Privatizzazioni
Do you remember Zastava?
Dopo le bombe umanitarie e la cura liberista l'auto serba va fuori strada
da il Manifesto del 7.2.2008 p.20
Dei 38 mila dipendenti del gigante industriale jugoslavo solo 6 mila hanno mantenuto il lavoro. 300 assemblano Fiat Punto, gli altri sono finiti in mani slovene, bulgare, norvegesi. E il paese è alla fame
Loris Campetti
«Al cuore, colpiscila al cuore. E la Zastava è stata colpita al cuore, poi alle braccia e alle gambe, un colpo le ha fatto esplodere il polmone e un altro il cervello. Adesso tonnellate di lamiera contorta e di cemento riposano senza pace nel fango. Due cornacchie amoreggiano sopra i resti del centro elaborazione dati». Iniziava così un nostro reportage da Kragujevac nel '99, quando i detriti lasciati dalle bombe e dai missili della Nato sulla più grande fabbrica di automobili dei Balcani erano ancora caldi. Ora alla Zastava non ci sono più le carcasse carbonizzate delle vetture Jugo 45 e Jugo 55 ma fiammanti Punto, seppure il modello vecchio. Nove anni fa, nelle 34 fabbriche del gigante serbo apparentato con la Fiat sia nel settore auto che in quello dei camion (Zastava Kamiona), lavoravano 38 mila persone. Oggi, dopo i licenziamenti seguiti ai bombardamenti, i dipendenti dell'auto sono crollati da 13.500 a 3.500 e dei 38 mila complessivi del gruppo solo 6.000 hanno mantenuto il posto di lavoro. Gli altri tutti a casa, con una buonuscita pari a 200 euro per ogni anno di anzianità, bruciati in poco tempo dalla precipitazione della crisi economica. Il ministro del lavoro aveva suggerito agli ex-operai di investire quel misero gruzzoletto in un'attività in proprio, in un paese allo stremo dove mancano i beni esserziali e le privatizzazioni riempiono gli uffici di collocamento di quarantenni e cinquantenni. I licenziati Zastava li trovavi, fino a pochi mesi fa, al mercatino delle pulci dove tentavano di vendere il poco che hanno, mobilia, cianfrusaglie, poveri prodotti dell'orto, ricordi sbiaditi dell'epopea jugoslava. Adesso il terreno dove sorgeva quel piccolo suq è stato venduto a una società slovena. Per costruirci un supermercato. Così gli ex-operai non hanno più neanche un luogo dove scambiare, con le cianfrusaglie, qualche malinconia e le poche, residuali speranze per il futuro.
A una lunga stagione di latitanza - bellica e postbellica - della multinazionale torinese, hanno fatto seguito prima il pagamento alla Fiat del debito Zastava da parte del governo di Belgrado e, un anno fa, un accordo limitato per la costruzione nella fabbrica serba di alcune migliaia di vetture Punto: solo assemblaggio di pezzi e componenti provenienti dall'Italia, su una linea che ora si chiama «Zastava ten», trasferita a Kragujevac direttamente da Mirafiori. «Licence by Fiat», qualche capetto formato a Mirafiori, un corso di sei mesi di lingua italiana e 300 lavoratori occupati, dipendenti di un'azienda esterna la cui proprietà - ci dice un operaio della Zastava, tra i pochi ancora stipendiati ma senza un lavoro da svolgere - non è nota. L'obiettivo di vendere un po' di vetture è vincolato alla ripresa di una domanda interna, oggi praticamente inesistente, e all'esportazione in Russia e nei vicini paesi dell'est, Bosnia in primis. Sapendo però che la maggior parte dei marchi automobilistici orientali è stata o assorbita da giganti occidentali (è il caso della Trabant, nell'ex Ddr, finita in mano Volkswagen che ne ha rottamato il marchio), o acquistata dalle multinazionali delle quattro ruote (le ex-cecoslovacche Skoda e Tatra, la rumena Dacia), o trasformata in società miste (le russe Auto Vaz e la Uaz, l'ucraina Zaz). Un eccesso di concorrenza in un mercato che arranca, in cui opera anche la Fiat polacca, controllata in toto dai torinesi.
Alcune multinazionali europee e occidentali, tra cui la Opel interessata a impiantare una linea per la fabbricazione della Corsa, hanno studiato l'ipotesi di mettere le mani sulla fabbrica di automobili di Kragujevac. Non se ne è fatto nulla. La Peugeot ha anche stipulato un accordo per l'avvio di una linea di produzione rimasto però soltanto sulla carta. Tra la Zastava Kamiona e la Fiat Iveco, invece, è finito qualsiasi rapporto e la produzione ristagna così come i dipendenti, ridotti a 600 unità. Va avanti la privatizzazione decisa dai governi liberisti succedutisi a Belgrado del gigante ferito dalle bombe umanitarie e stremato dalla crisi, ed entro il 2008 si dovrà concludere in tutte le 34 aziende del gruppo, pena la loro liquidazione. La fabbrica di attrezzeria è stata acquistata dalla Union slovena; occupa 380 operai specializzati che lavorano - su vecchie macchine italiane - prodotti destinati all'esportazione, un drappello pagato decisamente meglio della media degli operai serbi, 400 euro al mese contro i 250 del settore auto. Anche la selleria è di proprietà slovena e lavora su commesse della Opel. Le fucine sono passate dallo stato serbo a una società bulgara che paga i suoi 250 dipendenti 220 euro ed esporta i prodotti ottenuti dallo stampaggio a caldo. Restano da privatizzare, insieme all'auto e ai camion, la componentistica plastica i ricambi. L'impiantistica e la carpenteria sono invece passate in mano norvegese e i 180 dipendenti sopravvissuti lavorano per le piattaforme petrolifere del nord-Europa. Ben poco si sa della fabbrica di armi, trasferita dal sito Zastava chissà dove. Quel che è certo è che continua a produrre pistole, fucili e materiale bellico non solo per l'esercito serbo ma anche per altri soggetti. Nato compresa, si dice sottovoce a Kragujevac.
Un gruppo di delegate e dirigenti sindacali della Zastava guidate da Rajka, ottimo italiano e un altrettanto ottimo lavoro legato all'adozione a distanza dei figli di lavoratori licenziati dalle bombe, ci aggiorna sulle condizioni disperate in cui vivono migliaia di famiglie nella Torino jugoslava, Kragujevac. Le adozioni - a cui hanno lavorato la Fiom, alcune Camere del lavoro italiane, i lettori del manifesto e di cui si occupa tra gli altri l'ong romana Abc-Solidarietà e pace - sono un po' diminuite nel tempo, ma coinvolgono ancora 1.800 bambini e bambine. Alla mancanza dei beni di prima necessità, dice Rajka, si aggiungono i problemi di salute, ingigantiti dalle conseguenze dell'inquinamento provocato dai bombardamenti, in particolare del reparto verniciatura da cui sono fuoriusciti liquidi altamente tossici. Da anni è aperta (in Serbia, ma anche nell'Unione europea) una polemica sull'uso delle bombe all'uranio impoverito nel sud del paese, negato dalla Nato e per motivi di «ordine pubblico» da Belgrado e in qualche modo suggerito dall'aumento spaventoso di tumori e leucemie nella popolazione della città, soprattutto tra gli operai che hanno bonificato la fabbrica. Non esistono statistiche attendibili: nei reparti onocologici degli ospedali di Kragujevac e Belgrado regna la reticenza, gli epidemiologi si rifiutano di parlare con i giornalisti. Solo sulle bombe a grappolo cominciano a circolare i primi dati.
Così si vive e si muore nella Detroit balcanica. I pochi fortunati che hanno conservato un lavoro lo eseguono in condizioni impensabili, senza pause per sette giorni a settimana. Gli infortuni, che in questa situazione non possono che aumentare, vengono taciuti dagli stessi lavoratori per paura di perdere posto e stipendio. Guerre, bombardamenti e politiche liberiste incentrate sulle privatizzazioni hanno ridotto allo stremo una popolazione costretta a condividere la propria miseria con quella importata dal vicino Kosovo, i cui profughi si accalcano in poveri campi alla periferia di Kragujevac. Siamo vicini all'emergenza umanitaria.