazione dell'autonomia" e "repressione" in Kosovo per "iniziativa di Milosevic". Vengono cioè assunti come veri, in partenza, proprio quegli argomenti che sono stati alla base della "campagna di guerra psicologica condotta nei confronti dei nostri stessi decisori": menzogne costruite nei laboratori occidentali della disinformazione strategica precisamente allo scopo di conseguire lo squartamento della Jugoslavia, giustificando via via la politica del separatismo razziale di Rugova, il terrorismo UCK, la aggressione militare NATO, la occupazione coloniale KFOR, e la (sesta!) secessione "etnica". Finchè queste fallaci premesse non saranno messe in discussione una volta per tutte, sarà a nostro avviso ben difficile poter incidere sulle scelte o addirittura sul corso degli eventi, per determinare finalmente un cambio di rotta... (a cura di I. Slavo)  


http://www.esserecomunisti.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=15833%20%20

«Italia apprendista stregone in Kosovo»

di Tommaso Di Francesco

su Il Manifesto del 24/05/2007

«L'ostinazione a decretare la perdita di sovranità della Serbia, nonostante la risoluzione 1244, non trova riscontro in altra parte del mondo. Così si impone una soluzione di forza, violenta come la guerra "umanitaria"». Parla il generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo: «Si vuole imporre una secessione. Non mi scandalizzo per la realpolitik. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia»


Si va a tappe forzate all'Onu, dopo che la «mediazione» dell'incaricato Martti Ahtisaari è stata sospesa dal Consiglio di sicurezza. Gira una bozza di risoluzione che prevede unilateralmente l'indipendenza, seppur «internazionalmente controllata per un certo periodo». E' scontro. Washington è pronta al riconoscimento anche se il Consiglio di sicurezza fosse bloccato da un veto russo. Di questo parliamo con il generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo. «Penso che quello di Ahtisaari - ci dice - è un tentativo fallito. La responsabilità più grave sta nell'averlo messo nelle condizioni di gestire un negoziato a senso unico. Così raccoglie i frutti di una manovra non tesa a risolvere il problema di tutte le etnie kosovare, ma della ricerca di una rottura con la Serbia anche con il ricatto». 

Non le sembra che l'Onu abbia svolto troppe e contrapposte parti in commedia?

Qui le Nazioni Unite hanno dimostrato le dimensioni della crisi di credibilità di cui soffrivano da tempo. Ricordo gli accordi di pace di Kumanovo del 1999, e il fatto che la Risoluzione 1244 è stata approvata dopo quegli accordi raggiunti esclusivamente fra le parti militari. Gli accordi hanno sancito due cose: 1) i serbi mantenevano la sovranità su tutto il territorio nazionale e 2) le forze internazionali sarebbero entrate sul territorio serbo, ma solo in Kosovo, dopo il ritiro unilaterale delle forze militari, paramilitari e di sicurezza serbe. Era un ritiro ovviamente poco spontaneo, ma sostanza e forma di un accordo internazionale erano state rispettate. Da quel momento l'Onu è stato sottoposto a pressioni di ogni genere per smentire questa conferma di sovranità della Serbia.

Ma esistono ora gli standard democratici, di salvaguardia delle minoranze, dei diritti umani e religiosi in Kosovo? 

Non solo non esistono standard democratici per le minoranze, ma neppure standard umani. Sulla minoranza serba e su quelle che gli albanesi considerano conniventi con i serbi soltanto perché parlano serbo o dialetti vagamente slavi pesano pregiudizi e criminalizzazioni ingiuste e false. Potrebbe sembrare paradossale, ma la discriminazione e la mannaia della pulizia etnica si sono scatenate proprio contro quei serbi e non serbi che ritenendo di non aver fatto nulla di male sono rimasti a casa propria. E sono stati questi ad essere massacrati per primi, a questi sono state sottratte le legittime proprietà con la forza e l'omicidio. Chi si è macchiato dei delitti contro gli albanesi, e sono stati molti a tutti i livelli, non ha avuto la possibilità di goderne finché è rimasto in Kosovo e chi è riuscito a scappare sta ancora nelle liste dei ricercati. Chi vuole tornare o insiste a non volersene andare dal Kosovo è gente che non ha nulla di cui pentirsi salvo il fatto di appartenere ad una certa etnia. Ora però il problema si è aggravato, tra coloro che parlano d'indipendenza ci sono quelli che ritengono che tale status internazionale dia loro il diritto alla pulizia etnica, interrotta dalle forze di sicurezza della Nato. E tra i serbi che parlano di riappropriazione del Kosovo c'è chi non vuole esercitare una responsabilità di governo equa e democratica, ma vuole vendetta. In più s'inserisce una connessione di corruzione e crimine che aumenta e il rischio che la situazione sfugga di nuovo al controllo.

Perché la comunità internazionale insiste per l'indipendenza senza vedere il precedente che rischia di rappresentare, nei Balcani con l'irrisolta pace di Dayton in Bosnia Erzegovina e in Macedonia, ma anche nel Caucaso e nella stessa Europa?

Si rendono conto dei rischi, ma forse il Kosovo vuole proprio essere il laboratorio di una nuova scrittura delle regole dell'ordine internazionale. Forse si vuole limitare il potere degli stati, si vuole stabilire un principio che la sovranità degli stati non è assoluta e che può essere limitata, ampliata o revocata con un semplice intervento di forza, sia essa militare o politico. Si vogliono forse ripristinare i sistemi delle «colonie», dei «territori», dei «protettorati» o quello delle «amministrazioni fiduciarie». E' da diversi anni che si cerca un nuovo ordine mondiale e che si tenta di riscrivere le regole a suon di pretesti e bombardamenti. La Bosnia ha fatto da laboratorio per la spartizione fra etnie di un territorio nel momento in cui una repubblica si separava dalla federazione. A Timor si è completato il processo di decolonizzazione dando l'indipendenza ad un territorio già colonia portoghese invasa da uno stato terzo. In Kosovo forse si cerca di fare il passo determinante: imporre la secessione. Non sono una verginella da scandalizzarmi per il pragmatismo politico o per l'uso della forza. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia. L'ostinazione nel prendere le parti di una etnia fino ad arrivare a decretare la perdita di sovranità dello stato in cui essa è legalmente inserita non trova riscontro in nessuna altra parte del mondo. 

Il ministro degli esteri Massimo D'Alema, favorevole all'indipendenza, aveva finora insistito sul compromesso. Ora poi in Serbia c'è un nuovo governo e una unità forte, tra il premier Kostunica e il presidente Tadic, sul rifiuto dell'ultranazionalismo ma anche sul rifiuto dell'indipendenza del Kosovo. Perché D'Alema in un momento così delicato, ha provocatoriamente dichiarato all'«Espresso»: «I serbi hanno perso il Kosovo quando hanno cercato di risolvere il problema sopprimendo l'autonomia, invadendolo e facendo pulizia etnica», attribuendo così ai serbi tout-court l'iniziativa che fu invece di Milosevic?

Condivido il giudizio secondo il quale Milosevic e la sua dirigenza hanno «perso» ogni autorità morale sul Kosovo con la cancellazione dell'autonomia e la repressione. Così come noi italiani avremmo perduto qualsiasi autorità morale se avessimo commesso crimini contro le nostre stesse popolazioni o contro quelle poste sotto la nostra tutela anche in regime di occupazione. Ma la giustizia applicabile agli uomini non è la stessa applicabile agli stati. Un uomo si può condannare a morte, un governo si può rovesciare, uno stato si può sanzionare ma non si può più annientare o frazionare. Anche perché non sono gli stati a commettere i crimini, nonostante il termine tanto di moda dello «stato canaglia», ma gli uomini. La sottrazione di sovranità era un diritto di forza che spettava alla guerra di conquista e di aggressione, ma questa guerra è stata dichiarata illegale dalla Carta delle Nazioni Unite. La secessione potrebbe essere raggiunta come termine del processo di autodeterminazione di un popolo, ma è dubbio che questo caso possa essere applicato al Kosovo. I Kosovari non hanno completato la guerra di liberazione. Rugova aveva provato a dichiarare l'indipendenza quando ancora non si sparava, ma non lo ha preso sul serio nessuno. Forse proprio perché non sparava. In piena guerra cosiddetta umanitaria, lui, che comunque era il rappresentante ufficiale degli albanesi kosovari, cercava un accordo con Milosevic e si sarebbe accontentato di un ritorno all'autonomia. E' stato preso per un traditore o per un incapace d'intendere e volere. Forse lo scopo di Rugova non era idealistico come quello del Mahatma Ghandi; forse voleva semplicemente evitare una guerra che lui come ideologo della non violenza e come leader sapeva di perdere. Sarebbe stato superato da altri leader, quelli con i fucili e le uniformi da forze speciali occidentali. Quelli che si erano messi in contatto con Al Qaeda, con i Mujaheddin reduci dall'Afghanistan e dalla Bosnia e quelli che trafficavano in armi e droga. Quelli che in Albania si addestravano con contractor americani pagati a mille dollari al giorno. Lui stesso si convinse a mettere in piedi un esercito di liberazione il cui leader, Zemaj, è stato ammazzato dopo la guerra come gli altri trenta capi del partito di Rugova trucidati in meno di due anni non dai serbi ma dagli stessi avversari politici kosovari. La cosiddetta guerra «umanitaria» in cui è intervenuta la Nato ha interrotto qualsiasi tentativo di soluzione relativamente indolore. E' stato uno dei primi esempi d'ingerenza umanitaria ma non è mai stato ufficialmente un supporto internazionale ad una guerra di liberazione. Tanto è vero che la risoluzione 1244 al termine della guerra stessa ribadisce ancora la sovranità della Serbia. Il Kosovo, perciò, fino ad oggi non è ancora formalmente e sostanzialmente perduto. Ma è indubbio che le pressioni americane sono per l'indipendenza e che l'Italia con i recenti guai nei rapporti con gli americani e con una serie di negoziatori affaticati tende ad usare quel poco di credibilità che gode in Serbia cercando di convincerla a cedere.

Non le sembra che nel 1999 qualcuno, al momento di scatenare la guerra Nato motivata allora come «umanitaria» - 78 giorni di raid aerei su tutta l'ex Jugoslavia con tanti «effetti collaterali» sanguinosi -, non abbia detto la verità al paese e agli stessi militari impegnati, alla fine, in una guerra funzionale ad una secessione etnica? 

La guerra «umanitaria» in Kosovo è stata il risultato di una serie di logiche razionali spinte da manipolazioni emotive. E' il risultato quasi perfetto di una campagna di guerra psicologica condotta nei confronti dei nostri stessi decisori. Non mi meraviglia affatto che molti di essi potessero essere in buona fede. Fin dall'inizio era chiaro che Milosevic non costituiva una minaccia alla sicurezza internazionale, ma usava gli stessi metodi del predecessore Tito per cercare di tenere insieme un puzzle che si stava sfasciando. Era anche chiaro che i presunti massacri e le pulizie etniche di Milosevic dovevano essere provate e verificate. Era chiaro che Stati Uniti e Gran Bretagna avevano già deciso per la spaccatura del Kosovo già ai tempi di quella della Bosnia. Si trattava di una diffusa volontà di punire la Serbia per i fatti bosniaci e per la sua aspirazione a costituire nei Balcani un potere nazionalista serbo che avrebbe cementato una sorta di alleanza slava che di fatto avrebbe ostacolato la tanto sognata espansione occidentale e della Nato a est. Queste certezze erano però poco spendibili a sostegno di un piano d'intervento armato contro la stessa Serbia. Era necessaria una forte spinta emotiva come era successa con il cosiddetto lager di Triplojie in Bosnia. La mossa dell'ambasciatore Walker che denunciò il presunto massacro di Racak fece precipitare le cose proprio nel momento in cui sarebbe servita la calma. Racak fece fallire i colloqui di Rambouillet. Le proposte americane e la stessa presenza dei rappresentanti dell'Uck al tavolo del negoziato erano per i Serbi delle vere e proprie provocazioni. Nessuno si chiese come mai dopo dieci anni di sopportazione, all'improvviso gli albanesi si spostavano in massa oltre il confine albanese e macedone senza allontanarsi di un solo chilometro in più. Gli stessi serbi erano convinti di vincere la battaglia dell'epurazione albanese. Da noi la catastrofe umanitaria aveva più potere persuasivo di qualsiasi discorso alla Camera, ma si parlava anche di cose meno auliche «fermiamoli lì prima che arrivino qui». La situazione era talmente nebulosa che i tribunali tedeschi dichiararono di non avere elementi per considerare profughi i kosovari che chiedevano asilo. E mettevano in dubbio i presunti massacri. Oggi si sta imponendo una soluzione di forza altrettanto violenta della guerra passata. E mi chiedo se non fosse stato meglio imporla subito dopo la guerra, come parte di una debellatio o di un trattato di pace fra parti belligeranti. Allora, anche se illegale come la soluzione di oggi, sarebbe stata capita. Ma anche qui ha agito l'ipocrisia e questa guerra di 78 giorni e otto anni è stata chiamata in tutti i modi possibili fuorchè quello che avrebbe consentito una soluzione drastica. Mi rammarica vedere che gli scrupoli del generale Jackson nel trattare i Serbi come avversari legittimi erano inutili, che la determinazione di Kfor nel salvaguardare i diritti di tutti era strumentalizzata e che gli oltre trecentomila soldati che si sono avvicendati pensando di partecipare ad un processo di stabilizzazione e di pace (compresi gli oltre centocinquanta che ci hanno rimesso la pelle) sono serviti solo a prendere tempo e spendere soldi per una soluzione di forza già scontata e che non risolve niente. Mi dispiace che la nostra ostinazione militare nel difendere i diritti di tutti oggi si traduca in quella della difesa dei diritti di una parte a scapito dell'altra. Mi dispiace vedere che di fronte agli esperimenti di laboratorio politico chi ci rimette è sempre una parte dei cittadini, quella più debole, quella meno tutelata anche dalla giurisdizione internazionale. Ieri erano gli albanesi, oggi sono i serbi. Con questi criteri domani potrebbe succedere anche a noi.