Vi mando per conoscenza il testo di un articolo di prossima
pubblicazione
che completa la parte sugli aspetti economici della distruzione della
Jugoslavia dell'intervento di Barone, Martocchia e mio su "Nuove
guerre".
Testo che non era stato possibile includere nel libro per motivi di
spazio.
Seguono anche notizie sulla rivista "L'Ernesto" dove l'articolo sara'
pubblicato.
Invio questo stesso testo alla redazione del nostro sito internet per
il suo eventuale inserimento in quella sede.
Cordialmente,
Franco Marenco
(dalla mailing list del Comitato scienziate/i contro la guerra)
_______________________________________________________________________
I falchi e gli usurai
Il ruolo dell'imperialismo di FMI, Banca Mondiale
e NATO nella distruzione della Jugoslavia
Franco Marenco
------------------------------------------------------------------------
Per me la Jugoslavia era l'Europa. Io ci andavo, anche a piedi, non
solo in
autobus o in macchina o in aeroplano. La Jugoslavia, per quanto
frammentata
sia potuta essere, era il modello per l'Europa del futuro. Non l'Europa
come
e' adesso, la nostra Europa in un certo senso artificiale, con le sue
zone di
libero scambio, ma un posto in cui nazionalita' diverse vivono
mischiate
l'una con l'altra, specialmente come facevano i giovani in Jugoslavia,
anche
dopo la morte di Tito. Ecco, penso che quella sia l'Europa, per come
io la
vorrei. Percio', in me l'immagine dell'Europa e' stata distrutta
con la
distruzione della
Jugoslavia.
(Peter Handke, intervista
televisiva)
------------------------------------------------------------------------
Il Fondo Monetario Internazionale e' il braccio finanziario della NATO?
La
domanda sembra pertinente se vengono esaminati con l'attenzione dovuta i
dati relativi all'azione congiunta di queste due organizzazioni nei
Balcani.
Quello che si puo' dire con certezza e' che i mezzi di informazione di
massa
hanno tralasciato di approfondire il ruolo rivestito dalle istituzioni
finanziarie internazionali nella distruzione della Federazione Jugoslava
nata dopo la seconda guerra mondiale. Strettamente parlando, questa
distruzione e' collegata alle avventure politiche e militari dell'ultimo
decennio: dalla secessione della Slovenia e della Croazia nel 1991 al
massiccio bombardamento nel 1999 dell'odierna Jugoslavia (ridotta alle
repubbliche di Serbia e Montenegro). Tuttavia, se il susseguirsi degli
avvenimenti viene studiato attentamente si riscontra un forte ruolo
attivo
avuto dai paesi occidentali, capeggiati dagli Stati Uniti sotto l'egida
del
Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
La disintegrazione della Federazione e' servita per una completa
riorganizzazione dei Balcani: la Slovenia e la Croazia sono potute
entrare
appieno nell'area d'influenza tedesca e la Germania ha ottenuto un
accesso
piu' diretto al Mare Adriatico. Gli Stati Uniti hanno potuto rafforzare
la
propria influenza militare sul Vecchio Continente ed impiantare nuovi
contingenti di truppe. D'altra parte, la Macedonia e' diventata il
centro di
una sfera di interessi americana: questa piccola repubblica e'
strategica,
difatti, in quanto controlla importanti valichi fra l'Est e l'Ovest e
fra il
Nord e il Sud nelle montagne dei Balcani. Tutta la regione e' importante
per
la sua posizione geografica e per la sua funzione di collegamento fra la
Mitteleuropa ed la Turchia cosi' come fra il Mar Nero e l'Adriatico.
Alcuni mezzi di informazione piu' attenti degli altri hanno dato le
notizie
relative ai singoli eventi che qui saranno raccontati; tuttavia, e' solo
considerando l'insieme di questi fatti che si puo' avvertire appieno la
drammatica coerenza che e' ad essi sottesa. Alla fine dell'articolo
viene
fornita una breve bibliografia per coloro che sono interessati ad un
approfondimento; bisogna dire pero' che buona parte delle notizie
proviene da
"fonti orali:" esse non trovano spazio sulla grande stampa per cui
rimangono
circoscritte all'interno di una cerchia di persone particolarmente
attente e
di alcune liste di discussione in internet.
Prima fase: l'indebitamento
Durante gli anni Settanta la crisi energetica spinse il Maresciallo Tito
a
condurre una politica di investimenti per la costruzione di impianti e
il
riammodernamento delle infrastrutture: questa politica passo' attraverso
un
grosso indebitamento. Il debito ebbe modo di crescere anche perche' dopo
avere ottenuto nel 1974 un'autonomia piu' ampia, le repubbliche
costitutive
si sentirono autorizzate a contrarre debiti per proprio conto, al di
fuori
della programmazione federale. Il risultato fu che, gia' al momento
della
morte di Tito, la Jugoslavia era dominata in buona parte dalla finanza
mondiale.
Gli anni Ottanta furono caratterizzati da una grave crisi economica, nel
corso della quale crebbe ulteriormente il divario Nord-Sud. Le
importazioni
diminuivano fortemente; invece, le esportazioni furono favorite per
mezzo di
un'inflazione galoppante: 40% nel 1981, 170% nel 1987, e piu' del 1000%
negli
anni successivi. L'indebitamento diventava intollerabile e gia' nel 1987
il
tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 17%. Questa situazione deve
essere confrontata, per esempio, con la situazione vigente nel periodo
degli
anni Sessanta e Settanta: crescita media annua del PIL intorno al 6%;
cure
sanitarie gratuite (con un medico ogni 550 abitanti); tasso di
alfabetizzazione pari al 90%; aspettativa di vita pari a 72 anni. Ma nel
1980 la disparita' economica e sociale fra le repubbliche era diventata
enorme, e questa frattura era destinata ad approfondirsi.
La Slovenia, repubblica in assoluto piu' ricca e sviluppata della
Federazione, aveva un prodotto nazionale pro capite comparabile a quello
spagnolo o a quello irlandese. Il prodotto nazionale lordo della
repubblica
rappresentava il 22% del prodotto federale, con soltanto l'8% della
popolazione. Essa aveva allacciato forti relazioni economiche con la
Germania e con numerose amministrazioni locali italiane ed austriache, e
il
tasso di disoccupazione si attestava intorno ad appena l'1-2%. Al
gradino
piu' basso della scala economica vi era invece la provincia autonoma del
Kosovo, con un prodotto nazionale pro capite pari ad un sesto di quello
sloveno, e comparabile a quello del Marocco o della Nigeria. Qui, nel
1988
un terzo della popolazione risultava senza occupazione, e il tasso di
analfabetismo era del 18%; il tasso di natalita', invece, era il piu'
alto
d'Europa (2,5% all'anno). Buona parte della popolazione abbandonava la
provincia, a causa delle sue tragiche condizioni economiche.
Tra gli estremi della Slovenia e del Kosovo si trovavano la repubblica
di
Croazia e la provincia di Vojvodina: entrambe sopra la media jugoslava
ma
con un prodotto pro capite pari a circa la meta' di quello sloveno.
Sotto la
media, invece, si trovavano la Serbia, il Montenegro, la Macedonia e la
Bosnia-Erzegovina. Non si puo' dire che la Federazione non tentasse di
compensare queste differenze economiche: ingenti risorse venivano
destinate
ad un apposito "fondo per lo sviluppo delle regioni arretrate" analogo
alla
nostra Cassa per il Mezzogiorno. Questa politica diede in parte
risultati
positivi, come il miglioramento del sistema sanitario e
dell'insegnamento
superiore. In Kosovo l'aspettativa di vita crebbe da 48 anni a 66 in
vent'anni, mentre i tre quarti degli investimenti provenivano dalle
casse
federali. E tuttavia cio' non era sufficiente: relativamente al Nord
ricco
della Jugoslavia il ritardo economico della provincia continuava ad
accentuarsi. Parzialmente responsabile lo era stata la riforma economica
del
1965, che aveva consentito l'aumento secondo criteri di "mercato" dei
prezzi
dei prodotti finiti (fabbricati nel Nord della Federazione) pur
mantenendo
molto basso quelli delle materie prime, di cui erano ricche le province
meridionali.
Nel frattempo era calata la collaborazione con gli altri paesi dell'Est,
ed
in particolare erano venute a mancare le forniture di petrolio sovietico
a
condizioni agevolate. Il livello astronomico dell'inflazione aveva
distrutto
il sistema monetario della Federazione e i meccanismi decentrati
dell'economia "autogestita" avevano privato il governo centrale degli
strumenti di coordinamento della politica economica. La Slovenia e la
Croazia, le repubbliche piu' avanzate e produttive nelle quali affluiva
una
gran quantita' di valuta estera, si battevano per mantenere una
posizione
privilegiata. Le repubbliche economicamente arretrate, guidate dalla
Serbia,
tentavano invece di introdurre misure di controllo fiscale e monetario.
A
livello locale, una serie di progetti insensati e spreconi dissipavano
le
risorse che la Federazione otteneva tramite il prestito internazionale.
In
Kosovo, per esempio, dopo la concessione dell'autonomia nel 1974 la
classe
dirigente locale scialacquo' gli aiuti provenienti dalle regioni piu'
ricche,
anziche' investire nella costruzione di infrastrutture. La qualita'
della vita
si riduceva a vista d'occhio in tutta la Federazione, dando luogo a
forti
tensioni sociali; gli scioperi e le agitazioni si moltiplicavano a
macchia
d'olio. Forti dell'autonomia e del decentramento, le varie entita'
(repubbliche, aziende, ecc.) reagirono alla crisi cercando di
salvaguardare
la propria esistenza in competizione con gli altri. Nasceva il
nazionalismo
economico.
Le misure Markovic-Bush
Nell'autunno del 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino, il
capo
del governo federale jugoslavo Ante Markovic (nominato l'anno
precedente) si
reco' a Washington per negoziare con il presidente Bush la concessione
di un
nuovo "pacchetto di aiuti." In sostanza, pressata dai debiti la
Jugoslavia
accetto' di compiere riforme economiche radicali. La ricetta prevedeva
una
"terapia di attacco" comprendente: (a) il congelamento dei salari (senza
curarsi del rapido aumento del costo della vita); (b) la svalutazione
del
dinaro; (c) ingenti tagli alla spesa pubblica; e (d) l'eliminazione
delle
compagnie di proprieta' statale e di quelle "autogestite."
Principale obiettivo era la privatizzazione accelerata delle aziende. Al
suo
ritorno a Belgrado Markovic dispose una legge che prevedeva la rapida
messa
in liquidazione fallimentare forzata di tutte le aziende considerate
"insolventi" e la loro consegna nelle mani delle banche straniere
creditrici. Il preavviso dato fu brevissimo (30 giorni): chi non avesse
pagato tutti i debiti entro tale termine sarebbe stato liquidato.
Inoltre,
le banche a proprieta' sociale avrebbero dovuto essere rimpiazzate con
"istituzioni indipendenti a scopo di lucro." Si trattava di un pacchetto
spaventoso di misure: neanche nei paesi piu' convinti sostenitori
dell'economia di mercato si sarebbe mai osato fare tanto e cosi'
precipitosamente. Le conseguenze furono drammatiche: i prezzi presero a
salire e il potere di acquisto dei cittadini jugoslavi a collassare
(meno
40% nella prima meta' del 1990); in un anno, piu' di mille aziende fece
bancarotta, e meta' delle banche del paese dovette chiudere nel giro di
due
anni. Il Prodotto Interno Lordo calo' del 7,5% nel 1990; nell'anno
successivo
esso scese ulteriormente del 15%, mentre la produzione industriale calo'
del
21%. Alcune aziende "autogestite" poterono sopravvivere soltanto
interrompendo l'erogazione dei salari: un anno dopo il viaggio di Ante
Markovic a Washington, 600.000 lavoratori avevano perso il lavoro e un
ulteriore mezzo milione, pur lavorando, non percepiva piu' lo stipendio!
Oltre un milione di famiglie aveva perso il reddito, ma, secondo la
Banca
Mondiale altre 2400 industrie avrebbero dovuto essere chiuse (con
ulteriori
"esuberi" nella cifra di 1,3 milioni). I tagli alla spesa governativa
interruppero il flusso finanziario dal governo centrale alle
repubbliche:
questo e' stato il colpo decisivo all'unita' della Federazione, che ha
assicurato il successo delle formazioni politiche secessioniste e
nazionaliste.
La "1991 Foreign Operations Law"
Probabilmente, per i creditori le drastiche misure messe in atto dal
governo
di Ante Markovic non bastavano: in effetti il 5 novembre 1990 il
Congresso
statunitense approvo' la legge 101-513, che prevedeva il taglio entro
sei
mesi di tutti gli aiuti e prestiti alla Jugoslavia. La legge prevedeva
l'obbligo di tenere elezioni separate in ciascuna delle sei repubbliche
costitutive, e sia le procedure di voto che i risultati delle elezioni
avrebbero dovuto ottenere l'approvazione del Dipartimento di Stato: solo
dopo questi adempimenti il sostegno economico avrebbe potuto essere
reintrodotto, ma non piu' nei confronti del governo centrale, bensi'
solo
delle singole repubbliche, e solo se governate da forze approvate come
"democratiche." Alla faccia dell'autodeterminazione dei popoli, tanto
conclamata in seguito dai seguaci dello smantellamento della Jugoslavia!
Secondo una specifica disposizione della legge, tutto il personale
statunitense insediato nelle istituzioni internazionali (Banca Mondiale
e
Fondo Monetario Internazionale) avrebbe dovuto applicarla e farla
osservare.
In questo modo anche le organizzazioni internazionali venivano
sottomesse
alla legge statunitense e ne veniva seriamente minata ogni parvenza di
indipendenza. Facciamo notare che quando la legge fu promulgata le
elezioni
erano gia' avvenute nelle diverse repubbliche della Jugoslavia; tuttavia
molti analisti la ritengono rappresentativa del punto di vista e degli
obiettivi perseguiti dai creditori. Le misure non avevano una
giustificazione apparente, tanto piu' che all'epoca non vi era nessuna
guerra
civile o guerriglia in corso, ne' gli Stati Uniti erano coinvolti in
liti con
la Jugoslavia. Questa non aveva neanche un posto di rilievo nelle
"news"!
Grazie alla legge 101-513, il governo jugoslavo non pote' piu' pagare
gli
interessi sul debito estero ne' acquistare le materie prime occorrenti
per
l'industria. Il potere di acquisto era in caduta libera, i programmi
sociali
collassavano, la disoccupazione esplodeva e il settore industriale
subiva
una brutale distruzione. Ne' tutto cio' serviva a ripagare il debito:
nel 1991
esso ammontava a 31 miliardi di dollari, dieci in piu' del 1988. Un
quarto
delle esportazioni veniva incamerato direttamente dai creditori.
Un embargo pluriennale
Il 25 giugno 1991 la secessione unilaterale di due repubbliche,
insofferenti
per il fatto che il governo federale potesse continuare a stampare
moneta,
sanci' lo sfascio della Jugoslavia. Ma lo scontro si era aperto gia' sei
mesi
prima con la decisione slovena di non versare piu' allo stato centrale
le
proprie entrate fiscali. Dopo la Slovenia e la Croazia, tocco' alla
Macedonia, che proclamo' la propria secessione il 15 settembre. Il turno
dell'indipendenza della Bosnia-Erzegovina arrivo' invece il primo marzo
dell'anno successivo. Alle secessioni seguirono le guerre per la
spartizione
del territorio: dopo pochi giorni gli scontri dalla Slovenia si
spostarono
in Croazia, e successivamente in Bosnia-Erzegovina. Il debito estero fu
accuratamente suddiviso fra le repubbliche, ora strangolate direttamente
dai
creditori senza l'intermediario della Federazione. Due delle repubbliche
staccatesi dalla Jugoslavia, la Croazia e la Macedonia, seguirono
attentamente le direttive del Fondo Monetario internazionale, ed
ottennero
in cambio "pacchetti" di prestiti in cambio del consolidamento dei
programmi
di bancarotta forzata iniziati da Ante Markovic.
Il periodo della guerra in Bosnia-Erzegovina, iniziata nell'aprile del
1992,
fu caratterizzato da un crescendo di sanzioni imposte nei confronti di
quella parte della Federazione che aveva scelto di conservare
l'appellativo
di Jugoslavia. Essa e' costituita dalle repubbliche di Serbia e
Montenegro, e
comprende anche le due province autonome di Kosovo e Vojvodina. La
guerra in
corso forniva il pretesto per determinate decisioni davanti alle
opinioni
pubbliche dei paesi ricchi: esse potevano essere giustificate nel nome
della
presunta "cattiveria" dei Serbi, mentre fino al 1991 l'unico argomento
era
stato quello delle pretese dei creditori, poco spendibile presso le
opinioni
pubbliche. E' significativo notare che rispetto al territorio della
ex-Jugoslavia e' stata solo la nuova federazione fra Serbia e Montenegro
ad
essere sottomessa a drastiche misure punitive, insieme per un breve
periodo
anche alla parte serba della Bosnia-Erzegovina.
Le prime sanzioni furono stabilite dai ministri della CEE, riuniti a
Roma
l'8 novembre del 1991, a soli quattro mesi e mezzo dallo sfascio della
Federazione. Per avere una misura delle sanzioni, si pensi che il
commercio
con la Comunita' aveva rappresentato fino ad allora i due terzi degli
scambi
della Jugoslavia. Appena un mese dopo averle promulgate, l'Unione
Europea
ritenne di dover precisare che le sanzioni, proclamate genericamente
"contro
la Jugoslavia," dovevano intendersi applicabili nei confronti soltanto
delle
"repubbliche cattive", cioe' la Serbia e il Montenegro. Una simile
posizione
e' incredibile se si pensa che l'indipendenza di Slovenia, Croazia e
Macedonia non era stata ancora riconosciuta (ma lo sarebbe stata dopo
poche
settimane), mentre quella della Bosnia-Erzegovina non era neppure stata
proclamata. Il tentativo di dividere le popolazioni prosegui' quando il
10
gennaio successivo le sanzioni contro il Montenegro vennero levate, per
cui
esse rimasero soltanto nei confronti della Serbia.
Sulla scia dell'emozione suscitata dalla "strage del pane" avvenuta tre
giorni prima ed attribuita erroneamente ai Serbi dalla grande stampa, il
30
maggio 1992 arrivo' dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la
risoluzione numero 757. Essa prevedeva un embargo commerciale (in
particolare delle importazioni di petrolio), il congelamento dei beni
jugoslavi all'estero, l'interdizione dei voli civili, e la sospensione
degli
scambi scientifici e culturali e della partecipazione ad eventi sportivi
internazionali. I risultati dell'embargo non si fecero attendere:
l'approvvigionamento in prodotti farmaceutici calo' spaventosamente fin
da
subito; l'industria metallurgica, fortemente dipendente dalla Slovenia e
dalla Croazia, raggiunse una crisi profonda; mentre la mancanza di
carburante fermo' il paese. L'approvazione di queste sanzioni avvenne
grazie
all'inversione di rotta della politica statunitense: un anno prima, in
effetti, il segretario di stato Baker in visita a Belgrado aveva
dichiarato
che gli USA non avrebbero riconosciuto nessuna secessione: Milosevic,
apparentemente in buona luce al Dipartimento di Stato fino a poche
settimane
prima, era diventato un "nuovo Hitler."
Il 22 settembre dello stesso anno la Jugoslavia fu addirittura espulsa
dall'Assemblea Generale dell'ONU. Un provvedimento che non e' mai stato
riservato a nessun altro stato, e che e' stato poi coronato con
l'espulsione
il 15 dicembre dal Fondo Monetario Internazionale e all'inizio dell'anno
successivo dall'Organizzazione Mondiale della Sanita'. Queste misure
assumono
il sapore di un'incondizionata presa di campo da parte delle istituzioni
internazionali dopo l'ammissione avvenuta in maggio della Croazia, della
Slovenia e della Bosnia-Erzegovina. Simultaneamente all'espulsione
dall'ONU,
e' stato messo in atto un embargo navale totale sul Danubio e
sull'Adriatico,
e gli aerei statunitensi si sono incaricati di far rispettare la "no-fly
zone." Il 6 maggio dell'anno successivo le sanzioni furono rafforzate, e
il
Consiglio di Sicurezza (grazie all'astensione di Russia e Cina) decreto'
l'embargo totale contro la Serbia. Questa nuova sanzione avveniva per
punire
la Repubblica dei Serbi di Bosnia per non aver firmato il piano di pace
Vance-Owen, e cio' malgrado il fatto che la stessa Belgrado avesse rotto
con
Pale ed avesse decretato nei suoi confronti un blocco degli aiuti:
paradossalmente, fu solo a settembre del 1994 che le sanzioni furono
estese
ai serbo-bosniaci.
Come si vede, si tratta di un insieme impressionante di misure tese ad
isolare e colpevolizzare un intero popolo ed a farne collassare le
risorse
economiche. Da questo punto di vista, esse si sono dimostrate del tutto
efficaci. Il New York Times del 26 giugno 1992 scriveva che il dinaro si
era
svalutato di un fattore 200 rispetto al dollaro, che vi era stata una
grossa
carenza di beni ed un'impennata dei prezzi, e che l'inflazione galoppava
intorno al 5-10% al giorno. Dopo solo 3 mesi dall'inizio dell'embargo la
maggior parte delle fabbriche aveva chiuso per mancanza di materie prime
e
carburante, e centinaia di migliaia di lavoratori erano stati rimandati
a
casa. A settembre 1993, per i due milioni di abitanti di Belgrado furono
introdotte le tessere per il razionamento alimentare, e poco dopo le
tariffe
elettriche furono decuplicate. Il 12 aprile 1994 l'Economist scriveva
che il
60% dei lavoratori era disoccupato, che l'industria funzionava al 20-30%
delle sue capacita', e che oramai il 40% dell'economia jugoslava era
gestita
dal settore "sommerso." Per fare un esempio concreto, dal 1990 al 1995
la
produzione annua delle automobili Yugo e' calata da 200.000 a 3.500.
Inoltre
il sistema sanitario, un tempo considerato uno dei migliori, si
ritrovava
decimato, con tutto cio' che questo comportava per la popolazione
civile.
L'embargo duro' fino a dicembre 1995, e fu levato con la conclusione
degli
accordi di Dayton, ma le sue conseguenze si protrassero nel tempo:
l'economia del paese era oramai distrutta. Un anno dopo, alla fine del
1996,
la Croce Rossa dichiarava che il 30% della popolazione era caduta nello
stato di poverta'. Dal canto loro, nel 1998 gli USA e l'UE hanno imposto
alla
Jugoslavia una moratoria sui crediti e gli investimenti, tutt'ora in
vigore.
Malgrado la sospensione dell'embargo, la Jugoslavia non venne riammessa
all'Assemblea Generale, mentre il Fondo Monetario Internazionale
stabili'
che, per essere reintegrata, la Jugoslavia avrebbe dovuto ripagare
interamente il suo debito precedente alle sanzioni, ed adottare un piano
di
riforme economiche, previa l'approvazione del Fondo stesso. Inoltre, i
beni
jugoslavi all'estero restarono congelati per ordine di un decreto
presidenziale statunitense, e la Jugoslavia resto' sotto il ricatto di
una
pesante minaccia: "le sanzioni potranno riprendere presto." Queste
minacce
furono reiterate piu' volte: a febbraio 1996, e poi a giugno e a
dicembre
dello stesso anno; esse vennero finalmente attuate con il precipitare
della
crisi del Kosovo nel 1999.
(1. continua)
---
Bollettino di controinformazione del
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solo in
autobus o in macchina o in aeroplano. La Jugoslavia, per quanto
frammentata
sia potuta essere, era il modello per l'Europa del futuro. Non l'Europa
come
e' adesso, la nostra Europa in un certo senso artificiale, con le sue
zone di
libero scambio, ma un posto in cui nazionalita' diverse vivono
mischiate
l'una con l'altra, specialmente come facevano i giovani in Jugoslavia,
anche
dopo la morte di Tito. Ecco, penso che quella sia l'Europa, per come
io la
vorrei. Percio', in me l'immagine dell'Europa e' stata distrutta
con la
distruzione della
Jugoslavia.
(Peter Handke, intervista
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hanno tralasciato di approfondire il ruolo rivestito dalle istituzioni
finanziarie internazionali nella distruzione della Federazione Jugoslava
nata dopo la seconda guerra mondiale. Strettamente parlando, questa
distruzione e' collegata alle avventure politiche e militari dell'ultimo
decennio: dalla secessione della Slovenia e della Croazia nel 1991 al
massiccio bombardamento nel 1999 dell'odierna Jugoslavia (ridotta alle
repubbliche di Serbia e Montenegro). Tuttavia, se il susseguirsi degli
avvenimenti viene studiato attentamente si riscontra un forte ruolo
attivo
avuto dai paesi occidentali, capeggiati dagli Stati Uniti sotto l'egida
del
Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
La disintegrazione della Federazione e' servita per una completa
riorganizzazione dei Balcani: la Slovenia e la Croazia sono potute
entrare
appieno nell'area d'influenza tedesca e la Germania ha ottenuto un
accesso
piu' diretto al Mare Adriatico. Gli Stati Uniti hanno potuto rafforzare
la
propria influenza militare sul Vecchio Continente ed impiantare nuovi
contingenti di truppe. D'altra parte, la Macedonia e' diventata il
centro di
una sfera di interessi americana: questa piccola repubblica e'
strategica,
difatti, in quanto controlla importanti valichi fra l'Est e l'Ovest e
fra il
Nord e il Sud nelle montagne dei Balcani. Tutta la regione e' importante
per
la sua posizione geografica e per la sua funzione di collegamento fra la
Mitteleuropa ed la Turchia cosi' come fra il Mar Nero e l'Adriatico.
Alcuni mezzi di informazione piu' attenti degli altri hanno dato le
notizie
relative ai singoli eventi che qui saranno raccontati; tuttavia, e' solo
considerando l'insieme di questi fatti che si puo' avvertire appieno la
drammatica coerenza che e' ad essi sottesa. Alla fine dell'articolo
viene
fornita una breve bibliografia per coloro che sono interessati ad un
approfondimento; bisogna dire pero' che buona parte delle notizie
proviene da
"fonti orali:" esse non trovano spazio sulla grande stampa per cui
rimangono
circoscritte all'interno di una cerchia di persone particolarmente
attente e
di alcune liste di discussione in internet.
Prima fase: l'indebitamento
Durante gli anni Settanta la crisi energetica spinse il Maresciallo Tito
a
condurre una politica di investimenti per la costruzione di impianti e
il
riammodernamento delle infrastrutture: questa politica passo' attraverso
un
grosso indebitamento. Il debito ebbe modo di crescere anche perche' dopo
avere ottenuto nel 1974 un'autonomia piu' ampia, le repubbliche
costitutive
si sentirono autorizzate a contrarre debiti per proprio conto, al di
fuori
della programmazione federale. Il risultato fu che, gia' al momento
della
morte di Tito, la Jugoslavia era dominata in buona parte dalla finanza
mondiale.
Gli anni Ottanta furono caratterizzati da una grave crisi economica, nel
corso della quale crebbe ulteriormente il divario Nord-Sud. Le
importazioni
diminuivano fortemente; invece, le esportazioni furono favorite per
mezzo di
un'inflazione galoppante: 40% nel 1981, 170% nel 1987, e piu' del 1000%
negli
anni successivi. L'indebitamento diventava intollerabile e gia' nel 1987
il
tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 17%. Questa situazione deve
essere confrontata, per esempio, con la situazione vigente nel periodo
degli
anni Sessanta e Settanta: crescita media annua del PIL intorno al 6%;
cure
sanitarie gratuite (con un medico ogni 550 abitanti); tasso di
alfabetizzazione pari al 90%; aspettativa di vita pari a 72 anni. Ma nel
1980 la disparita' economica e sociale fra le repubbliche era diventata
enorme, e questa frattura era destinata ad approfondirsi.
La Slovenia, repubblica in assoluto piu' ricca e sviluppata della
Federazione, aveva un prodotto nazionale pro capite comparabile a quello
spagnolo o a quello irlandese. Il prodotto nazionale lordo della
repubblica
rappresentava il 22% del prodotto federale, con soltanto l'8% della
popolazione. Essa aveva allacciato forti relazioni economiche con la
Germania e con numerose amministrazioni locali italiane ed austriache, e
il
tasso di disoccupazione si attestava intorno ad appena l'1-2%. Al
gradino
piu' basso della scala economica vi era invece la provincia autonoma del
Kosovo, con un prodotto nazionale pro capite pari ad un sesto di quello
sloveno, e comparabile a quello del Marocco o della Nigeria. Qui, nel
1988
un terzo della popolazione risultava senza occupazione, e il tasso di
analfabetismo era del 18%; il tasso di natalita', invece, era il piu'
alto
d'Europa (2,5% all'anno). Buona parte della popolazione abbandonava la
provincia, a causa delle sue tragiche condizioni economiche.
Tra gli estremi della Slovenia e del Kosovo si trovavano la repubblica
di
Croazia e la provincia di Vojvodina: entrambe sopra la media jugoslava
ma
con un prodotto pro capite pari a circa la meta' di quello sloveno.
Sotto la
media, invece, si trovavano la Serbia, il Montenegro, la Macedonia e la
Bosnia-Erzegovina. Non si puo' dire che la Federazione non tentasse di
compensare queste differenze economiche: ingenti risorse venivano
destinate
ad un apposito "fondo per lo sviluppo delle regioni arretrate" analogo
alla
nostra Cassa per il Mezzogiorno. Questa politica diede in parte
risultati
positivi, come il miglioramento del sistema sanitario e
dell'insegnamento
superiore. In Kosovo l'aspettativa di vita crebbe da 48 anni a 66 in
vent'anni, mentre i tre quarti degli investimenti provenivano dalle
casse
federali. E tuttavia cio' non era sufficiente: relativamente al Nord
ricco
della Jugoslavia il ritardo economico della provincia continuava ad
accentuarsi. Parzialmente responsabile lo era stata la riforma economica
del
1965, che aveva consentito l'aumento secondo criteri di "mercato" dei
prezzi
dei prodotti finiti (fabbricati nel Nord della Federazione) pur
mantenendo
molto basso quelli delle materie prime, di cui erano ricche le province
meridionali.
Nel frattempo era calata la collaborazione con gli altri paesi dell'Est,
ed
in particolare erano venute a mancare le forniture di petrolio sovietico
a
condizioni agevolate. Il livello astronomico dell'inflazione aveva
distrutto
il sistema monetario della Federazione e i meccanismi decentrati
dell'economia "autogestita" avevano privato il governo centrale degli
strumenti di coordinamento della politica economica. La Slovenia e la
Croazia, le repubbliche piu' avanzate e produttive nelle quali affluiva
una
gran quantita' di valuta estera, si battevano per mantenere una
posizione
privilegiata. Le repubbliche economicamente arretrate, guidate dalla
Serbia,
tentavano invece di introdurre misure di controllo fiscale e monetario.
A
livello locale, una serie di progetti insensati e spreconi dissipavano
le
risorse che la Federazione otteneva tramite il prestito internazionale.
In
Kosovo, per esempio, dopo la concessione dell'autonomia nel 1974 la
classe
dirigente locale scialacquo' gli aiuti provenienti dalle regioni piu'
ricche,
anziche' investire nella costruzione di infrastrutture. La qualita'
della vita
si riduceva a vista d'occhio in tutta la Federazione, dando luogo a
forti
tensioni sociali; gli scioperi e le agitazioni si moltiplicavano a
macchia
d'olio. Forti dell'autonomia e del decentramento, le varie entita'
(repubbliche, aziende, ecc.) reagirono alla crisi cercando di
salvaguardare
la propria esistenza in competizione con gli altri. Nasceva il
nazionalismo
economico.
Le misure Markovic-Bush
Nell'autunno del 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino, il
capo
del governo federale jugoslavo Ante Markovic (nominato l'anno
precedente) si
reco' a Washington per negoziare con il presidente Bush la concessione
di un
nuovo "pacchetto di aiuti." In sostanza, pressata dai debiti la
Jugoslavia
accetto' di compiere riforme economiche radicali. La ricetta prevedeva
una
"terapia di attacco" comprendente: (a) il congelamento dei salari (senza
curarsi del rapido aumento del costo della vita); (b) la svalutazione
del
dinaro; (c) ingenti tagli alla spesa pubblica; e (d) l'eliminazione
delle
compagnie di proprieta' statale e di quelle "autogestite."
Principale obiettivo era la privatizzazione accelerata delle aziende. Al
suo
ritorno a Belgrado Markovic dispose una legge che prevedeva la rapida
messa
in liquidazione fallimentare forzata di tutte le aziende considerate
"insolventi" e la loro consegna nelle mani delle banche straniere
creditrici. Il preavviso dato fu brevissimo (30 giorni): chi non avesse
pagato tutti i debiti entro tale termine sarebbe stato liquidato.
Inoltre,
le banche a proprieta' sociale avrebbero dovuto essere rimpiazzate con
"istituzioni indipendenti a scopo di lucro." Si trattava di un pacchetto
spaventoso di misure: neanche nei paesi piu' convinti sostenitori
dell'economia di mercato si sarebbe mai osato fare tanto e cosi'
precipitosamente. Le conseguenze furono drammatiche: i prezzi presero a
salire e il potere di acquisto dei cittadini jugoslavi a collassare
(meno
40% nella prima meta' del 1990); in un anno, piu' di mille aziende fece
bancarotta, e meta' delle banche del paese dovette chiudere nel giro di
due
anni. Il Prodotto Interno Lordo calo' del 7,5% nel 1990; nell'anno
successivo
esso scese ulteriormente del 15%, mentre la produzione industriale calo'
del
21%. Alcune aziende "autogestite" poterono sopravvivere soltanto
interrompendo l'erogazione dei salari: un anno dopo il viaggio di Ante
Markovic a Washington, 600.000 lavoratori avevano perso il lavoro e un
ulteriore mezzo milione, pur lavorando, non percepiva piu' lo stipendio!
Oltre un milione di famiglie aveva perso il reddito, ma, secondo la
Banca
Mondiale altre 2400 industrie avrebbero dovuto essere chiuse (con
ulteriori
"esuberi" nella cifra di 1,3 milioni). I tagli alla spesa governativa
interruppero il flusso finanziario dal governo centrale alle
repubbliche:
questo e' stato il colpo decisivo all'unita' della Federazione, che ha
assicurato il successo delle formazioni politiche secessioniste e
nazionaliste.
La "1991 Foreign Operations Law"
Probabilmente, per i creditori le drastiche misure messe in atto dal
governo
di Ante Markovic non bastavano: in effetti il 5 novembre 1990 il
Congresso
statunitense approvo' la legge 101-513, che prevedeva il taglio entro
sei
mesi di tutti gli aiuti e prestiti alla Jugoslavia. La legge prevedeva
l'obbligo di tenere elezioni separate in ciascuna delle sei repubbliche
costitutive, e sia le procedure di voto che i risultati delle elezioni
avrebbero dovuto ottenere l'approvazione del Dipartimento di Stato: solo
dopo questi adempimenti il sostegno economico avrebbe potuto essere
reintrodotto, ma non piu' nei confronti del governo centrale, bensi'
solo
delle singole repubbliche, e solo se governate da forze approvate come
"democratiche." Alla faccia dell'autodeterminazione dei popoli, tanto
conclamata in seguito dai seguaci dello smantellamento della Jugoslavia!
Secondo una specifica disposizione della legge, tutto il personale
statunitense insediato nelle istituzioni internazionali (Banca Mondiale
e
Fondo Monetario Internazionale) avrebbe dovuto applicarla e farla
osservare.
In questo modo anche le organizzazioni internazionali venivano
sottomesse
alla legge statunitense e ne veniva seriamente minata ogni parvenza di
indipendenza. Facciamo notare che quando la legge fu promulgata le
elezioni
erano gia' avvenute nelle diverse repubbliche della Jugoslavia; tuttavia
molti analisti la ritengono rappresentativa del punto di vista e degli
obiettivi perseguiti dai creditori. Le misure non avevano una
giustificazione apparente, tanto piu' che all'epoca non vi era nessuna
guerra
civile o guerriglia in corso, ne' gli Stati Uniti erano coinvolti in
liti con
la Jugoslavia. Questa non aveva neanche un posto di rilievo nelle
"news"!
Grazie alla legge 101-513, il governo jugoslavo non pote' piu' pagare
gli
interessi sul debito estero ne' acquistare le materie prime occorrenti
per
l'industria. Il potere di acquisto era in caduta libera, i programmi
sociali
collassavano, la disoccupazione esplodeva e il settore industriale
subiva
una brutale distruzione. Ne' tutto cio' serviva a ripagare il debito:
nel 1991
esso ammontava a 31 miliardi di dollari, dieci in piu' del 1988. Un
quarto
delle esportazioni veniva incamerato direttamente dai creditori.
Un embargo pluriennale
Il 25 giugno 1991 la secessione unilaterale di due repubbliche,
insofferenti
per il fatto che il governo federale potesse continuare a stampare
moneta,
sanci' lo sfascio della Jugoslavia. Ma lo scontro si era aperto gia' sei
mesi
prima con la decisione slovena di non versare piu' allo stato centrale
le
proprie entrate fiscali. Dopo la Slovenia e la Croazia, tocco' alla
Macedonia, che proclamo' la propria secessione il 15 settembre. Il turno
dell'indipendenza della Bosnia-Erzegovina arrivo' invece il primo marzo
dell'anno successivo. Alle secessioni seguirono le guerre per la
spartizione
del territorio: dopo pochi giorni gli scontri dalla Slovenia si
spostarono
in Croazia, e successivamente in Bosnia-Erzegovina. Il debito estero fu
accuratamente suddiviso fra le repubbliche, ora strangolate direttamente
dai
creditori senza l'intermediario della Federazione. Due delle repubbliche
staccatesi dalla Jugoslavia, la Croazia e la Macedonia, seguirono
attentamente le direttive del Fondo Monetario internazionale, ed
ottennero
in cambio "pacchetti" di prestiti in cambio del consolidamento dei
programmi
di bancarotta forzata iniziati da Ante Markovic.
Il periodo della guerra in Bosnia-Erzegovina, iniziata nell'aprile del
1992,
fu caratterizzato da un crescendo di sanzioni imposte nei confronti di
quella parte della Federazione che aveva scelto di conservare
l'appellativo
di Jugoslavia. Essa e' costituita dalle repubbliche di Serbia e
Montenegro, e
comprende anche le due province autonome di Kosovo e Vojvodina. La
guerra in
corso forniva il pretesto per determinate decisioni davanti alle
opinioni
pubbliche dei paesi ricchi: esse potevano essere giustificate nel nome
della
presunta "cattiveria" dei Serbi, mentre fino al 1991 l'unico argomento
era
stato quello delle pretese dei creditori, poco spendibile presso le
opinioni
pubbliche. E' significativo notare che rispetto al territorio della
ex-Jugoslavia e' stata solo la nuova federazione fra Serbia e Montenegro
ad
essere sottomessa a drastiche misure punitive, insieme per un breve
periodo
anche alla parte serba della Bosnia-Erzegovina.
Le prime sanzioni furono stabilite dai ministri della CEE, riuniti a
Roma
l'8 novembre del 1991, a soli quattro mesi e mezzo dallo sfascio della
Federazione. Per avere una misura delle sanzioni, si pensi che il
commercio
con la Comunita' aveva rappresentato fino ad allora i due terzi degli
scambi
della Jugoslavia. Appena un mese dopo averle promulgate, l'Unione
Europea
ritenne di dover precisare che le sanzioni, proclamate genericamente
"contro
la Jugoslavia," dovevano intendersi applicabili nei confronti soltanto
delle
"repubbliche cattive", cioe' la Serbia e il Montenegro. Una simile
posizione
e' incredibile se si pensa che l'indipendenza di Slovenia, Croazia e
Macedonia non era stata ancora riconosciuta (ma lo sarebbe stata dopo
poche
settimane), mentre quella della Bosnia-Erzegovina non era neppure stata
proclamata. Il tentativo di dividere le popolazioni prosegui' quando il
10
gennaio successivo le sanzioni contro il Montenegro vennero levate, per
cui
esse rimasero soltanto nei confronti della Serbia.
Sulla scia dell'emozione suscitata dalla "strage del pane" avvenuta tre
giorni prima ed attribuita erroneamente ai Serbi dalla grande stampa, il
30
maggio 1992 arrivo' dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la
risoluzione numero 757. Essa prevedeva un embargo commerciale (in
particolare delle importazioni di petrolio), il congelamento dei beni
jugoslavi all'estero, l'interdizione dei voli civili, e la sospensione
degli
scambi scientifici e culturali e della partecipazione ad eventi sportivi
internazionali. I risultati dell'embargo non si fecero attendere:
l'approvvigionamento in prodotti farmaceutici calo' spaventosamente fin
da
subito; l'industria metallurgica, fortemente dipendente dalla Slovenia e
dalla Croazia, raggiunse una crisi profonda; mentre la mancanza di
carburante fermo' il paese. L'approvazione di queste sanzioni avvenne
grazie
all'inversione di rotta della politica statunitense: un anno prima, in
effetti, il segretario di stato Baker in visita a Belgrado aveva
dichiarato
che gli USA non avrebbero riconosciuto nessuna secessione: Milosevic,
apparentemente in buona luce al Dipartimento di Stato fino a poche
settimane
prima, era diventato un "nuovo Hitler."
Il 22 settembre dello stesso anno la Jugoslavia fu addirittura espulsa
dall'Assemblea Generale dell'ONU. Un provvedimento che non e' mai stato
riservato a nessun altro stato, e che e' stato poi coronato con
l'espulsione
il 15 dicembre dal Fondo Monetario Internazionale e all'inizio dell'anno
successivo dall'Organizzazione Mondiale della Sanita'. Queste misure
assumono
il sapore di un'incondizionata presa di campo da parte delle istituzioni
internazionali dopo l'ammissione avvenuta in maggio della Croazia, della
Slovenia e della Bosnia-Erzegovina. Simultaneamente all'espulsione
dall'ONU,
e' stato messo in atto un embargo navale totale sul Danubio e
sull'Adriatico,
e gli aerei statunitensi si sono incaricati di far rispettare la "no-fly
zone." Il 6 maggio dell'anno successivo le sanzioni furono rafforzate, e
il
Consiglio di Sicurezza (grazie all'astensione di Russia e Cina) decreto'
l'embargo totale contro la Serbia. Questa nuova sanzione avveniva per
punire
la Repubblica dei Serbi di Bosnia per non aver firmato il piano di pace
Vance-Owen, e cio' malgrado il fatto che la stessa Belgrado avesse rotto
con
Pale ed avesse decretato nei suoi confronti un blocco degli aiuti:
paradossalmente, fu solo a settembre del 1994 che le sanzioni furono
estese
ai serbo-bosniaci.
Come si vede, si tratta di un insieme impressionante di misure tese ad
isolare e colpevolizzare un intero popolo ed a farne collassare le
risorse
economiche. Da questo punto di vista, esse si sono dimostrate del tutto
efficaci. Il New York Times del 26 giugno 1992 scriveva che il dinaro si
era
svalutato di un fattore 200 rispetto al dollaro, che vi era stata una
grossa
carenza di beni ed un'impennata dei prezzi, e che l'inflazione galoppava
intorno al 5-10% al giorno. Dopo solo 3 mesi dall'inizio dell'embargo la
maggior parte delle fabbriche aveva chiuso per mancanza di materie prime
e
carburante, e centinaia di migliaia di lavoratori erano stati rimandati
a
casa. A settembre 1993, per i due milioni di abitanti di Belgrado furono
introdotte le tessere per il razionamento alimentare, e poco dopo le
tariffe
elettriche furono decuplicate. Il 12 aprile 1994 l'Economist scriveva
che il
60% dei lavoratori era disoccupato, che l'industria funzionava al 20-30%
delle sue capacita', e che oramai il 40% dell'economia jugoslava era
gestita
dal settore "sommerso." Per fare un esempio concreto, dal 1990 al 1995
la
produzione annua delle automobili Yugo e' calata da 200.000 a 3.500.
Inoltre
il sistema sanitario, un tempo considerato uno dei migliori, si
ritrovava
decimato, con tutto cio' che questo comportava per la popolazione
civile.
L'embargo duro' fino a dicembre 1995, e fu levato con la conclusione
degli
accordi di Dayton, ma le sue conseguenze si protrassero nel tempo:
l'economia del paese era oramai distrutta. Un anno dopo, alla fine del
1996,
la Croce Rossa dichiarava che il 30% della popolazione era caduta nello
stato di poverta'. Dal canto loro, nel 1998 gli USA e l'UE hanno imposto
alla
Jugoslavia una moratoria sui crediti e gli investimenti, tutt'ora in
vigore.
Malgrado la sospensione dell'embargo, la Jugoslavia non venne riammessa
all'Assemblea Generale, mentre il Fondo Monetario Internazionale
stabili'
che, per essere reintegrata, la Jugoslavia avrebbe dovuto ripagare
interamente il suo debito precedente alle sanzioni, ed adottare un piano
di
riforme economiche, previa l'approvazione del Fondo stesso. Inoltre, i
beni
jugoslavi all'estero restarono congelati per ordine di un decreto
presidenziale statunitense, e la Jugoslavia resto' sotto il ricatto di
una
pesante minaccia: "le sanzioni potranno riprendere presto." Queste
minacce
furono reiterate piu' volte: a febbraio 1996, e poi a giugno e a
dicembre
dello stesso anno; esse vennero finalmente attuate con il precipitare
della
crisi del Kosovo nel 1999.
(1. continua)
---
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