(english / italiano)


G. Sgrena, T. Di Francesco: Black flag in Bosnia

1) 
Bandiera nera sulla Bosnia
I mujahidin da eroi di guerra protetti dagli Usa, a «cellule dormienti di al Qaeda». Incontro con il leader Abu Hamza
Black flag in Bosnia
The mujahideen from heroes of the war protected by the US, to “sleeping cells of al Qa’eda”. A meeting with their leader Abu Hamza.

2) «E' vero, i mujahidin tagliavano teste»
Intervista all'ex generale Hasan Efendic che ha scritto un libro sui combattenti islamici: «Sono stati creati dagli Usa e ora ci vengono a dire che abbiamo aiutato al Qaeda»

3) Spunto
In pezzi la pace di Dayton. Un vulcano sotto la cenere
Tommaso Di Francesco

4) Bosnia, il seme wahabita
Migliaia di mujahidin sono venuti non per difendere i musulmani bosniaci ma solo per diffondere il wahabismo di stampo saudita.


 
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Bandiera nera sulla Bosnia


I mujahidin da eroi di guerra protetti dagli Usa, a «cellule dormienti di al Qaeda». Incontro con il leader Abu Hamza

Giuliana Sgrena, Sarajevo

Il Manifesto, 8 luglio 2007


E' venerdì, l'ora della preghiera, numerosi barbuti affluiscono alla moschea re Fahd, la più fastosa tra le numerose costruite con i petrodollari sauditi e i fondi di altri paesi islamici dopo la guerra. Davanti al grande recinto, che ospita anche un'organizzazione umanitaria, sempre saudita, bancarelle che vendono abiti, in stile islamico «ortodosso», e tanti libri religiosi. Sui gradini che portano al grande cancello, Abu Hamza e i suoi due figli distribuiscono volantini per protestare contro la decisione del governo di revocare la cittadinanza a circa 400 mujahidin che hanno combattuto in Bosnia. I «veterani» riuniti nell'organizzazione Ensarije (non ancora autorizzata dal governo), di cui Abu Hamza è il leader, protestano per questa «discriminazione» che penalizza gli «afro-asiatici». Sono i mujahidin arrivati in Bosnia nel 1992-93 attraverso la Croazia, provenienti da diversi paesi islamici - dall'Afghanistan al Maghreb, dalla Cecenia al Pakistan - ma anche dall'occidente. A sponsorizzare questo esercito del jihad era l'Arabia saudita con il beneplacito della Cia dei tempi di Clinton.

Il passaporto come premio


Da parte sua il presidente bosniaco Alja Izetbegovic gratificava i combattenti che si sono distinti per il loro comportamento trucido (mostravano i nemici catturati senza testa) con il passaporto bosniaco. Si dice che persino Osama bin Laden ne abbia ricevuto uno, senza nemmeno passare dalla Bosnia, ma allora non era ancora famoso come dopo l'11 settembre. Gli accordi di Dayton (fine 1995) prevedevano un rimpatrio dei combattenti stranieri (la destinazione spesso non era il paese di origine ma un altro territorio su cui continuare il jihad), ma oltre un migliaio rimasero in Bosnia. Alcuni di loro nel frattempo avevano messo su casa, altri avevano un lavoro nelle organizzazioni umanitarie che hanno fatto da copertura alla diffusione del wahabismo. Finita la guerra c'era ancora molto lavoro da fare per reislamizzare la Bosnia e i soldi non mancavano. I mujahidin avevano scelto, fin dal loro arrivo, come terreno privilegiato la Bosnia centrale, a maggioranza musulmana e se non lo era ancora lo sarebbe diventata. E dopo la guerra si erano concentrati a Zenica, Travnik e, in particolare, a Bocinja, diventato il centro della comunità dei mujahidin (con autorizzazione del presidente Izetbegovic), dove su 600 abitanti almeno 100 erano stanieri. Lo stile di vita imposto a Bocinja era quello dei taleban afghani: hidjab per le donne, barba per gli uomini, vietati alcol, fumo e musica, obbligo per le preghiere.
Le donne che non portavano il velo venivano rapate, i mujahidin giravano con una sciabola e alle ragazze che avevano vestiti troppo corti indicavano la lunghezza di rigore con una sciabolata e se qualcuno osava fare il bagno in costume gli si sparava addosso. Un wahabita locale, Jusuf Barcic, autoproclamatosi sheikh dopo essere stato in Arabia saudita, con i suoi sermoni aveva provocato molti scontri con esponenti dell'islam bosniaco. Barcic era arrivato a proibire alle donne del suo villaggio Kalesija di uscire di casa. Inoltre nel disprezzo della legge istituita si rifiutava anche di rispettare i semafori e forse proprio per questo è rimasto vittima di un incidente stradale un paio di mesi fa. «Errori dei fratelli», li definisce Abu Hamza, allora capo della comunità dei mujahidin di Bocinja, che ora si mostra molto moderato perché teme la deportazione. Ad Abu Hamza è stata revocata la cittadinanza e il suo nome è in una lista di 15 persone ritenute «pericolose per l'ordine pubblico».
Ci dà appuntamento alla moschea di Ilidja, alla periferia di Sarajevo. Abu Hamza abita di fianco alla moschea in una delle case assegnate ai veterani, un edificio a due piani, uno per le donne e uno per i maschi di famiglia, separati anche da una porta con tanto di chiave. Con un atteggiamento affabile, che contrasta con il suo aspetto trucido - robusto, testa quasi rasata, lunga barba folta e riccia, djellaba nera -, ci fa salire in uno studiolo ricavato dall'abbaino. Ha con sé i sei figli, tre dei quali nati da un precedente matrimonio della moglie con un imam rimasto ucciso in guerra.

«Ci sono i leccapiedi Usa»


Medico, studiava a Belgrado quando è iniziata la guerra, trasferitosi in Bosnia, racconta, è subito entrato a far parte della difesa territoriale, «ma viste le incompatibilità tra mujhidin e infedeli», nel 1993 è stata costituita l'unità dei mujahidin, che faceva parte dell'esercito ma con regole particolari: non si beveva, non si fumava, si pregava. E si combatteva sotto un'altra bandiera, che mostra con orgoglio, appesa alla porta in bella mostra. E una bandiera nera con la scritta: «Non c'è altro dio al di fuori di allah e Maometto è il suo profeta». Il piccolo corridoio è pieno di vestiti, «avevo un negozio, spiega, di abiti e libri islamici, ma dopo la revoca della cittadinanza, ho dovuto chiuderlo, ora mi arrangio». E come vive? «Di carità», risponde con fare sornione. Non deve comunque avere problemi, vista la grossa jeep parcheggiata sotto casa e i figli che studiano, le due ragazze sono già all'università. E la moschea chi l'ha costruita? I locali, qui vive anche gente che viene dal Sangiaccato (enclave musulmana in Serbia dove, per la posizione strategica, tra Montenegro e Kosovo, si sono concentrati estremisti islamici per sfuggire a controlli. Qui, per la polizia serba, è stato trovato un campo d'addestramento per mujahidin).
Revocata la cittadinanza, Abu Hamza ha fatto ricorso alla Corte suprema, respinto il ricorso ha chiesto il permesso di soggiorno, rifiutato, ora chiede asilo politico per poter stare vicino ai figli. Quando, lo scorso anno, si è posto il problema della revisione della cittadinanza e la conseguente revoca di circa 400 passaporti, Abu Hamza aveva subito portato in piazza i suoi sostenitori wahabiti da tutta la Bosnia, ci dicono al settimanale Dani, tutti nascosti sotto la copertura di organizzazioni umanitarie - molte ormai chiuse dopo il 2001. Abu Hamza ammette di essere in grado di mobilitare molte persone e per questo è ritenuto un «pericolo per l'ordine pubblico», ma «non ho mai avuto nessun processo», aggiunge. L'anno scorso voleva anche presentarsi alle elezioni ma non aveva le carte in regola. «I problemi sono inziati con l'11 settembre 2001, da allora siamo diventati un pericolo, prima eravamo eroi, ora la gente non ti saluta nemmeno, si è diffusa una islamofobia (peccato che l'80% degli abitanti di Sarajevo sono musulmani), soprattutto i combattenti sono considerati legati a al Qaeda, ci considerano "cellule dormienti". Ora anche negli organismi dello stato e della comunità islamica ci sono leccapiedi degli Usa. C'è anche chi dice che è colpa nostra se la Bosnia non entra in Europa», sostiene il veterano. E aggiunge: «non c'è più rispetto dei diritti umani». Fa una certa impressione sentire parlare di diritti umani dai tagliatori di teste e in un paese dove, anche da parte loro, sono stati commessi i peggiori crimini.

Wahabismo contro tradizione

In molti chiedono giustizia in Bosnia, come in tutta l'ex-Jugoslavia. Il problema è che prima, quando servivano, i mujahidin venivano protetti anche dagli americani, ma ora non servono più, anzi dopo l'11 settembre anche gli Usa si sono resi conto che costituiscono un pericolo. Ma lo sono soprattutto per i bosniaci. Probabilmente è la vostra visione dell'islam che non corrisponde a quella bosniaca, facciamo notare. «Noi non facciamo altro che riprendere la tradizione negata dal comunismo e da Tito». Per la verità non si tratta di tradizione ma di scuola wahabita che affonda le sue radici in Arabia saudita, se anche le donne anziane dei villaggi come Travnik si sono ribellate alle imposizioni dei mujahidin. Ma il rischio che chi ha commesso crimini possa trasformarsi in vittima esiste, se la giustizia dipende da logiche politiche. Molti dei mujahidin privati della cittadinanza sono già fuggiti nei paesi vicini, e se altri dovranno farlo per evitare conseguenze, le uniche vittime saranno i figli.
Nuzeiba, che studia filosofia, teme l'allontanamento del padre, il figlio più piccolo del veterano si butta per terra e prega Allah. Quando chiediamo di conoscere il parere della moglie, Abu Hamza si schernisce: «Mia moglie non vuole parlare con i giornalisti e io rispetto il suo volere». Poi ci mostra una fotografia della famiglia: la moglie appare come un fantasma tutta coperta di nero. Comunque non avremmo potuto vederla.




--- ENGLISH TRANSLATION ---


Black flag in Bosnia

The mujahideen from heroes of the war protected by the US, to “sleeping cells of al Qa’eda”. A meeting with their leader Abu Hamza.

By Giuliana Sgrena

Il Manifesto, 8 luglio 2007

Sarajevo - It’s Friday, the time for prayer, crowds of bearded men throng into the King Fahd mosque, the most ornate of the many built using Saudi oil money and funds from other Islamic countries after the war. In front of the high fencing, which also houses a humanitarian organisation, Saudi as well, are stalls which sell clothes, of the “orthodox” Islamic type, and lots of religious books. On the steps which lead down to the large entrance gate, Abu Hamza and his two sons distribute leaflets to protest against the government’s decision to revoke the citizenship of around 400 mujahideen who had fought in Bosnia. The “veterans”, reformed into an organisation, “Ensarije” (not yet recognised by the government) of which Abu Hamza is the leader, protest at this “discrimination” which penalises the “Afro-Asiatics”. They are mujahideen who came to Bosnia in 1992-3 by way of Croatia, originating from different Islamic countries – from Aghanistan to the Maghreb, from Chechnya to Pakistan – but also from the West. The sponsor of this army of jihadists was Saudi Arabia with the blessing of the CIA during Clinton’s time.

 

The passport as reward

For his part the Bosnian President, Alija Izetbegovic, thanked the fighters who distinguished themselves through their murderous behaviour (they used to show captured enemies without their heads),  by giving them a Bosnian passport. It is said that even Osama bin Laden has received one, without even travelling to Bosnia, but then he was not yet famous as he was after 9/11. The Dayton Accords (at the end of 1995) foresaw a repatriation of the foreign fighters (the destination was often not their country of origin but another area in which to continue the jihad), but actually a majority of them remained in Bosnia. Some of them in the meanwhile had set up

 

home, others had a job within a humanitarian organisation which were a cover for spreading Wahhabism. With the war finished there was still much work to do to “re-Islamise” Bosnia and there was no shortage of money. The mujahideen had chosen, since their arrival, central Bosnia as their preferred land,  the Muslims were the majority (if not the case yet it would become so). And after the war they were concentrated in Zenica, Travnik and, in particular, in Bocinja which became the centre of the mujahideen community (with the authorisation of the President Izetbegovic) where of 600 inhabitants at least 100 were foreigners. The way of life imposed on Bocinja was that of the Afghan Taleban: hijab for the women, beards for the men, alcohol, smoking and music forbidden, prayers mandatory.

 

Women who did not wear the veil were shaved, the mujahideen went around with a sabre and to any young women who had skirts that were too short they showed the length required with a sabre cut and if anyone dared to go bathing in a costume shots were fired around them. A local Wahhabist, Jusuf Barcic, self-proclaimed Sheikh after having been to Saudi Arabia, provoked many clashes with exponents of the Bosniac Islam with his sermons. Barcic ultimately prohibited women in his village Kalesija from leaving their homes. Moreover as the law of the land was undermined people even refused to obey traffic lights and perhaps for this reason there was a victim of a traffic accident a couple of months ago. “Brothers’ mistakes”, Abu Hamza called them, then head of the community of mujahideen in Bocinja, which now appears much more restrained because of their fear of deportation.

 

Abu Hamza has had his citizenship revoked and his name is on a list of 15 people considered “a danger to public order”.

 

We were given an appointment in the mosque at Ilidja, on the outskirts of Sarajevo. Abu Hamza lives beside the mosque in one of the houses allocated to veterans, a building on two floors, one for the women and one for the men of the family, also separated by a door with many locks. In an affable manner which contrasts with his murderous appearance – stocky, close shaved head, a long beard thick and luxuriant, a black Muslim robe (djellaba) – he led us up to a small office set back from the window. He has with him six children, three of these from his wife’s previous marriage to an imam killed in the war.

 

“There are lackeys of America”

 A doctor, he was studying in Belgrade when the war started, then transferred to Bosnia, he says, and immediately started to do his bit for the territorial defence, “but the incompatibilities between the mujahideen and the infidels were clear”, in 1993 the unit of mujahideen was established, which formed part of the army but with special rules: they didn’t drink, they didn’t smoke, they did pray. And they fought under a different flag, which he displays with pride, hanging over the door in full view. It is a black flag with the inscription: “There is no other god except Allah and Mahommed is his prophet”. The little corridor is full of clothes, “I had a shop”, he explains, “of Islamic clothes and books, but after my citizenship was revoked, I had to close it, now I scrape by.” And how does he survive? “On charity”, he replies slyly. However he ought not to have problems given the large jeep parked below the house and the children who are studying, the two daughters are already at university. And who built the mosque? The locals, also people who live here who came from Sandjak (a Muslim enclave in Serbia where, in a strategic position between Montenegro and Kosovo, there are concentrations of Islamic extremists trying to avoid the authorities. Here a training camp for mujahideen was found by the Serbian police).

With his citizenship revoked, Abu Hamza appealed to the Supreme Court, the appeal was rejected and he asked for leave to stay, which was also rejected, now he is claiming political asylum to be able to stay near his children. Last year, when the problem of the revoked citizenship arose and the subsequent cancellation of around 400 passports, Abu Hamza immediately brought his Wahhabi supporters from all over Bosnia into the town square, as reported in the weekly magazine Dani, all using humanitarian organisations as cover ( many by then were closed after 2001). Abu Hamza admits that he is in the process of mobilising a lot of people and for this reason he is deemed “a danger to public order”, but “I have never been prosecuted” he adds. Last year he also wanted to put himself forward in the elections but he did not have the papers in order. “The problems started with 9/11, from then on we have become a danger, before we were heroes, now none of the people greet you, there is a spreading Islamophobia (a shame that 80% of Sarajevo are Muslims), above all the fighters are considered linked to Al Qa’eda, they consider us “sleeper cells”. Now also in the state institutions and the Islamic community there are lackeys of the USA. There are even some who say that it is our fault if Bosnia does not enter Europe”, maintains the war veteran. And he adds: “There is no longer any respect for human rights”. It makes a strong impression to hear talk of human rights from those who cut off heads and in a country where, even on their [Muslim] side, the worst crimes have been committed.

 

Wahhabism against tradition

In many ways they demand justice in Bosnia, as in the whole of former Yugoslavia. The problem is that before, when they were useful, the mujahideen were also under the protection of the Americans, but now they no longer serve a purpose, on the contrary after 9/11 they have realised that they constitute a danger also to the USA. But even more to the Bosniaks. Probably it is your vision of Islam which does not correspond to that of the Bosniaks, we point out. “We are not doing anything other than revive the tradition that was denied by communism and by Tito.” But the truth is it is not from tradition but from the Wahabbi school of thought which is deeply rooted in Saudi Arabia, if even the old ladies of the towns like Travnik have rebelled against the strictures of the mujahideen. But the risk that those who have committed a crime can be transformed into a victim exists, if justice depends on political logic. Many of the mujahideen stripped of their citizenship have already fled into neighbouring countries and if others will have to do it to avoid the consequences, the only victims will be the children.
Nuzeiba, who is studying philosophy, fears the departure of his father, the smallest child of the veteran throws himself on the ground and prays to Allah. When we ask to know the opinion of of his wife, Abu Hamza scornfully says: “My wife does not want to speak with journalists and I respect her wishes.” Then he shows us a photograph of his family: his wife looks like a ghost completely covered in black. In any case we would not have been able to see her.

(Source of the english translation: Tim Fenton through http://groups.yahoo.com/group/yugoslaviainfo/ )


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«E' vero, i mujahidin tagliavano teste»

Intervista all'ex generale Hasan Efendic che ha scritto un libro sui combattenti islamici: «Sono stati creati dagli Usa e ora ci vengono a dire che abbiamo aiutato al Qaeda»

G. Sgr., Sarajevo

Sulla presenza dei mujahidin nella guerra in Bosnia circolano cifre disparate. «La polizia segreta dell'esercito bosniaco aveva 760 nomi, per i serbi erano 10.000, per i croati 4-5.000, un giornalista tedesco è arrivato fino a 40.000. L'Onu non ha dato cifre, ma ha definito esagerati i numeri che circolano», risponde il generale in pensione (dal 1996) Hasan Efendic, già comandante dell'esercito bosniaco, che sta per pubblicare un libro sui mujahidin in Bosnia. 

Ma chi erano questi combattenti islamici?

Erano di tre tipi: i veri mujahidin venuti per combattere in nome dell'islam e per aiutare i musulmani di Bosnia, pronti a morire per diventare shahed (martiri); poi i cani da guerra - gente che veniva da Afghanistan, Kashmir, Filippine - e fare la guerra è il loro modo di vivere, dove sono trovano moglie e fanno figli; infine le spie, sempre originari dei paesi arabi, ma che vivono e sono stati educati in occidente, venuti in Bosnia per fare la spia, poco importa per chi, se per l'est o per l'ovest.

La percentuale per ogni tipo?

Difficile stabilirlo, ma la maggioranza era del secondo gruppo. Erano tutti organizzati, avevano alle spalle organizzazioni umanitarie, si dividevano tra chi combatteva i serbi, chi i croati, chi il vecchio sistema comunista ma c'era anche chi combatteva contro tutti coloro che non la pensavano come loro. Nel 1993 è stata costituita l'unità dei mujahidin per raggrupparli insieme e comandarli, ma nessuno è mai riuscito a controllarli veramente. 

Sono accusati di crimini terribili.

Sì, però non sono ancora stati provati, i serbi parlano di genocidio per coprire i loro crimini. E' vero tagliavano le teste ma non a donne e bambini. E' impossibile che abbiano commesso tutti quei crimini se erano solo 760 nel loro battaglione, ma altri mujahidin erano distribuiti in altre unità bosniache. Certo, dicevano che erano venuti per salvare i bosniaci ma quando servivano non c'erano mai come a Srebrenica.

Come lo spiega?

Quelli che comandavano lavoravano per servizi stranieri, i mujahidin ubbidivano. E poi non combattevano sotto la bandiera bosniaca ma la loro. Il loro compito era diffondere il wahabismo, la religione ufficiale dell'Arabia saudita. C'era anche uno scontro con l'Iran, nessun iraniano ha combattuto con i mujahidin, gli iraniani venivano come istruttori tecnici. Ma qualche paese arabo mandava i mujahidin per neutralizzare l'Iran e alimentare lo scontro teologico tra sunniti e sciiti. Tra i mujahidin c'erano molti laureati, sono venuti a combattere per propri interessi: per diffondere il wahabismo e per difendere l'islam, dicevano anche di combattere il capitalismo, ma in effetti combattevano solo chi non la pensava come loro.

Allora perché avete costituito un'unità dei mujahidin dentro l'esercito bosniaco?

Perché se avessimo respinto i mujahidin non ci sarebbero arrivati più aiuti dai paesi arabi e in quel momento così difficile, senza armi, avremmo accettato aiuti da chiunque. Avevamo bisogno di soldi e armi ma non di uomini, alla fine della guerra avevamo 250.000 soldati. 

Ora che è finita la guerra il wahabismo è un pericolo?

Non è un pericolo sono una minoranza. Io sono ateo ma sono pronto a morire per l'islam bosniaco, ma è un islam tollerante. I nostri politici sbagliano usando il nazionalismo per mantenersi al potere.

Come sconfiggere il nazionalismo?

E' molto difficile. 

Non a caso, militari come lei e il generale Divijak (serbo bosniaco) siete stati messi da parte...

Nel '42 mio padre, che insegnava in una madrasa, mia madre e mio fratello sono stati uccisi dai serbi. Eppure io ho sposato una serba e sono andato a una scuola militare. L'ho fatto per motivi economici, ma ho accettato quel sistema e sono orgoglioso di averne fatto parte: nel 1950 sono diventato ufficiale e sono arrivato fino a primo comandante dell'esercito di Bosnia. In quale altro paese sarebbe possibile per un figlio di contadini? Certo in quel sistema c'erano dei problemi, il partito unico, ma per il popolo era buono: scuole e assistenza sociale gratuiti per tutti, gli operai godevano di diritti, ferie e vacanze, nessuno chiedeva l'elemosina come ora. In quale parte dell'Europa è nato un uomo come Tito, che ha avuto il coraggio di dire no a Stalin e di fondare il movimento dei non allineati? I mujahidin sono stati creati dagli Usa e adesso ci vengono a dire che noi abbiamo aiutato al Qaeda, io ho sentito per la prima volta quella parola nel 1998. Noi non abbiamo bisogno di mujahidin ma della comunità internazionale per uscire da questa situazione. 

Ora però occorre anche affrontare i problemi della giustizia.

Sono nazionalista ma chi ha commesso crimini deve essere portato davanti al tribunale e non possiamo diventare eroi della nazione appoggiando chi ha commesso crimini.



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Spunto

In pezzi la pace di Dayton Un vulcano sotto la cenere

Tommaso Di Francesco 

A un anno dagli accordi di Dayton, il Senato Usa nell'ottobre 1996 convocò una commissione d'inchiesta, sollecitato da rivelazioni dei media sul cosiddetto «Bosniagate»: l'amministrazione di Bill Clinton aveva autorizzato triangolazioni di uomini e armi con Arabia saudita e Iran, facendo entrare nel 1992-'93 combattenti mujahidin nella Bosnia Erzegovina dilaniata dalla guerra interetnica tra serbi, croati e musulmani. Il presidente americano venne convocato e ammise tutto. Del resto, di che sorprendersi: non erano gli stessi mujahidin internazionali, prima addestrati da Usa, Pakistan e Arabia saudita in funzione antisovietica in Afghanistan e poi impegnati, nella versione talebanizzata, dagli stessi protettori a riconquistare Kabul dal 1994 al 1996? L'operazione, giustificata per fermare l'aggressione dei serbi di Bosnia, alla fine servì soprattutto a condizionare con massicci fondi dei paesi islamici l'ambiguo islamismo nazionalista del presidente Alja Izetbegovic, sospeso tra vocazione bosniaca e integralismo. E nella guerra che vedeva la ferocia delle milizie serbe e croate, alimentò la crudeltà dei mujahidin.
Tutto questo, a 12 anni dalla fine della guerra, potrebbe avere "solo" il valore della ricerca di verità e giustizia. Senonché i Balcani, cioè il Sud-est dell'Europa, si confermano come il luogo dove il passato non passa. E neanche la miseria. Così, grazie allo strabismo dell'Occidente, il nodo dei mujahidin torna d'attualità. Quella presenza destabilizzò già nel 1996 la Bosnia musulmana, sotto accusa per il fallito attentato a papa Wojtyla in visita a Sarajevo; poi, dopo l'11 settembre 2001 diventò per Washington insopportabile. Migliaia di mujahidin dovevano essere espulsi - molti erano già "rientrati" con i lasciapassare della presidenza Izetbegovic, avallati dagli Usa. E cominciarono catture e voli della Cia, verso Guantanamo. Gli eroi mujahidin erano diventati «terroristi pericolosi al soldo di Al Qaeda». Fino ai nostri giorni, nei quali il governo di Sarajevo ha deciso 400 espulsioni. 
Una decisione faticosa presa dal rappresentante musulmano della presidenza tripartita Haris Silajdzic che così cerca l'appoggio occidentale per accelerare l'unificazione a forza delle due entità statuali invece previste da Dayton. Una «unificazione» sostenuta dagli Usa ma «unilaterale e giuridicamente impossibile», ha denunciato perfino il tedesco Schwarz Schilling, Alto rappresentante per la Bosnia nel suo commiato a fine giugno, dando le consegne al nuovo Alto rappresentante in carica in questi giorni, lo slovacco Miroslav Lajcak. Siamo a un passo dalla disgregazione. E se la comunità internazionale avvierà in Kosovo l'anacronistico riconoscimento di una nuova statualità etnica nei Balcani, il "botto" arriverà subito qui. Perché, mentre i croati di Bosnia chiedono di uscire dalla Federazione croato-musulmana e la costituzione della terza entità dell'Erzegovina, i serbi di Bosnia, guidati dal premier Milorad Dodik, democratico e acerrimo nemico dei ricercati Radovan Karazic e Ratko Mladic, minacciano l'adesione alla Serbia se la loro entità decisa a Dayton, la Republika Srpska, venisse cancellata come chiedono a Sarajevo.


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dal Manifesto, 12.07.2007

Bosnia, il seme wahabita

Migliaia di mujahidin sono venuti non per difendere i musulmani bosniaci ma solo per diffondere il wahabismo di stampo saudita.

di Giuliana Sgrena, Sarajevo

Obbiettivo dei mujahidin, accorsi a migliaia in Bosnia a inizio anni  '90, non era difendere i musulmani bosniaci e il loro islam tradizionale, ma diffondere il wahabismo di stampo saudita. Il loro compito non s'è  esaurito con gli accordi di Dayton, così in molti sono rimasti, concentrati nelle loro enclave, costruendo e imponendo comunità talebanizzate. Dopo l'11