"...Il sindacalismo di base, infatti, ha reso possibile che nel 1999 (aggressione alla Jugoslavia) e nel 2003 (aggressione all’Iraq) siano stati convocati degli scioperi generali dei lavoratori contro la guerra, così come è avvenuto in momenti politici significativi nel nostro paese come a Genova nel Luglio 2001, contro la repressione del movimento popolare in Val di Susa nel 2005 e a Vicenza (2006) contro la decisione governativa di costruire una nuova base militare USA al Dal Molin.

Al contrario Cgil-Cisl-Uil non hanno mai voluto convocare scioperi contro la guerra (l’aggressione alla Jugoslavia l’hanno addirittura condivisa assieme alla “sinistra di governo” dell’allora esecutivo D’Alema) ed anche le correnti più avanzate nei sindacati ufficiali (Essere Sindacato prima, Lavoro e Società, Rete 28 Aprile dopo o la stessa Fiom) non hanno mai potuto convocare gli scioperi quando la gravità della situazione politica lo richiedeva non potendo o non essendosi dotati di strutture in grado di operare autonomamente..."

http://www.contropiano.org/Documenti/2008/Ottobre08/15-10-08ComunistiSindacatoRicomposizione.htm



Un dibattito da aprire

I comunisti, il sindacato, la ricomposizione del blocco sociale antagonista


La scelta da parte di alcuni compagni ed esperienze del movimento comunista di sostenere e costruire i sindacati di base e alternativi a quelli ufficiali, in Italia è una scelta maturata - sulla base di una analisi concreta della realtà concreta - già negli anni Ottanta. Prima con il giornale Contropiano e poi con la costituzione della Rete dei Comunisti, in questi anni abbiamo cercato di portare dentro un dibattito, troppo spesso liturgico, alcuni necessari elementi di rottura culturale e di sperimentazione concreta nell’iniziativa politica e sindacale. Un contributo, tanto più necessario, all’indomani della catastrofe politica ed elettorale della “sinistra”mentre è in corso una potente offensiva contro i lavoratori e i ceti sociali subalterni ad opera dei poteri forti del capitale.


La destrutturazione del lavoro

In Italia dalla fine degli anni ’70 in poi abbiamo assistito ad un violento processo di destrutturazione del mercato del lavoro. Questo processo si è abbattuto prima tra i lavoratori salariati delle grandi fabbriche ed ha visto la chiusura di interi stabilimenti, una impetuosa delocalizzazione produttiva (cresciuta nei primi anni Novanta, particolarmente verso Est all’indomani dell’89) e una riorganizzazione complessiva basata su unità produttive con sempre meno lavoratori occupati in Italia (il 90% delle imprese in Italia ha meno di 10 operai).

La seconda fase della destrutturazione (anni Novanta) si è abbattuta sui lavoratori dei servizi strategici a rete nei trasporti, nelle telecomunicazioni, nell’energia e nel credito attraverso le privatizzazioni, la flessibilità, le esternalizzazioni.

La terza fase è in corso e si sta concentrando contro l’ultimo fronte di rigidità della forza lavoro cioè i lavoratori delle amministrazioni pubbliche dove negli anni scorsi sono già stati introdotti precarietà e logica d’impresa a scapito di ogni funzione pubblica.

L’Italia fino ai primi anni ’90 è stata una società con una forte prevalenza dei ceti medi, una prevalenza dovuta al fatto che pezzi consistenti di lavoratori salariati erano stati integrati dentro la condizione materiale e culturale assimilabile alle “classi medie” (è sufficiente pensare ai lavoratori dei servizi a rete o del pubblico impiego). La borghesia ha sapientemente utilizzato queste nuove stratificazioni sociali per isolare e destrutturare i lavoratori salariati dell’industria i quali erano quelli che per tutto un ciclo hanno potuto contare su una condizione di unità politica e materiale di classe.

La cooptazione delle classi medie nella modernizzazione del sistema è stata decisiva per la sconfitta degli operai Fiat nel 1980 e per l’abolizione della Scala Mobile nel 1984/85. L’uso abnorme della spesa pubblica in questo processo di cooptazione sociale di pezzi di lavoro salariato, dentro il progetto di riqualificazione e di rilancio del capitalismo in Italia, è stato evidente fino a quando – nel 1992, con l’esplodere di Tangentopoli e l’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica – il segno di questa modernizzazione ha assunto il carattere aperto del liberismo, delle privatizzazioni, della riduzione della quota di ricchezza destinata al lavoro a tutto vantaggio di profitti e rendite.


Il capitalismo rivela il suo carattere regressivo

La rottura del compromesso sociale in funzione antioperaia, è avvenuta sia sul piano del sistema politico sia sul piano sociale con l’avvio delle misure economiche dettate dai parametri di Maastricht indispensabili alla costruzione del polo imperialista europeo. In Italia, questi provvedimenti, sono stati gestiti attraverso la concertazione con i sindacati ufficiali i quali hanno sposato, a pieno, gli interessi dell’economia nazionale e delle compatibilità della cosiddetta “Azienda Italia” dismettendo, completamente ogni elemento di alterità conflittuale.

Questo processo ha portato al crollo dei salari dei lavoratori italiani (oggi i più bassi d’Europa ad esclusione del Portogallo), ad una spartizione al ribasso della quota del monte salari da dividere in un numero più ampio di lavoratori dovuta alla crescita dell’occupazione attraverso il lavoro precario e intermittente. Sul piano generale questa intensificazione (qualitativa e quantitativa) dello sfruttamento è tra le cause più importanti una crescita vertiginosa dei lavoratori morti e feriti sul lavoro, ma soprattutto ha portato al pesante arretramento della quota di ricchezza destinata al lavoro rispetto a quella destinata a profitti e rendite. Secondo alcuni calcoli e proiezioni statistiche, siamo precipitati ai livelli del 1881, cioè all’Ottocento.

Questa lotta di classe del Capitale contro il Lavoro, ha polverizzato la vecchia mappa sociale fondata sulla prevalenza dei ceti medi ed ha provocato una brusca polarizzazione sociale che presenta tratti di vera e propria proletarizzazione di quote sempre più ampie di lavoratori.

Gli effetti di questa proletarizzazione acuiscono nitidamente il carattere di classe del conflitto sociale e ne aumentano enormemente le potenzialità politiche. Questo processo, però, non ha incontrato sulla sua strada, né al suo fianco, una soggettività comunista e anticapitalista adeguata a coglierne le domande, la rabbia, la voglia di rivalsa, l’insicurezza sociale, al contrario ha trovato una soggettività e una sovrastruttura culturale reazionaria (e per molti aspetti fascista, razzista e xenofoba) che ne ha intercettato le spinte, le paure e le rabbiose doglianze.

Oggi i lavoratori e le loro famiglie si trovano apertamente in competizione in termini di salari, di spazio e di usufruibilità dei servizi con i lavoratori migranti e le loro famiglie. E’ una competizione in basso innescata e alimentata dalle politiche di riduzione del monte salari, di taglio e degrado dei servizi sociali, degli alloggi popolari, dei trasporti pubblici. Questa situazione mostra, chiaramente il carattere regressivo del capitalismo e lo mostra non solo ai militanti comunisti ma all’insieme della società.

Oggi in Italia, come altrove, il capitalismo sta evidenziando enormemente la contraddizione tra aspettative e realtà. La crisi inizia a delineare caratteri regressivi ed antisociali di questa formazione sociale. E che questa tendenza non sia una nostra profezia ideologica è dimostrato dall’esplodere della questione ambientale e del suo stretto intreccio con gli attuali meccanismi di valorizzazione del capitale, con la immanente manomissione del territorio e con i pericoli di un probabile infarto ecologico del pianeta.

I giovani lavoratori spesso hanno un livello di istruzione e scolarizzazione elevato, ma la logica del mercato è in grado di determinare solo lavori sottopagati e al di sotto delle legittime aspettative. Questa situazione non riguarda solo gli operatori dei call center o dei servizi sociali, ma anche settori avanzati come i ricercatori scientifici o i giornalisti. In tutti questi comparti imperversano precarietà e salari irrisori al pari del mondo della scuola pubblica e della formazione sottoposto da anni, prima con i governi di centro-sinistra ed ora con il governo Berlusconi ad un continuo declassamento.

Per la prima volta dall’Ottocento, ci troviamo di fronte ad un declino generazionale per cui i nostri figli sono destinati ad avere aspettative ed a vivere in condizioni peggiori della nostra generazione. Si è così interrotto un processo progressivo che aveva visto l’attuale fascia sociale dei cinquantenni vivere meglio dei genitori, che a loro volta hanno vissuto meglio dei loro genitori e così via. E’ un arretramento visibile e pesante soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato piuttosto che nei paesi della periferia industriale dove, al contrario, a seguito dell’esplodere di forti movimenti sociali, sono in corso variegate ed interessanti controtendenze rispetto ai decenni scorsi in cui imperversavano il selvaggio liberismo e gli effetti della incontrastata politica di rapina neocoloniale.


La scelta dei comunisti di organizzare i sindacati di base

La destrutturazione del mercato del lavoro, i licenziamenti di molti delegati e la verticale riduzione degli spazi democratici dentro i sindacati ufficiali, hanno fatto sì che in Italia, negli anni ’80 hanno cominciato a sorgere i sindacati di base organizzati da comunisti, da settori più radicali della sinistra e da delegati e dirigenti sindacali non asserviti alla linea dei sacrifici portata avanti dalla Cgil. Queste esperienze di base sono nate lì dove era possibile consolidare una presenza significativa e organizzare settori di lavoratori, in modo particolare nel settore pubblico e nei servizi a rete (trasporti, energia, telecomunicazioni). Ancora oggi rimane ardua l’organizzazione dei sindacati di base nelle fabbriche ancora attive o nei settori dove l’agibilità sindacale è più ridotta e il controllo dei sindacati ufficiali convive, sostanzialmente, con il comando padronale. Ma esperienze significative non sono mancate in passato ed altre ne stanno emergendo anche in questo segmento sociale. Infatti negli ultimi anni, da Mirafiori a Melfi passando per Pomigliano d’Arco o alle tante fabbriche dei distretti industriali fino ai centri della grande distribuzione (Auchan, Carrefour etc.) molti delegati iscritti ai sindacati di base sono stati repressi e licenziati a causa della loro attività di promozione dell’autorganizzazione.

A tale stadio delle contraddizioni riteniamo che la linea, implicita od esplicitata, secondo cui bisogna sempre svolgere attività politica anche dentro i sindacati “reazionari”, nell’attuale contesto storico – profondamente diverso da quello in cui questa tesi è stata avanzata da Lenin - non ha più lo stesso significato anzi relega la soggettività comunista ad una funzione di mera, quanto inefficace, testimonianza. Gli spazi di agibilità democratica oramai inesistenti bloccano ogni vera dialettica interna, ai sindacati concertativi, che possa realmente modificarne la maggioritaria linea politica collaborazionista.

Inoltre la modifica della composizione del mondo del lavoro riduce la rappresentanza stessa dei sindacati storici che rappresentano ormai una minoranza dei lavoratori rispetto all’intera gamma con cui si articola lo sfruttamento capitalistico. In Italia come in Spagna o in Francia il tasso di sindacalizzazione è mutato al ribasso, rispetto a quanto ancora permane nei paesi del Nord/Europa, per cui la stessa forma tradizionale del sindacato deve trovare nuove modalità di configurazione, di sviluppo organizzativo e di compiuta strutturazione nei posti di lavoro e nella società tutta.

A nostro avviso, per i comunisti oggi la scelta dell’organizzazione e del rafforzamento del sindacalismo di base, indipendente e alternativo a quello concertativo e collaborazionista di Cgil- Cisl-Uil è diventata un progetto strategico. Un fondamentale punto di programma politico generale che costituisce, a nostro giudizio, un elemento di linea fondante per il rilancio di una moderna opzione comunista che vuole rapportarsi alle dinamiche vive e conflittuali agenti. Il problema non è quello di sancire uno “strappo”con un tessuto di compagni e delegati combattivi ancora all’interno dei sindacati concertativi (per quanto la normalizzazione stia riducendo ferocemente i margini di agibilità democratica e rappresentatività di questi compagni dentro quella realtà). Si tratta invece di prendere atto che i comunisti e i militanti anticapitalisti devono costruire e rafforzare gli strumenti concreti di relazione con i settori di classe nel nostro paese per orientarli ed affrontare in modo organizzato il conflitto sociale. Per troppo tempo i comunisti si sono limitati a fare agitazione politica dentro questi sindacati o si sono fatti assorbire da una interminabile battaglia interna di minoranza che non ha mai concretizzato livelli reali di organizzazione autonoma sul piano delle lotte e della successiva tenuta organizzativa. Questa strada non ha prodotto i risultati sperati sul piano sindacale né su quello politico (se molti lavoratori si iscrivono alla Fiom ma poi votano per la Lega – oppure viceversa come sostiene acutamente il compagno Giorgio Gattei - vuol dire che la contraddizione c’è tutta e va compresa fino in fondo). Al contrario il sindacalismo di base (anche all’indomani della prima assemblea nazionale unitaria tra Cub, Cobas e SdL tenutasi a Milano lo scorso 17 maggio e della stipula del recente Patto di Consultazione) ha dimostrato di essere una realtà consolidata che in molti casi risponde dall’esigenza di una identità politica e di classe dei lavoratori ancora più chiaramente di quanto abbia saputo fare, nel corso degli anni passati, la “politica” dei partiti della sinistra.


Un contributo al sindacato conflittuale del XXI° Secolo

Abbiamo spesso scritto e detto che i comunisti dentro i sindacati non possono limitarsi (o condannarsi) alla propaganda e alla testimonianza, ma devono cercare di contribuire alla loro crescita con l’elaborazione politica e teorica e con sperimentazioni nel movimento reale. In questi anni – ad esempio - abbiamo sviluppato una analisi e una inchiesta articolata sulla realtà delle aree metropolitane come territorio politico in cui quantità e qualità delle contraddizioni di classe, dopo i decenni delle grandi ristrutturazioni, possono trovare una sintesi che fino a ieri era assicurata dalle grandi concentrazioni industriali. La crescente frammentazione della composizione di classe vede assumere nuova e maggiore rilevanza alla questione del salario sociale cioè a quel complesso di servizi, contraddizioni, esigenze che il salario monetario e il rapporto stabile con il luogo di lavoro non assicurano più come prima. I precari, i giovani lavoratori intermittenti e le loro esigenze non trovano più nel posto di lavoro e nella filosofia lavorista il luogo e il simbolo della loro identità di classe. La ricomposizione di questa identità sociale frammentata può avvenire sul territorio qualora in esso agisca un “sindacato” capace di organizzare, orientare, dare identità ad una sorta di contrattazione sociale che accompagni quella sul lavoro o la sostituisca qualora questa non abbia la possibilità di esistere. La contrattazione sociale sul diritto alla casa, contro il carovita, per maggiori servizi sociali può aprire un canale di comunicazione sociale e di organizzazione di interi settori di classe oggi completamente atomizzati dalla destrutturazione del mercato del lavoro.

Per tali motivi e sulla base di questa analisi, sul piano dell’organizzazione concreta del blocco sociale antagonista, viene assumendo crescente interesse la sperimentazione sul campo dell’idea/forza di una sorta di “sindacato metropolitano” che verifichi le possibilità di ricomposizione di un proletariato metropolitano fortemente intrecciato – ma diversificato – dal mondo del lavoro tradizionale che abbiamo conosciuto e dentro cui ci siamo battuti in questi decenni. L’altro tema su cui occorrerà collettivamente verificarsi e politicamente attrezzarsi, nella nuova condizione del conflitto, è quello che attiene all’ingresso dei migranti nel mercato del lavoro “legale” ed “illegale”. Questa situazione, oramai consolidata anche nei numeri, oltre ad essere un dato riscontrabile in tutta Europa, pone ai comunisti una inedita sfida teorica e pratica. L’azione concreta per ricomporre, superando razzismo e competizione tra sfruttati, le diverse sezioni del moderno proletariato, acutizzate oltre che dal corso generale della crisi anche dai dispositivi di aggressione e rapina neocoloniale dell’occidente, diventa un banco di prova politicamente qualificante per reggere, anche sul terreno dello scontro di classe immediato, l’intensificarsi della competizione globale interimperialista. A tale scopo sollecitiamo ed appoggiamo tutti i tentativi di organizzazione unitaria tra “bianchi” e “colorati” e ci opponiamo ad ogni provvedimento di differenziazione razzistica nel modo del lavoro e dei lavori.


Il sindacato come strumento di orientamento dei lavoratori

Ci sono stati episodi concreti e significativi sul piano politico generale (e non solo rivendicativo) che hanno dimostrato l’importanza dell’esistenza dei sindacati di base e della loro capacità di azione autonoma. Il sindacalismo di base, infatti, ha reso possibile che nel 1999 (aggressione alla Jugoslavia) e nel 2003 (aggressione all’Iraq) siano stati convocati degli scioperi generali dei lavoratori contro la guerra, così come è avvenuto in momenti politici significativi nel nostro paese come a Genova nel Luglio 2001, contro la repressione del movimento popolare in Val di Susa nel 2005 e a Vicenza (2006) contro la decisione governativa di costruire una nuova base militare USA al Dal Molin.

Al contrario Cgil-Cisl-Uil non hanno mai voluto convocare scioperi contro la guerra (l’aggressione alla Jugoslavia l’hanno addirittura condivisa assieme alla “sinistra di governo” dell’allora esecutivo D’Alema) ed anche le correnti più avanzate nei sindacati ufficiali (Essere Sindacato prima, Lavoro e Società, Rete 28 Aprile dopo o la stessa Fiom) non hanno mai potuto convocare gli scioperi quando la gravità della situazione politica lo richiedeva non potendo o non essendosi dotati di strutture in grado di operare autonomamente.

Questo limite è stato ancora più evidente quando, a seguito della firma di Cgil-Cisl-Uil al Protocollo del 26 luglio sul Welfare del governo Prodi, gli stessi militanti dissidenti non hanno potuto svolgere la loro opposizione apertamente perché imbrigliati, politicamente ed organizzativamente, nelle pastoie politiciste e burocratiche del sindacalismo concertativo.

Lo strumento/sindacato – pur configurandosi ed agendo in contesti diversi e con modalità pecularie - rimane un mezzo di organizzazione e di relazione importante tra i comunisti e i lavoratori, soprattutto se – anche nelle condizioni di una profonda frammentazione di classe come quella attuale – contribuisce a mantenere o ridare identità di classe e non solo obiettivi meramente economici ai lavoratori stessi.

Sulla base di queste considerazioni – che spesso ci hanno visto divergere e discutere con altri compagni in Italia e a livello internazionale - la Rete dei Comunisti intende contribuire al consolidamento del sindacalismo di base ed indipendente ed a tutti i progetti tesi alla costruzione di un vasto ed articolato schieramento anticapitalistico nel nostro paese.


* questo è il documento è l'inserto/speciale volantone di Contropiano che la Rete dei Comunisti ha distribuito nelle varie città e distribuirà alla manifestazione di Roma del 17 ottobre in occasione dello sciopero generale convocato dai sindacati di base CUB, Cobas, SdL.



Si veda anche questo link per i comunicati e le foto del corteo:
http://nazionale.rdbcub.it/index.php?id=20&tx_ttnews[tt_news]=16381&cHash=f0385143e7&MP=63-552