60 ore. E anche di più
di Sara Farolfi
su Il Manifesto del 11/06/2008
In arrivo la nuova normativa sull'orario di lavoro settimanale
L'ennesimo colpo di piccone ai diritti sociali in Europa. I ministri del lavoro dei 27 Stati europei hanno raggiunto un accordo, ieri, sulla direttiva europea sull'orario di lavoro. Licenziando un testo (che ora sarà sottoposto al parlamento europeo) che decreta la fine delle 48 ore settimanali - conquistate dall'Organizzazione internazionale dei lavoratori nel 1917 - e spalanca la porta a settimane lavorative di 60, persino 65 ore.
Ha vinto, di fatto, la linea a lungo perseguita dalla Gran Bretagna, la cui legislazione dal 1993 prevede la possibilità di avvalersi del diritto di opting out, attraverso cui singoli lavoratori e imprese possono sottoscrivere 'liberi' accordi (con quali rapporti di forza è facilmente immaginabile) per modificare l'orario di lavoro. Con la decisione di ieri, l'opting out diventa norma generale per tutti gli stati membri. I negoziati per aumentare l'orario di lavoro settimanale erano in corso da qualche anno. Al blocco capitanato dal Regno Unito (e sostenuto anche dalla Germania e della maggior parte dei nuovi stati membri) si è sempre opposto quello costituito da Francia, Spagna e Italia (in compagnia di Grecia, Cipro, Belgio e Lussemburgo). Con l'avvento di Berlusconi, l'Italia ha di fatto abbandonato il fronte della difesa dei diritti sociali, mentre Sarkozy in Francia ha fatto dell'orario di lavoro una merce di scambio il collega britannico Gordon Brown: la Francia avrebbe approvato l'allungamento dell'orario di lavoro, qualora la Gran Bretagna avesse accettato la parificazione dei diritti per i lavoratori interinali. E così ieri è andata. I ministri dei 27 Stati hanno approvato infatti una seconda direttiva, che decreta parità di trattamento (su salario, congedo e maternità) tra lavoratori 'in affitto' e dipendenti. Fatta salva comunque la possibilità di deroghe, qualora vi sia un accordo in tal senso con le parti sociali (come già accade in Gran Bretagna).
Le due direttive sono state approvate a maggioranza qualificata, con la contrarietà di cinque paesi (Spagna, Belgio, Grecia, Ungheria e Cipro). Ora dovranno passare al vaglio del parlamento europeo, traghettato dalla presidenza slovena a quella francese. La commissione europea applaude, mentre la Confederazione dei sindacati europei (Ces) parla di un «accordo inaccettabile, su cui daremo battaglia al Parlamento europeo», pur apprezzando la direttiva sugli interinali. E non si è fatto attendere il commento del nostro ministro, Maurizio Sacconi, che anche ieri è tornato a parlare della necessità di una «chirurgica deregulation del mercato del lavoro»: «Ora è importante che il parlamento europeo possa ratificare rapidamente questo accordo e che esso trovi poi rapida attuazione nella legislazione dei singoli paesi membri».
Con la nuova direttiva, gli Stati membri potranno modificare la propria legislazione per consentire ai singoli lavoratori di sottoscrivere accordi individuali in materia di orario di lavoro con i propri datori di lavoro. Un colpo di piccone alla contrattazione dunque, e un'incentivo netto ai rapporti di lavoro individualizzati. L'orario di lavoro potrà arrivare fino a 60 ore settimanali, 65 per alcuni lavoratori, come i medici. E il numero di ore viene considerato come media, che significa che la settimana lavorativa potrà arrivare a 78 ore.
Ma non è tutto. Perchè la direttiva riscrive anche il cosiddetto «servizio di guardia», il periodo cioè durante il quale il lavoratore è obbligato a tenersi a disposizione, sul proprio luogo di lavoro, in attesa di essere chiamato. Fino ad ora questo periodo (che può essere di svariate ore) era considerato tempo di lavoro, dunque retribuito. I ministri europei hanno deciso invece che, per esempio, stare al Pronto soccorso di guardia senza essere chiamati non sarà più lavoro retribuito. Massimo Cozza, segretario nazionale Cgil medici, lancia l'allarme. Ma su questo Sacconi ha rassicurato: «In Italia la parte inattiva del turno di guardia resterà orario di lavoro».
Wir befinden uns im Jahre XVIII der Neuen Weltordnung. Ganz Europa ist vom Imperium besetzt. Ganz Europa? Nein! Ein von unbeugsamen Kelten bevölkertes Inselchen hört nicht auf, den Imperialisten Widerstand zu leisten. Sie spotten den Befehlen der Legionäre: Sie trinken Guinness und rauchen. Sie nehmen das Geld aus den Brüsseler Säcken und behalten trotzdem ihren eigenen Kopf. Sie wollen nicht für fremde Herren in deren Kriege ziehen und wissen, wo sie ihre Knarren vergraben haben. Sie verlangen, dass die Kirche in ihrem Dorf bleibt – und keine Kreuzzüge auf anderen Kontinenten führt. Sie machen frauenfeindliche Witze gegen Angela Merkel. Mann, was sind die rückständig! Mann, was sind die sympathisch!
Nach ersten vorläufigen Ergebnissen vom Freitag Nachmittag haben die Iren den neuen EU-Vertrag mit über 54 Prozent Nein-Stimmen abgelehnt. Die Beteiligung an dem Referendum lag bei 45 Prozent. Wie bei den Referenden in Frankreich und den Niederlanden, wo der damals noch als EU-Verfassung firmierende und ansonsten weitgehend inhaltsgleiche Text bereits 2005 abgeschmettert worden war, musste sich auch in Irland der Wille der Bevölkerung gegen eine geschlossene Phalanx der etablierten Kräfte durchsetzen. Alle großen Parteien, die Medien und der Unternehmerverband trommelten für das Ja. Dagegen standen vor allem die überparteiliche Organisation Libertas des Geschäftsmann Declan Ganley und die antimilitaristische Sinn-Fein-Partei, die aus dem Befreiungskampf der historischen IRA hervorgegangen ist.
Bezeichnend die Reaktion der Präzeptoren des Imperiums in Deutschland. Der CDU-Europaparlamentarier Elmar Brok plädierte dafür, das Nein der Iren zu ignorieren und den Ratifizierungsprozess des EU-Vertrages fortzusetzen. Eine Neuverhandlung des undemokratischen Machwerkes lehnte er kategorisch ab. Der Vorsitzende des Verfassungsausschusses des Europäischen Parlamentes, der SPD-Politiker, Jo Leinen, drohte Irland mit »Isolation«, falls es in dem Konflikt nicht nachbessern werde. Auch Grünen-Vizefraktionschef Jürgen Trittin und der Grünen-Europasprecher Rainder Steenblock übten sich in Demokraten-Schelte. Es dürfe nicht sein, »dass drei Millionen Menschen darüber entscheiden können, wie 500 Millionen Menschen ihre politische Zusammenarbeit gestalten«. Auf die nahe liegende Lösung, dann auch die Bürger der anderen 26 Mitgliedsstaaten abstimmen zu lassen, kamen die Grünen freilich nicht. Als einzige deutsche Partei begrüßte die LINKE den Sieg des Nein und der »Volkssouveränität« in Irland, so der Parteichef Lothar Bisky.
Mit dem 12. Juni hat das kleine Völkchen auf der grünen Insel Weltgeschichte geschrieben. Die irische Trikolore ist das Banner der europäischen Freiheit geworden. Nun ist es an der Zeit, dass die Gallier, die Germanen, die Wikinger, die Römer, die Hellenen und alle anderen, denen das Herz noch nicht in die Hose gerutscht ist, dem keltischen Beispiel folgen. Hören wir nicht auf die neunmalklugen Grünen, die uns weismachen werden, alle Nein-Sager in Dublin und anderswo seien Abtreibungsgegner, Schwulenfeinde, Klerikale und Nationalisten, mit denen sich Linke nicht verbrüdern dürfen. Dazu hat ein gewisser Wladimir Iljitsch Asterix das Notwendige gesagt: »Denn zu glauben, dass die soziale Revolution denkbar ist ohne Aufstände kleiner Nationen in den Kolonien und in Europa, ohne revolutionäre Ausbrüche eines Teils des Kleinbürgertums mit allen seinen Vorurteilen, ohne die Bewegung unaufgeklärter proletarischer und halbproletarischer Massen (...) – das zu glauben heißt der sozialen Revolution entsagen.«
=== 4 ===