(english / italiano)

Neil Clark sulla perdurante crisi jugoslava

1) È tempo di mettere fine ai soprusi contro i Serbi (The Guardian,

2) Kosovo: A crisis of West's own making (The Australian, December 24, 2007)


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(en francais:  Il est temps de mettre un terme aux brimades contre les Serbes


Traduzione dall’inglese al francese di  Jean-Marie Flémal;
traduzione dal francese di Bettio Curzio di Soccorso Popolare di Padova

 
14/01/2008

È tempo di mettere fine ai soprusi contro i Serbi 

di Neil Clark
 
Come i Serbi sono stati demonizzati, in quanto si sono opposti in permanenza alle ambizioni egemoniche dell’Occidente nella regione Balcanica.
 
Nel Cif dell’ultima settimana, [la sezione Libri commentari del « The Guardian »], Anna di Lellio, che è stata consigliere politico di Agim Çeku, ex Primo Ministro Kosovaro e, a suo tempo, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito di Liberazione del Kosovo [l’UCK], pretende che “il nazionalismo Serbo, che si era solo parzialmente attenuato dopo la caduta di Milosevic”, sta rinvenendo con le sue “vecchie tattiche”.
Di Lellio ha presentato ben poche prove delle sue affermazioni, eccezion fatta per una dichiarazione del parlamento Serbo ribadente – oh! orrore estremo! – che il paese è determinato a difendere la sua integrità, come gli è consentito dal diritto internazionale.
Ciò che, senza dubbio alcuno, “rinvengono a tutta forza” e secondo le loro “vecchie tattiche” sono i soprusi contro i Serbi messi in atto dai media occidentali, (ivi compreso, è triste a dirlo, il Cif), di cui Di Lellio resta una dei numerosi responsabili. 
I Serbi sono stati demonizzati, non perché costituiscano la parte più responsabile delle guerre di secessione degli anni Novanta – e non lo sono stati! –, ma piuttosto perché hanno con costanza ostacolato la strada delle ambizioni egemoniche dell’Occidente nella regione Balcanica.

Per l’Occidente era del tutto spontaneo che la Jugoslavia venisse distrutta e che questo Stato indipendente e militarmente forte venisse rimpiazzato da una molteplicità di protettorati deboli e divisi dalla forbice del trio NATO-FMI-UE.
“Nell’Europa del dopo Guerra Fredda, non restava posto per un vasto Stato socialista dalle vedute indipendenti e resistente alla globalizzazione mondiale”, riconosceva George Kenney, ex alto funzionario per la Jugoslavia del Dipartimento di Stato USA [= gli Affari Esteri]. 
Il grande “crimine” dei Serbi è stato quello di non avere letto la sceneggiatura!
Di tutti i gruppi della ex Jugoslavia, erano i Serbi, la cui popolazione era distribuita in tutto il paese, che avevano più da perdere dalla disintegrazione del paese. 


Nel corso di una riunione all’Aja nell’ottobre 1991, i dirigenti delle sei Repubbliche della Federazione furono invitati dagli “arbitri” della Comunità Europea  a sottoscrivere un documento dal titolo “La fine della Jugoslavia sulla scena internazionale”. 
Solo uno fra loro – il dirigente Serbo Slobodan Milosevic –  rifiutava di firmare il “certificato di decesso” del suo paese.
Milosevic dichiarò in quella occasione: “La Jugoslavia  non è stata creata per il consenso di sei uomini e non può essere distrutta adesso dal consenso di sei uomini!”
Per questa frase pro-Jugoslavia, Milosevic fu ricompensato da un decennio di demonizzazioni sui media occidentali.
Malgrado le sue vittorie elettorali assolutamente regolari in un paese dove 21 partiti politici operavano liberamente, Milosevic fu (ed è sempre) sistematicamente trattato da “dittatore”, una descrizione per la quale il suo biografo Adam LeBor, che nondimeno gli è sempre stato ostile da cima a fondo, ammette essere “scorretta”. 
Alcuni tentativi di imputare a Milosevic fatti nei quali non aveva giocato il ben che minimo ruolo sono risultati ridicoli: in un articolo del The Guardian, nel 2006, Timothy Garton Ash, un professore di studi Europei, sottolineava come gli Sloveni “avessero tentato di rompere con la Jugoslavia di Slobodan Milosevic già nel 1991”, anche se, all’epoca, il Presidente della Jugoslavia era di fatto il Croato Ante Markovic (una correzione di questa affermazione veniva pubblicata in seguito). 
Dato il modo abituale in Occidente di riscrivere la storia, “Slobo” e i Serbi hanno dovuto sopportare il biasimo dello scatenamento della guerra in Bosnia. 
Infatti, l’uomo che ha dato fuoco alle polveri in questa guerra particolarmente brutale non è stato Milosevic, nemmeno sono stati i dirigenti Serbi di Bosnia, ma bensì l’ambasciatore degli Stati Uniti, Warren Zimmerman, che aveva persuaso il secessionista Bosniaco Alija Izetbegovic di rinnegare la sua firma sull’accordo di Lisbona del 1992, che aveva assicurato la scissione pacifica della Repubblica. 
Nemmeno dopo l’accordo di Dayton del 1995, che aveva posto fine ad un conflitto assolutamente inutile, non ebbe un istante di requie la serbofobia dell’Occidente.
 
In Kosovo, obiettivi strategici hanno indotto l’Occidente a scegliere il campo dei fanatici dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), un gruppo ufficialmente catalogato come organizzazione terroristica dal Dipartimento di Stato degli USA.
Nessuno, e certamente nessun Serbo di mia conoscenza, negherà che le forze Serbe abbiamo commesso atrocità durante le guerre Balcaniche e che i responsabili di queste azioni dovrebbero renderne conto davanti ad una corte di giustizia, (ma che non sia finanziata dalle potenze che hanno bombardato illegalmente il loro paese, la Serbia, quasi per dieci anni). 

Ma un fatto provoca una collera senza misura nei Serbi: che le atrocità Serbe abbiano ricevuto grande risonanza sui media occidentali, mentre le atrocità perpetrate dagli altri partecipanti al conflitto siano state completamente passate sotto silenzio.  
Nel momento in cui l’attenzione massiccia dei media si concentrava sulle ostilità, comunque su scala ridotta e del tipo “occhio per occhio e dente per dente”, fra le forze armate Jugoslave e l’UCK, nel 1998 e nel 1999, l’Operazione Tempesta  – che, si stima, abbia espulso dalla Croazia qualcosa come 200.000 Serbi nel corso di una operazione che aveva ricevuto l’appoggio logistico e tecnico degli Stati Uniti – fu a mala pena menzionata.
Assolutamente nessuna pubblicità per massacri come quello del giorno del Natale ortodosso, nel 1993, di 49 Serbi del villaggio di Kravice, non lontano da Srebrenica. La città ha recentemente organizzato una cerimonia di commemorazione nel 15.esimo anniversario di questo orrore : non era presente un solo membro della cosiddetta “comunità internazionale”!
E oggi che il Kosovo balza nuovamente agli... onori della cronaca , i  “demolitori dei Serbi” sono di nuovo in libera uscita, e in forze.  
Una volta di più, la questione controversa viene descritta in termini manichei.

Quando sono stati messi sottosopra cielo e terra in conseguenza dei trattamenti inflitti agli Albanesi del Kosovo da parte delle forze Jugoslave nel 1998 e 1999, non si sono dette grandi cose relativamente alla campagna di intimidazioni dell’UCK, tradottasi nell’esodo – per stime successive – di circa 200.000 fra Serbi, Rom, Bosniaci, Ebrei e altre minoranze della Provincia, anche dopo che “la comunità internazionale” era arrivata a metterci il naso. 
«Nessuna parte in Europa ha visto un fenomeno di segregazione simile a quello presente in Kosovo... In nessuna parte del mondo esistono disseminati tante città e paesi “etnicamente puri” come in questa Provincia tanto piccola. In nessuna parte si alligna nelle minoranze una così grande dimensione di paura di vedersi angariate, semplicemente in quanto minoranze.
Per i Serbi e le altre minoranze, che devono patire l’espulsione dalle loro case, le discriminazioni e le restrizioni, la proibizione di parlare nella loro lingua, il modello di violenza che hanno sopportato durante un così lungo tempo potrebbe sicuramente funzionare come norma di legge del nuovo Kosovo, finché proseguiranno le discussioni sul futuro Statuto.»
Questa la conclusione del rapporto del Gruppo dei Diritti delle Minoranze relativamente al Kosovo “liberato” – ma attenzione, le affermazioni del Gruppo sono quelle di un guastafeste che non biasima i Serbi!
L’indipendenza del Kosovo è una semplice questione di autodeterminazione, questo ci viene continuamente ripetuto. Comunque, il medesimo principio non si applica ai Serbi di Bosnia, che si auguravano di ricongiungersi alla Serbia.
Al posto di farsi campioni del secessionismo Kosovaro, in totale disprezzo del diritto internazionale, la Gran Bretagna e l’Occidente farebbero molto meglio a riconsiderare la loro politica nei riguardi della Serbia.
È troppo tardi per annullare i crimini del passato – come la barbara campagna di bombardamenti della NATO del 1999 – ma, se si modificasse la politica della NATO relativa al Kosovo, questo costituirebbe almeno un avvio verso la correzione di ingiustizie degli ultimi vent’anni. È  proprio arrivato il tempo di concedere un respiro ai Serbi!   

 
 Documento messo in diffusione in francese dalla lista  JUGOINFO, curata da componenti del
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia – ONLUS  https://www.cnj.it/   


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The Australian
December 24, 2007

A crisis of West's own making 

by Neil Clark 

Powerful Western nations make threats to Serbia. 

Serbia, backed by Russia, ignores the ultimatums. A
war ensues. That was the scenario in the summer of
1914, when the world plunged into the war to end all
wars. Nearly a century on, the situation is uncannily
similar.

Despite Western threats for it to accept Kosovan
independence, Belgrade is standing firm. Serbian armed
forces are on standby to reclaim the province by force
if necessary. Russia has promised Serbia its support. 

If war does follow, then Serbia will no doubt be
blamed by Western governments for not toeing the line.
But it would be an unfair judgment. 

The present crisis in Kosovo has been caused not so
much by Serbian intransigence, but by the West's
policy of intervention in the internal affairs of
sovereign states, which, over the past decade has
caused chaos, not only in the Balkans, but across the
globe. 

Ten years ago, Kosovo was at relative peace. Albanian
demands for independence from Belgrade were being
channeled through the peaceful Democratic League party
of Ibrahim Rugova, while the small groups of Albanian
paramilitaries that did exist were isolated and had
little public support. 

According to a report by Jane's intelligence agency in
1996, the Kosovo Liberation Army, the most extreme of
Albanian paramilitary groups, does not take into
consideration the political or economic importance of
its victims, nor does it seem at all capable of
hurting its enemy. 

It has not come close to challenging the region's
balance of military power. As late as November 1997,
the KLA, officially classified by the US as a
terrorist organisation, could, it has been estimated,
call on the services of only 200 men. 

Then, in a policy shift whose repercussions we are
witnessing today, the West started to interfere big
time. The US, Germany and Britain increasingly saw the
KLA as a proxy force which could help them achieve
their goal of destabilising and eventually removing
from power the regime of Slobodan Milosevic, which
showed no inclination to join Euro-Atlantic
structures. 

Over the following year, the KLA underwent a drastic
makeover. The group was taken off the US State
Department's list of terrorist organisations and, as
with the Mujahideen in Afghanistan a decade or so
earlier, became fully fledged freedom fighters. 

Large-scale assistance was given to the KLA by Western
security forces. Britain organised secret training
camps in northern Albania. The German secret service
provided uniforms, weapons and instructors. 

The Sunday Times in Britain published a report stating
that American intelligence agents admitted they helped
to train the KLA before NATO's bombing of Yugoslavia.
Meanwhile, Rugova's Democratic League, which supported
negotiations with Belgrade, was given the cold
shoulder. 

When the KLA's campaign of violence, directed not only
against Yugoslav state officials, Serb civilians and
Albanian collaborators who did not support their
extremist agenda, led to a military response from
Belgrade, the British and Americans were ready to hand
out the ultimatums. 

During the 79-day NATO bombing of Yugoslavia that
followed, the West made promises of independence to
the KLA which, eight years on, are coming back to
haunt them. 

Recognising an independent Kosovo will push Serbia
from the Western orbit as well as creating a real
chance of war. And it will set a precedent: if the
rights of self-determination for Kosovan Albanians are
to be acknowledged, then what about the rights of
self-determination for Serbs in Bosnia, who wish to
join Serbia? 

Doing a U-turn, and attempting to get independence
postponed, runs the risk of violence from Kosovo's
Albanian majority. It's an almighty mess, but one of
the West's own making. 

Had it not intervened in Yugoslav internal affairs 10
years ago, it is likely a peaceful compromise to the
Kosovan problem would eventually have been found
between the government in Belgrade and the Democratic
League. Rugova's goal was independence for Kosovo from
Serbia, but only with the agreement of all parties. 

What is certain is that without Western patronage the
KLA would never have grown to the force it eventually
became. 

By championing the most hardline force in Kosovo, the
West not only helped precipitate war, but made the
issue of Kosovo much harder to solve. 

It is ironic that for supporters of liberal
intervention, Western actions in Kosovo are still seen
to have been a great success. It was at the height of
the NATO bombing campaign against Yugoslavia in 1999
that the then British prime minister, Tony Blair, made
his famous speech at Chicago in which he outlined his
doctrine of the international community. 

Blair argued that the principle of non-interference in
the affairs of sovereign states - long considered an
important principle of international order - should be
subject to revision. "I say to you: never fall again
for the doctrine of isolationism," Blair pleaded. 

But after surveying the global debris of a decade of
Western interference, from the Balkans to Afghanistan
and Iraq, is it any wonder that isolationism and
observing the principle of non-interference in the
affairs of sovereign states again seems so appealing? 

Neil Clark, a regular contributor to The Spectator and
The Guardian in Britain, teaches international
relations at Oxford Tutorial College.