IL MANIFESTO
07 OTTOBRE 2008
CA U CA S O I N F IAMME La sera del 7 agosto forze georgiane attaccano la regione autonomista dell'Ossezia del Sud. Mosca reagisce e in breve tempo tutto il Caucaso brucia. Ma l'Occidente trepidava per la Georgia, e rapidamente si è scordato dei superstiti all'attacco militare che ha scatenato la crisi
SUD OSSEZIA Tra gli scampati dell'attacco georgiano
«Spasiba Rossia!» Parola di superstite
Questo testo è un estratto del reportage dall'Ossezia del Sud che verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista mensile PeaceReporter, in vendita nelle librerie Feltrinelli dal 15 ottobre. PeaceReporter e Radio Popolare hanno anche prodotto uno speciale radiofonico sulle vittime dell'aggressione georgiana, trasmesso ieri.
ENRICO PIOVESANA
TSKHINVALI (OSSEZIA DEL SUD)
«Se non arrivavano i russi, a quest'ora saremmo tutti morti». Valentin butta il mozzicone di sigaretta tra i calcinacci che ricoprono il pavimento del suo appartamento, all'ultimo piano di un grande condominio alla periferia di Tskhinvali. Muri e soffitti sono anneriti dal fuoco e sventrati dalle cannonate georgiane. Alle fiamme sono sopravvissute solo le reti contorte dei letti e i cocci delle stoviglie di ceramica. «Questo palazzo è stato colpito dai missili Grad, dalle bombe aeree e dai carri armati. I georgiani hanno usato contro di noi tutte le armi che avevano. Solo in questa scala sono morte due persone. In duecento, per tre notti e tre giorni, abbiamo vissuto nelle cantine, senza luce, acqua né cibo. E ci è andata bene: in centro i soldati georgiani aprivano le botole dei rifugi e ci lanciavano dentro le bombe a mano».
In centro, in via Stalin, vive Soslan. Ha una trentina d'anni, gli occhi rossi per il pianto e la barba lunga di 40 giorni per il lutto, come vuole la tradizione cristiano-ortodossa. Sta in piedi a braccia conserte nell'orto dietro casa, vicino al tumulo di terra che, tra cetrioli e pomodori, ricopre le spoglie di due donne. «Mia madre Liana e mia nonna Elena sono morte durante i bombardamenti georgiani dell'8 agosto, quando un missile Grad ha colpito la nostra casa. Erano uscite dal rifugio per prendere del cibo per gli altri. Le abbiamo dovute seppellire qui nell'orto perché in città si combatteva: non potevamo portarle in cimitero».
Liana ed Elena sono solo due delle centinaia di vittime dell'attacco georgiano contro Tskhinvali, la capitale dell'Ossezia del Sud. Nonostante la velocità con cui le centinaia di operaie e operai ceceni delle imprese edili russe stanno ricostruendo e ripulendo la città, Tskhinvali mostra ancora tutti i segni dell'attacco georgiano. Gran parte degli edifici del centro - trecento abitazioni civili, scuole, asili, università, biblioteche, palazzi governativi - sono completamente distrutti dalle bombe e dalle fiamme, ricoperti da teli verdi che pare vogliano pudicamente nascondere la violenza subita. Tutte le altre costruzioni sono crivellate dagli spari delle mitragliatrici o squarciati dalle cannonate.
Ma ciò che più lascia esterrefatti è la vista dell'unico ospedale della città, anch'esso semidistrutto dalle cannonate e dalle mitragliatrici georgiane. «Nemmeno i nazisti sparavano di proposito contro gli ospedali!», si sfoga Tina, l'anziana capoinfermiera, con due occhi celesti ancora arrossati dalla stanchezza. Mostrandoci gli umidi sotterranei dove durante i bombardamenti sono stati trasferiti e curati centinaia di feriti, ci racconta la sua esperienza di quei giorni. «Lavoravamo senza macchinari e senza luce, con pochissime medicine. Sopra di noi continuavano a cadere le bombe. Io non mi sono fermata un minuto, non ho dormito mai, non c'era tempo. Ma ora non mi sento molto bene», dice iniziando a piangere. «Quando siamo riemersi da quell'inferno - continua con la voce rotta - c'è stata una cosa che ci ha fatto più male delle bombe: scoprire che le televisioni internazionali parlavano solo della Georgia e non dicevano una parola della tragedia che abbiamo vissuto qui. Vi prego, almeno voi raccontatela, dite la verità».
«Ma perché i vostri governi hanno appoggiato il regime fascista e criminale di Saakashvili? Perché le vostre istruite opinioni pubbliche non hanno protestato per l'aggressione georgiana contro di noi?», domanda Josiph, laureato in legge ed ex impiegato Osce, con sincero interesse e nostro grande imbarazzo. «Vi rendete conto che hanno bombardato a tappeto una città piena di civili, a freddo, anzi a tradimento, perché un'ora prima avevano detto che non avrebbero mai attaccato. E lo hanno fatto di notte, mentre la gente dormiva nei propri letti. I carri armati georgiani hanno sparato contro obiettivi civili, abitazioni, scuole, ospedali. Sparavano alla cieca, su tutto quello che si muoveva. I soldati georgiani buttavano granate nei rifugi. Hanno sparato con tank e cecchini contro le colonne di auto cariche di civili che cercavano di lasciare la città: tantissima gente è morta così! Non vi dice niente che il nome dell'operazione militare georgiana era 'Campo pulito'? Volevano sterminarci, cancellarci come popolo! E ci sarebbero riusciti se non fosse stato per i russi! Altro che reazione sproporzionata!».
Inal è un rubicondo giornalista locale, poeta a tempo perso. «Voi occidentali ci chiamate 'separatisti', come fanno i georgiani. Ma se si guarda alla storia di questo conflitto e al diritto internazionale è chiaro che i separatisti sono i georgiani, non noi. Nel settembre del 1990, quando c'era ancora l'Unione Sovietica, la regione autonoma dell'Ossezia del Sud, che all'epoca era parte della Repubblica sovietica georgiana, decise di rimanere a far parte dell'Urss. Questa scelta, del tutto legittima e legale, fu poi sancita nel marzo '91 da un referendum che si tenne in tutta l'Unione Sovietica. Un mese dopo, in aprile, la Georgia dichiarò la propria indipendenza da Mosca, pretendendo di mantenere la sovranità sull'Ossezia del Sud con la forza. Tbilisi dichiarò lo stato d'emergenza e ci attaccò: vennero bruciati più di cento villaggi e uccise oltre duemila persone. In trentamila fuggirono in Ossezia del Nord. Solo nel gennaio del '92, dopo la caduta dell'Urss, l'Ossezia del Sud si proclamò stato indipendente nella speranza, vana, di mettersi al riparo dalle aggressioni georgiane».
La campana della vecchia chiesetta ortodossa di Santa Maria, l'unica della città, suona a morto. Dentro, nella penombra e nel silenzio, le fiammelle di centinaia di candele accese in ricordo delle vittime di questa guerra illuminano le icone dorate che tappezzano le pareti. I devoti rendono grazie a San Giorgio, molto venerato da queste parti, il santo che uccise il drago simbolo del male. Sul muro fuori dalla chiesa, dipinte a vernice, le parole di un ringraziamento più terreno: «Spasìba Rossìa», grazie Russia.
In centro, in via Stalin, vive Soslan. Ha una trentina d'anni, gli occhi rossi per il pianto e la barba lunga di 40 giorni per il lutto, come vuole la tradizione cristiano-ortodossa. Sta in piedi a braccia conserte nell'orto dietro casa, vicino al tumulo di terra che, tra cetrioli e pomodori, ricopre le spoglie di due donne. «Mia madre Liana e mia nonna Elena sono morte durante i bombardamenti georgiani dell'8 agosto, quando un missile Grad ha colpito la nostra casa. Erano uscite dal rifugio per prendere del cibo per gli altri. Le abbiamo dovute seppellire qui nell'orto perché in città si combatteva: non potevamo portarle in cimitero».
Liana ed Elena sono solo due delle centinaia di vittime dell'attacco georgiano contro Tskhinvali, la capitale dell'Ossezia del Sud. Nonostante la velocità con cui le centinaia di operaie e operai ceceni delle imprese edili russe stanno ricostruendo e ripulendo la città, Tskhinvali mostra ancora tutti i segni dell'attacco georgiano. Gran parte degli edifici del centro - trecento abitazioni civili, scuole, asili, università, biblioteche, palazzi governativi - sono completamente distrutti dalle bombe e dalle fiamme, ricoperti da teli verdi che pare vogliano pudicamente nascondere la violenza subita. Tutte le altre costruzioni sono crivellate dagli spari delle mitragliatrici o squarciati dalle cannonate.
Ma ciò che più lascia esterrefatti è la vista dell'unico ospedale della città, anch'esso semidistrutto dalle cannonate e dalle mitragliatrici georgiane. «Nemmeno i nazisti sparavano di proposito contro gli ospedali!», si sfoga Tina, l'anziana capoinfermiera, con due occhi celesti ancora arrossati dalla stanchezza. Mostrandoci gli umidi sotterranei dove durante i bombardamenti sono stati trasferiti e curati centinaia di feriti, ci racconta la sua esperienza di quei giorni. «Lavoravamo senza macchinari e senza luce, con pochissime medicine. Sopra di noi continuavano a cadere le bombe. Io non mi sono fermata un minuto, non ho dormito mai, non c'era tempo. Ma ora non mi sento molto bene», dice iniziando a piangere. «Quando siamo riemersi da quell'inferno - continua con la voce rotta - c'è stata una cosa che ci ha fatto più male delle bombe: scoprire che le televisioni internazionali parlavano solo della Georgia e non dicevano una parola della tragedia che abbiamo vissuto qui. Vi prego, almeno voi raccontatela, dite la verità».
«Ma perché i vostri governi hanno appoggiato il regime fascista e criminale di Saakashvili? Perché le vostre istruite opinioni pubbliche non hanno protestato per l'aggressione georgiana contro di noi?», domanda Josiph, laureato in legge ed ex impiegato Osce, con sincero interesse e nostro grande imbarazzo. «Vi rendete conto che hanno bombardato a tappeto una città piena di civili, a freddo, anzi a tradimento, perché un'ora prima avevano detto che non avrebbero mai attaccato. E lo hanno fatto di notte, mentre la gente dormiva nei propri letti. I carri armati georgiani hanno sparato contro obiettivi civili, abitazioni, scuole, ospedali. Sparavano alla cieca, su tutto quello che si muoveva. I soldati georgiani buttavano granate nei rifugi. Hanno sparato con tank e cecchini contro le colonne di auto cariche di civili che cercavano di lasciare la città: tantissima gente è morta così! Non vi dice niente che il nome dell'operazione militare georgiana era 'Campo pulito'? Volevano sterminarci, cancellarci come popolo! E ci sarebbero riusciti se non fosse stato per i russi! Altro che reazione sproporzionata!».
Inal è un rubicondo giornalista locale, poeta a tempo perso. «Voi occidentali ci chiamate 'separatisti', come fanno i georgiani. Ma se si guarda alla storia di questo conflitto e al diritto internazionale è chiaro che i separatisti sono i georgiani, non noi. Nel settembre del 1990, quando c'era ancora l'Unione Sovietica, la regione autonoma dell'Ossezia del Sud, che all'epoca era parte della Repubblica sovietica georgiana, decise di rimanere a far parte dell'Urss. Questa scelta, del tutto legittima e legale, fu poi sancita nel marzo '91 da un referendum che si tenne in tutta l'Unione Sovietica. Un mese dopo, in aprile, la Georgia dichiarò la propria indipendenza da Mosca, pretendendo di mantenere la sovranità sull'Ossezia del Sud con la forza. Tbilisi dichiarò lo stato d'emergenza e ci attaccò: vennero bruciati più di cento villaggi e uccise oltre duemila persone. In trentamila fuggirono in Ossezia del Nord. Solo nel gennaio del '92, dopo la caduta dell'Urss, l'Ossezia del Sud si proclamò stato indipendente nella speranza, vana, di mettersi al riparo dalle aggressioni georgiane».
La campana della vecchia chiesetta ortodossa di Santa Maria, l'unica della città, suona a morto. Dentro, nella penombra e nel silenzio, le fiammelle di centinaia di candele accese in ricordo delle vittime di questa guerra illuminano le icone dorate che tappezzano le pareti. I devoti rendono grazie a San Giorgio, molto venerato da queste parti, il santo che uccise il drago simbolo del male. Sul muro fuori dalla chiesa, dipinte a vernice, le parole di un ringraziamento più terreno: «Spasìba Rossìa», grazie Russia.
© PeaceReporter