Associazione culturale Most za Beograd, Bari
Dottorato di ricerca in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni,
Dipartimento di Pratiche Linguistiche Analisi di Testi
dell'Università degli Studi di Bari
Emergenza Kosovo
a 9 anni dalla “guerra umanitaria”
Giovedì 31 gennaio 2008 - Ore 17.00
Aula 8 della Facoltà di Lingue
(II piano)
Via Garruba 6 – Bari
Intervengono
Ugo Villani, docente di Istituzioni di Diritto dell'Unione Europea, Università “La Sapienza", e di Diritti Umani presso la Luiss
Nico Perrone, docente di Storia dell'America, Università di Bari
Dragan Mraovic, già console jugoslavo a Bari, opinionista collaboratore di Geopolitika, Dan e altre riviste
Augusto Ponzio, docente di Filosofia del linguaggio e Linguistica generale, Università di Bari
Silvia Godelli, assessore al Mediterraneo della Regione Puglia
Laura Marchetti, sottosegretaria al Ministero dell’ambiente
Introduce e coordina
Andrea Catone, associazione “Most za Beograd", un ponte per Belgrado in terra di Bari
Emergenza Kosovo a 9 anni dalla “guerra umanitaria”
Giovedì 31 gennaio
(ore 17.00, aula 8 della Facoltà di Lingue, Via Garruba 6 – Bari, II piano)
Nove anni fa, il 24 marzo 1999 gli aerei della NATO, utilizzando ampiamente le basi italiane, cominciarono a bombardare in modo sempre più intenso città e villaggi della “piccola Jugoslavia” (Serbia e Montenegro). Furono colpiti soprattutto ospedali e asili, centrali elettriche, le infrastrutture civili, ponti, strade, ferrovie. A migliaia morirono sotto i bombardamenti, a migliaia rimasero feriti e mutilati, migliaia e migliaia muoiono ancora oggi e moriranno anche in futuro per le irrimediabili malattie tumorali provocate dall’uso di proiettili e bombe al DU238 (uranio impoverito). Il paese bombardato sente ancora pesantemente sulla propria pelle gli effetti disastrosi della “guerra umanitaria”: l’economia è in difficoltà, sono quasi inesistenti le speranze di una vita degna di essere vissuta per le giovani generazioni che hanno subito i bombardamenti del 1999 (alle quali la nostra associazione Most za Beograd, insieme ad alcune altre in Italia, ha portato solidarietà attraverso le adozioni a distanza).
Quei bombardamenti della NATO – si disse- erano necessari per “prevenire una catastrofe umanitaria”, per evitare la “pulizia etnica” degli albanesi del Kosovo.
Non era propriamente così. Nella provincia autonoma del Kosovo era in atto non la “pulizia etnica” (che implica azioni sistematiche e organizzate di eliminazione di un popolo), ma un conflitto - le cui radici affondano in un secolare passato - tra la popolazione serba e quella albanese. Esso si era manifestato a più riprese anche nella “seconda Jugoslavia” (la repubblica federativa socialista fondata nel 1945 in seguito alla vittoriosa lotta di liberazione antinazista) con esplosioni violente (in particolare nella primavera del 1981) e si era acuito durante il decennio (anni ’90) di guerre e dissoluzione della Jugoslavia, cui contribuirono non poco le ingerenze esterne dei paesi della NATO, in primis Stati Uniti e Germania. Nel 1998 lo scontro militare tra milizie armate albanesi organizzate nell’UCK (organizzazione che la stampa USA più accreditata definiva qualche anno prima “terrorista”) ed esercito e polizia serbi si era esteso.
Fu il pretesto per la guerra della NATO, cui dette un apporto determinante anche il governo italiano.Dopo 78 giorni di bombardamenti il governo jugoslavo accettò l’armistizio di Kumanovo, e ritirò tutti i suoi militari dal Kosovo. La risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU (che non aveva mai avallato la guerra contro la Jugoslavia) prese atto della nuova situazione e stabilì una sorta di protettorato delle Nazioni Unite (sotto l’acronimo UNMIK) sulla provincia serba del Kosovo, riaffermando però l’appartenenza della provincia alla repubblica serba. Non appena entrati in Kosovo, gli USA costruirono a tempi da record nei pressi di Urosevac la più grande base militare in Europa, Camp Bondsteel. Le truppe dei paesi della NATO - quasi 50.000 militari – occuparono, sotto le insegne della KFOR, le zone in cui la provincia fu suddivisa tra francesi, inglesi, tedeschi, italiani (oltre agli USA).
Con la fine dei bombardamenti e l’occupazione militare del Kosovo, si spengono i riflettori dei media, che nei mesi precedenti avevano svolto un ruolo essenziale nell’orientare le popolazioni europee ad accettare e giustificare l’aggressione della NATO come dolorosa, ma necessaria e inevitabile, “guerra umanitaria”. Quanto accade nella provincia occupata militarmente dalla NATO e amministrata dall’UNMIK sotto la guida del “medico senza frontiere” Kouchner (oggi ministro degli esteri francese) non deve più interessare le popolazioni europee; il Kosovo diventa un buco nero. Quasi nessuno parla delle migliaia di uccisi tra la popolazione non albanese dopo il giugno 1999, delle migliaia di sequestri di persona, i cui corpi amputati si ritrovano dopo anni, dell’espulsione coatta di oltre duecentocinquantamila persone, nella stragrande maggioranza serbi e rom, che cercano rifugio in un paese già profondamente immiserito dai bombardamenti e dall’embargo, decretato dalla “comunità internazionale” per continuare la guerra con altri mezzi. Né si parla della distruzione dei più importanti luoghi della memoria della cultura serba, che ha proprio in Kosovo le sue più importanti radici: monasteri medievali, chiese ortodosse, monumenti, messi a ferro e fuoco dalla furia di un nazionalismo esasperato, che pretende non solo di espellere o eliminare i vivi, ma di cancellare anche ogni traccia di un’antica presenza su un territorio su cui si arroga esclusiva e assoluta giurisdizione. Dell’inferno che serbi, rom e minoranze non albanesi stanno patendo in Kosovo i media sembrano accorgersi soltanto quando esplodono i pogrom del marzo 2004, in cui vengono assaliti quartieri e villaggi serbi, con decine di uccisi, migliaia di feriti, migliaia di nuovi profughi, mentre gli antichi monasteri medievali sono devastati e dati alle fiamme.
Dopo i pogrom di marzo 2004 la condizione delle minoranze braccate e costrette a vivere in enclave guardate a vista da militari della KFOR in una prigione a cielo aperto non è sostanzialmente migliorata, come scrivono anche i rapporti del segretario delle N.U.: la sopravvivenza è una sfida quotidiana, gli spostamenti da una zona all’altra continuano ad essere molto rischiosi, continua lo stillicidio di violenze e assassinii, che induce i pochi serbi rimasti a fuggire e scoraggia i profughi dal rientrare.
Le strutture politiche, giuridiche, economiche costruite dall’amministrazione di ONU e UE in Kosovo hanno teso a separare definitivamente la provincia dalla Serbia, in violazione della risoluzione 1244. Le minoranze di serbi, rom e non albanesi non hanno effettiva possibilità di rappresentanza politica e di gestione della provincia. Vige un apartheid di fatto.
Frattanto, distrutte le radici della precedente economia agricola e industriale della provincia – quasi tutto ormai, dalle patate ai pomodori, viene importato – il Kosovo è diventato, come denunciano anche l’ex capo della KFOR, gen. Fabio Mini e la rivista liMes (cfr. Kosovo, lo stato delle mafie, suppl. al n. 6/ 2006) l’epicentro delle mafie balcaniche, il maggior centro di smistamento dei traffici di armi, droga, schiave del sesso, mentre affluiscono in Kosovo dalla UE fiumi di denaro per assistere la provincia, quasi nella medesima quantità di quelli destinati all’intero continente africano.
Dopo il 2004 si sono avviati colloqui per decidere lo status definitivo della provincia, per il quale il governo di Belgrado si è dichiarato disponibile a varare la più ampia autonomia amministrativa, ma non la secessione di una regione che, cuore della cultura della nazione serba, rappresenta molto di più dei 10.000 kmq del suo territorio. La recente nuova costituzione della repubblica serba, approvata dal referendum del 2006, iscrive il Kosovo quale parte integrante del territorio dello stato. Gli albanesi del Kosovo, forti del sostegno esplicito degli USA e dei più influenti circoli e think-tank della penetrazione americana nei Balcani e nell’Europa orientale, esigono nulla di meno dell’indipendenza, manifestando la volontà di dichiararla unilateralmente, anche contro il Consiglio di sicurezza dell’ONU, in cui la Russia si oppone con forza ad ogni modificazione dello status della provincia senza il consenso di tutte le parti interessate, e quindi anche di Belgrado.
Tra i paesi della UE non c’è unanimità. Il riconoscimento di uno stato autoproclamatosi indipendente contro il Consiglio di sicurezza dell’ONU e in violazione della risoluzione 1244 del 1999 aprirebbe un pericoloso precedente e sarebbe la martellata definitiva sul diritto internazionale già gravemente compromesso dalla dottrina strategica degli USA che negli ultimi anni hanno voluto imporre, dall’Afghanistan all’Iraq, il diritto del più forte.
Il governo italiano, nonostante appelli e dichiarazioni di diversi parlamentari, si è sino ad ora, salvo qualche distinguo, allineato con la prepotenza USA, disponendosi al riconoscimento del nuovo stato, che il leader dell’UCK Thaci, attuale premier del Kosovo sotto amministrazione ONU, dichiara di voler proclamare a breve.
L’indipendenza del Kosovo può significare in queste condizioni solo un’ulteriore esclusione ed espulsione delle minoranze serbe, rom e non albanesi, ed un altro pesante schiaffo alla popolazione serba, la più bombardata e decimata nel XX secolo, la più punita per essersi opposta alle mire delle grandi potenze nei Balcani: nel 1914 agli imperi centrali, nel 1941 ad Hitler, nel 1999 alla NATO.
Affronteremo queste questioni saranno affrontate sotto il profilo politico, giuridico, storico, culturale nel convegno di giovedì 31 gennaio (ore 17.00, aula 8 della Facoltà di Lingue, Via Garruba 6 – Bari II piano) con
Andrea Catone, associazione Most za Beograd - un ponte per Belgrado in terra di Bari;
Ugo Villani, docente di Istituzioni di Diritto dell'Unione Europea, Università “La Sapienza", e di Diritti Umani presso la Luiss;
Nico Perrone, docente di Storia dell'America, Università di Bari;
Dragan Mraovic, già console jugoslavo a Bari, opinionista collaboratore di Geopolitika, Dan e altre riviste;
Augusto Ponzio, docente di Filosofia del linguaggio e Linguistica generale, Università di Bari;
Silvia Godelli, assessore al Mediterraneo della Regione Puglia;
Laura Marchetti, sottosegretaria al Ministero dell’ambiente.
Info: 0805562663 - 3889226560
Most za Beograd – Un ponte per Belgrado in terra di Bari - Associazione culturale di solidarietà con la popolazione jugoslava
L’associazione opera per la diffusione di una cultura critica della guerra e il riavvicinamento tra i popoli con culture, etnie, religioni ed usanze diverse al fine di una equa e pacifica convivenza. Si impegna per la diffusione di un forte senso di solidarietà nei confronti della popolazione jugoslava e degli altri popoli vittime della guerra. Ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
In particolare l’associazione:
- promuove, attraverso raccolte di fondi e donazioni iniziative di solidarietà nei confronti delle vittime della guerra nel campo sanitario, scolastico, alimentare e in ogni altro campo.
- promuove iniziative di sostegno a distanza di bambini jugoslavi
- promuove iniziative di gemellaggio tra enti locali italiani e jugoslavi, tra scuole italiane e jugoslave
- promuove scambi culturali e di amicizia verso il popolo jugoslavo
- promuove iniziative di conoscenza della storia e della cultura jugoslave