L'Ispettorato Speciale di PS a Trieste 
e altre cose da ricordare nella Giornata Della Memoria

fonte: La Nuova Alabarda, periodico triestino


Vedi anche: 

GIORNATA DELLA MEMORIA: IL RASTRELLAMENTO DI BORŠT

L'Ispettore De Marco E La Pubblica Sicurezza Sul Confine Orientale


---

TRA MEMORIA E RICORDO.

Per non dimenticare i giorni della Resistenza

e della ferocia del nazifascismo,

per ricordare Giorgio Marzi presidente provinciale dell’Anpi scomparso due mesi or sono,

in memoria di Saša Ota caduto a Mostar nel 1994 assieme ai suoi colleghi Rai mentre documentavano l’orrore delle guerre,

il CIRCOLO STELLA di Sottolongera (TS) in collaborazione con la “NUOVA ALABARDA” e l’ANPI provinciale di Trieste

organizzano

la proiezione del filmato sulla Villa Triste di via Bellosguardo (sede dell’Ispettorato Speciale di PS di Trieste, luogo di repressione e torture), realizzato da Saša Ota

e rielaborato da Fabio Mosca.

 

LUNEDÌ 9 FEBBRAIO 2009 ALLE ORE 18

presso la Casa del popolo “Giorgio Canciani”

di Sottolongera (TRIESTE), via Masaccio 24 



---



TRA MEMORIA, RICORDO E PROPAGANDA.

Ancora una volta si torna a parlare di “pacificazione” e di “riconciliazione” tra Italia, Slovenia e Croazia da tenersi a Trieste nei luoghi della memoria, questa volta su impulso del presidente croato Stipe Mesic, che ha aggiunto \"a patto che non vengano messi sullo stesso piano il fascismo e coloro che contro il fascismo hanno combattuto\".
Pronta la risposta del capo di Stato sloveno Danilo Türk, che ha affermato che Roma soffrirebbe ancora di un \"deficit etico\" sulle colpe del fascismo nelle terre al confine orientale.
E come ha risposto il nostro ministro degli esteri? \"La risposta al presidente sloveno è nella Costituzione italiana, in vigore da 60 anni e prova vivente della coscienza democratica e antifascista del nostro Paese\".
Bella risposta, significativa: ma con la Costituzione italiana mal si accompagnano certe abitudini inveterate della nostre istituzioni. Citiamo ad esempio il fatto che l’amministrazione comunale di Gorizia continui a celebrare l’anniversario della battaglia di Tarnova assieme ai reduci della Decima Mas, fatto questo denunciato dal solo rappresentante provinciale del PDCI; ma anche l’attribuzione delle onorificenze da parte del Quirinale ai cosiddetti “infoibati” tra i quali troviamo non solo militari che avevano combattuto agli ordini del Reich germanico aiutando i nazifascisti ad uccidere, torturare e deportare altri cittadini italiani, ma addirittura un criminale di guerra denunciato dalle Nazioni Unite, Vincenzo Serrentino, processato e fucilato in Jugoslavia. 
E come inserire nella “coscienza democratica e antifascista del nostro Paese” le due recenti proposte di legge in discussione al Parlamento: quella sul riconoscimento dello status di combattenti alla Guardia civica triestina (un corpo che fu alle dirette dipendenze del Reich germanico, di fatto collaborazionista, che partecipò attivamente ai rastrellamenti, alle repressioni ed alle deportazioni a fianco dei militari e della SS germanici); e quella per l’istituzione dell’“Ordine del Tricolore”, onorificenza “conferita a coloro che hanno prestato servizio militare, per almeno sei mesi, in zona di operazioni, anche a più riprese, nelle Forze armate italiane durante la guerra 1940-1945 e invalidi, o nelle formazioni armate partigiane o gappiste, regolarmente inquadrate nelle formazioni dipendenti dal Corpo volontari della libertà, ai combattenti della guerra 1940-1945, ai mutilati e invalidi della guerra 1940-1945 titolari di pensione di guerra e agli ex prigionieri o internati nei campi di concentramento o di prigionia, nonché ai combattenti nelle formazioni dell\'esercito nazionale repubblicano durante il biennio 1943-1945”.
Ecco qui infine scandalosamente equiparati i combattenti per la libertà con i combattenti per il nazifascismo, le vittime con i loro aguzzini, gli occupati con gli occupatori, i torturati con i torturatori, i fucilati con i fucilatori (ricordate il bando firmato da Almirante che ordinava la fucilazione alla schiena dei renitenti alla leva dell’esercito repubblichino?).
Poi Frattini ha liquidato (citiamo dall’Ansa) “il tema delicato delle foibe” dicendo: \"tutto quello che ha offeso in modo assolutamente irreversibile la dignità anche di una sola persona è stato il male assoluto\". 
Ma le cose che hanno offeso in modo irreversibile la dignità delle persone sono moltissime. Come possiamo definire la situazione delle vittime di piazza Fontana e dei loro parenti, che ancora non sanno come e perché sono morti i loro cari? E Pino Pinelli, caduto per “malore attivo”, come da sentenza irrevocabile, dal quarto piano della questura di Milano, è o non è stato offeso in modo irreversibile nella propria dignità? Potremmo continuare con questi esempi, e concludere che anche la gestione della cosa pubblica italiana nel dopoguerra è stata “male assoluto”. Ma sappiamo che non si può generalizzare, e che c’è una certa qual differenza dalla politica dello sterminio così come intesa dal nazifascismo che la pianificò con le leggi razziali e con la repressione indiscriminata degli oppositori, e gli episodi di violenza e di ingiustizia commessi in altri modi ed altri tempi da altre e diverse forme di potere, tra le quali anche il ricorso alla pena di morte come fece la Jugoslavia nel dopoguerra.
Infine una parola sulla questione di Norma Cossetto, dato che a febbraio dovrebbe venire Fini a Trieste ad inaugurare un monumento a lei dedicato. Ricordiamo che Norma Cossetto viene ricordata non perché la sua vita sia stata di esempio per chicchessia (non come Salvo d’Acquisto che offrì la propria vita per salvare dei condannati a morte) ma per essere stata (presumibilmente: prove non ne sono) violentata e poi uccisa sommariamente: come migliaia di altre ragazze è stata una vittima della guerra e della violenza maschile. 
Alla memoria di Norma Cossetto sono state intitolate vie, attribuite medaglie ed onorificenze, ed oggi si vuole anche farle un monumento. Un pensiero va alle due ragazze del Circeo torturate violentate massacrate: Rosaria Lopez, vent’anni, uccisa, e Donatella Colasanti, diciassettenne, ridotta in fin di vita ma sopravvissuta, che trovò il coraggio e la forza di denunciare e far finire in galera i suoi aggressori, giovanotti “bene” politicamente viranti a destra. Non meriterebbero un monumento anche queste due donne? Oppure il problema è che quando la memoria viene finalizzata alla propaganda si perdono di vista i veri valori?

gennaio 2009

---


ATTIVITÀ DELL’ISPETTORATO SPECIALE DI PS DI TRIESTE.

Per non dimenticare, in questi giorni di memorie e di ricordi, ecco quanto risulta dagli archivi a proposito dell’attività repressiva dell’Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia, comandato dall’Ispettore Generale Giuseppe Gueli, il cui vice era il commissario Gaetano Collotti, tristemente famoso per la violenza sadica con cui si dedicava agli interrogatori dei “ribelli” o presunti tali. Parte degli atti del processo Gueli si trovano nell’Archivio dell’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (“Carteggio processuale Gueli”, archivio IRSMLT n. 914).

LA TORTURA COME METODO DI REPRESSIONE. 

Non fu certo l’arrivo dei nazisti a rendere particolarmente efferati i metodi di interrogatorio dell’Ispettorato Speciale, difatti moltissime delle testimonianze raccolte nel corso dei processi contro i suoi appartenenti si riferiscono a periodi antecedenti la destituzione di Mussolini. Le violenze e le torture erano pratica comune e notoria, al punto che lo stesso vescovo di Trieste Antonio Santin, già nella primavera del 1943, aveva cercato di intervenire per far cessare le vessazioni, pur sostenendo che all’inizio non aveva preso sul serio le testimonianze che parlavano delle sevizie inflitte agli arrestati. 
Sulle torture e le sevizie cui venivano sottoposti gli arrestati dalla banda Collotti esistono molte agghiaccianti testimonianze, facenti parte degli atti dei processi Gueli e Ribaudo e di quello per la Risiera di S. Sabba; si trovano nell’archivio dell’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste e dell’Odsek za Zgodovino ed alcune di esse sono anche state riportate sui giornali e trascritte in vari libri. 
Ad un certo punto mi sono trovata a dover valutare se pubblicare dettagliatamente queste testimonianze, che, come tutte le testimonianze del genere, sono racconti tremendi che sconvolgono chi li legge. Una cosa che mi ha colpito, tra l’altro, dei racconti dei torturati, è che c’è sempre una sorta di pudore in questi racconti; ricordo una signora che dopo avere descritto alcune torture da lei subite si è bloccata, ha pensato un attimo e poi ha detto che il resto non aveva importanza. Psicologicamente ciò ha lo scopo di cercare di rimuovere il ricordo del dolore, che non è solo fisico ma è soprattutto il dolore di chi si rende conto di avere subito la violenza della cattiveria altrui, e prova per questo una sorta di vergogna, come se la colpa delle sevizie fosse più sua che non dei suoi torturatori.
Alla fine ho deciso di non trascrivere tutte le testimonianze nei particolari: la perversa fantasia umana ha inventato moltissimi diversi modi per torturare i propri simili, e questi modi sono sempre gli stessi, quelli di Collotti (e degli altri organi repressivi nazifascisti) li abbiamo rivisti nell’America Latina delle dittature come nella Grecia dei colonnelli, e vengono usati ancora oggi in moltissimi paesi (tanto per fare un nome, lo stato di Israele, che se ne frega delle convenzioni internazionali; ma va ricordato anche lo scandalo del comportamento di alcuni militari italiani in Somalia nel 1994 e quello più recente del carcere di Abu Ghraib in Iraq). Ciò che va però detto è che nelle sedi dell’Ispettorato la tortura era la regola e non l’eccezione; che le testimonianze sono moltissime e descrivono sempre le stesse sevizie: percosse, frustate, scosse elettriche, atti vari di sadismo feroce, violenze sessuali sulle donne; che l’impressione finale è che si torturassero i prigionieri non tanto per estorcere loro confessioni o delazioni, quanto per distruggerli fisicamente e moralmente, e per fungere da deterrente alla resistenza, facendo sapere a chi voleva agire contro la dittatura a cosa andava incontro una volta catturato. La tortura come metodo terrorista, dunque: come nell’Argentina di Videla, nel Cile di Pinochet, nel Brasile di Garrastazu Medici.

Uomini e donne arrestati dall’Ispettorato a Trieste e nel corso di rastrellamenti operati nei paesi del circondario (ricordiamo che l’area controllata dall’Ispettorato comprendeva sia il Carso che l’Istria ed arrivava a nord fino alla zona di Tolmino), tra un “interrogatorio” e l’altro nella Villa Triste di via Bellosguardo, venivano rinchiusi nelle carceri dette dei “Gesuiti”, presso la chiesa di S. Maria Maggiore.
Le testimonianze che seguono si trovano nel Carteggio processuale Gueli (archivio IRSMLT 914). 
C’è una testimonianza di suor Teresa Lunardi, madre superiora, che prestò servizio < alle carceri dei Gesuiti per detenute > e racconta delle sevizie di cui parlavano le donne < provenienti dalle celle di v. Bellosguardo (...) e poi di via Cologna >. Ne parlò con padre Faustino, cappellano delle carceri che ne riferì al Vescovo. < Padre Faustino mi narrò che Gueli lo minacciò di inviarlo al confino > aggiunge suor Teresa.
Ecco la testimonianza di padre Faustino Maria Piemonte: 
< Dall’istituzione dell’Ispettorato di v. Bellosguardo (1942) fino all’aprile del 1945 sono state commesse sevizie, atti nefandi, quali violenze carnali, perfino stupri (...) da parte di commissari ed agenti dell’Ispettorato. (...) Al Vescovo esposi quanto mi era noto (...). Gueli mi diffidò minacciandomi di spedirmi al confino e denunciandomi al Tribunale Speciale (...) >.
Il Vescovo di Trieste, Antonio Santin, scrisse il 12/3/43 al sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi, esponendogli quanto segue:
< È da tempo che si sente che coloro che vengono fermati vengono violentemente percossi perché parlino. Queste voci in questi ultimi tempi si sono fatte più insistenti. Vi posso assicurare che vi è nella popolazione un sordo malcontento ed una viva indignazione per questo trattamento. Ciò è contrario alle leggi dell’umanità e pregiudica il buon nome italiano. In un primo tempo non volevo credere a simili voci (...) ma ora non più (...) recentissimamente queste cose le ho sapute da fonte diretta (...) Uomini e donne vengono seviziati nel modo più bestiale. Vi sono dei particolari che fanno inorridire. Giovani donne e perfino minorenni vengono denudate completamente e si abusa di loro in modo osceno e crudele. Pieni di lividure, uomini e donne sentono il più vivo disprezzo per coloro che così li martoriano (...).
Quando la persona umana non ha più nessun diritto, si rivolta violentemente perché non ha più nulla da perdere. Perciò io guardo con spavento a questi fatti (...) >.
A proposito dell’intervento del vescovo su questi fatti, vale la pena di riferire un’altra annotazione dello studioso triestino Diego de Henriquez, al quale il funzionario dell’Ispettorato Speciale, dottor Maddalena avrebbe detto di essere andato un giorno in visita al vescovo Santin e di essere stato rimproverato per l’uso dello strumento di tortura della “cassetta” (metodo del quale parleremo dopo), già usato in Sicilia dal Prefetto Mori contro la mafia. Il vescovo avrebbe detto: < capisco che la polizia usi le botte, i cazzotti, ma non questo > (Pag. 3.094 del Diario n. 16).

Questo articolo di Carlo Ventura (“Il tempo dell’angoscia” nella rivista “Trieste”, n. 20, luglio/agosto 1957) tratteggia l’attività repressiva dell’Ispettorato analizzandone anche la funzione politica.
< Prima di tutto una leggenda da sfatare: è opinione diffusa negli ambienti cittadini intossicati dalla locale stampa fascisteggiante, che il sistema di inquisizione poliziesca instaurato nella Venezia Giulia fosse una derivazione o un’imposizione in loco di principi nazisti venuti in auge o applicati su larga scala dopo l’8 settembre 1943. La verità è che tali principii preesistevano alla calata dei tedeschi e che sotto la loro occupazione vennero semmai intensificati e portati a “scientifica perfezione”; e quasi sempre, bisogna tristemente aggiungere, dietro diretta iniziativa italiana.
Basta dare un’occhiata alla nostra storia recente per accorgersene. Il fascismo ha sempre fedelmente applicato le sue massime fondamentali nelle terre di confine, inasprendone le misure durante il periodo bellico; alla vigilia della sua caduta – per quella legge fatale che rende bestiali i regimi quando fiutano odor di sedizione – si nota un’accentuazione parossistica delle repressioni poliziesche contro italiani e slavi. Oltre alle sezioni di Trieste si distinguono in ciò anche i commissariati di PS di Pisino e di Albona. Nella nostra città - federale Giovanni Spangaro e scagnozzi Mario Storini, Tiberio Forti e Beniamino Fumai – il Fascio esplica un’attività febbrile: saccheggia negozi e pubblici esercizi ebraici e slavi. Terrorizza con scorrerie notturne rioni popolari notoriamente ostili come S. Giacomo e S. Giovanni, organizza “spedizioni punitive” nelle misere borgate dell’altipiano carsico, che si concludono invariabilmente con arresti ed uccisioni di contadini ed incendi di campagne ed edifici colonici. I tedeschi qui non c’entrano.
Durante il periodo badogliano la situazione non muta (...) se lo squadrista Tamburini deve cedere il posto al monarchico Prefetto Cocuzza, costui (come del resto gli alti comandi dell’esercito) dimostra di essere preso più dalla psicosi panica dei ribelli e degli oppositori di ogni colore che dalla grave realtà della metodica e persino palese penetrazione germanica, che si va attuando un po’ dappertutto. Più significativa di qualsiasi altro episodio, a questo proposito, è una dichiarazione di quei giorni del Capo di S.M. dell’Esercito Generale Ferrero, nella quale l’accento principale è posto costantemente sulla “difficoltà di realizzare i provvedimenti di internamento devoluti all’Ispettorato centrale di PS della Venezia Giulia anche per la saturazione dei campi di concentramento” (...) >.

< Collotti (...) odiava con ferocia i partigiani italiani e slavi, ma per gli slavi nutriva un odio particolare. Infatti mentre sottoponeva gli italiani ad una serie di torture che andavano dalle busse alla (...) introduzione di decine di litri di acqua calda ed allo schiacciamento delle dita, per gli sloveni riservava dei tormenti inenarrabili (...) che costituiscono il tragico ricordo di uomini e donne della nostra città che sono passati dalle celle di Villa Triste alle camere di tortura e da qui ai campi di concentramento... > “Il Lavoratore”, 29/11/59. 

< Siccome le sevizie nei confronti dei Prodan continuavano, la suocera disse al Collotti di avere pietà, al che egli rispose: “Vi distruggerò tutti, maledetta razza s’ciava!” > (“Corriere di Trieste”, 3/2/47, resoconto del processo Gueli).

< Il teste (...) specifica che il più accanito era il Miano che soleva dire alle sue vittime: “Ricordatevi di Miano che non lo dimenticherete mai più” tanto che le vittime ritenevano si trattasse di uno pseudonimo, sembrando impossibile che l’aguzzino desse il suo vero nome > (“Corriere di Trieste”, 3/2/47, resoconto del processo Gueli, testimonianza del dottor Bruno Pincherle).

< Il dottor Toncic racconta (...) che il Mazzuccato violentò diverse donne, fra cui alcune minorenni, per quanto fosse notoriamente affetto da sifilide > (“Corriere di Trieste”, 4/2/47, resoconto del processo Gueli).
Un giorno che si era recato presso l’Ispettorato Speciale, Diego de Henriquez sentì le urla, sempre più forti di una donna; gli dissero che la stavano interrogando e lo invitarono ad uscire. De Henriquez fece in tempo a vedere un pesante scudiscio ed a udire una frase: “Se non parli ti spacco la testa”. Lo studioso annotò che tali metodi erano ben noti in città. (Pag. 2438 del Diario n. 15).

< L’apparecchio di tortura elettrico è stato portato nella sede dell’Ispettorato da Collotti al quale venne regalato dalle SS secondo quanto sentivo dire dagli agenti. L’apparecchio elettrico stava nella stanza di Collotti ma qualche volta ho sentito dire che passava nell’ufficio di Perris (...) >. (Testimonianza di Giuseppe Giacomini nel carteggio processuale Gueli).

L’ispettore Umberto De Giorgi della Polizia Scientifica firmò in data 18/1/46 una < perizia sui metodi di tortura dell’Ispettorato Speciale >. Tale perizia, richiesta dal Procuratore Generale Colonna per conto della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste (copia in archivio IRSMLT 913) descrive, tra le altre cose, i metodi di tortura della “cassetta” e della “sedia elettrica”. Leggiamone le descrizioni: < stando alle deposizioni testimoniali, allorquando la vittima non confessava (nonostante il dolore provocato dalla distensione forzata di tutto il corpo mediante trazione delle corde fissate agli arti e fatte scorrere negli anelli infissi al pavimento, che spesso provocavano la lussazione delle spalle), era costretta a subire l’introduzione nell’esofago del tubo dell’acqua, che le veniva fatta ingoiare fino a riempimento totale dello stomaco; indi per azione di compressione esercitata da un segugio sul torace, le veniva fatta rigurgitare a mo’ di fontana, che, stante la posizione supina, spesso doveva minacciare di soffocamento la vittima stessa; ed allorquando entrambe le azioni combinate non bastavano a farli confessare, gli interrogati vi venivano costretti, mediante l’azione termica di un fornello elettrico collocato sotto la pianta dei piedi denudati (...) la sedia elettrica consisteva in una sedia-poltrona, a spalliera alta, con leggera imbottitura in cuoio, a bracciuoli, su cui venivano legati gli avambracci della vittima ad uno dei quali veniva fissato un bracciale metallico unito al polo negativo di un apparecchio conduttore elettrico regolabile, a reostato. Al polo positivo era collegato una specie di pennello con manico isolato, e frangia metallica che serviva per chiudere il circuito su qualsiasi parte non isolata del corpo della vittima il quale veniva così attraversato dagli impulsi della frequenza della corrente elettrica. Questo metodo, apparentemente molto impressionante, non poteva produrre lesioni organiche o conseguenze dannose sul corpo umano. Tuttavia è noto che anche volgarissimi pregiudicati rotti a tutte le astuzie e raffinatezze per sfuggire agli interrogatori, si abbandonarono ad esaurientissime confessioni, che trovarono conferma nei fatti, alla sola visione dell’apparato, senza essere stati sottoposti alla sua azione >.
Probabilmente lo stesso estensore del rapporto si sarebbe “abbandonato ad esaurientissime confessioni” se messo nella prospettiva di dover subire la tortura della “sedia elettrica”. D’altra parte è per noi una novità che un corpo umano sottoposto a continue e potenti scariche elettriche non subisca alcuna conseguenza da questo trattamento: basterebbe chiedere a qualcuno che è stato torturato in questo modo.

ARRESTI ED INTERROGATORI.

Umberta Giacomini, quando fu arrestata il 9/3/44, era incinta di quattro mesi. Il 15 marzo venne “interrogata” da Collotti, che la picchiò selvaggiamente assieme agli agenti Brugnerotto, Sica e Mignacca. A causa di questo abortì ed ebbe una forte emorragia, perciò fu trasportata all’ospedale. Successivamente Mignacca e Ribaudo vennero per riportarla all’Ispettorato, ma date le sue condizioni fisiche (non riusciva neanche a tenersi in piedi), come testimoniò lei stessa < soprassedettero dal tradurmi dal Collotti ed il Ribaudo mi disse pensate che abbiamo avuto pietà di voi perché eravate madre... > (Carteggio processuale Gueli). 
< In seguito venni inviata alle carceri dei Gesuiti, poi al Coroneo ed infine ad Auschwitz e mio marito in quello di Dachau, dove rimanemmo 18 mesi (...) Ritornammo dai campi di concentramento ammalati. Mio marito non si ristabilì più e tuttora è invalido > (“Il Lavoratore”, 29/11/54).

Marija Fontanot, nata nel 1928, fu arrestata da agenti dell’Ispettorato nella sua abitazione di via Cellini 2, perché < figlia di Bernobic Giuseppe, partigiano >. Assieme a loro fu arrestata anche la sublocatrice del loro appartamento, Giuseppina Krismann. Furono portati in via Bellosguardo, dove rimasero per 8 giorni. Marija Fontanot fu ripetutamente violentata in presenza del padre. Le due donne furono poi condotte in carcere ed in seguito deportate ad Auschwitz, da dove furono liberate con l’arrivo dell’Armata Rossa. Quanto a Giuseppe Bernobic, una certa Danila, che era detenuta in via Bellosguardo, disse a Marjia che il padre era stato ucciso in Risiera (archivio IRSMLT 917bis). 

< I coniugi Giovanni ed Anna Vrabec abitano nel popolare rione di Gretta e sono proprietari di un negozio di generi alimentari; hanno un figlio, Giovanni, di 18 anni, studente all’Istituto Tecnico Leonardo da Vinci. Sono arrestati tutti e tre e portati dal Collotti, che intende far parlare il ragazzo. Ma questi non parla; non vuole o forse non sa; forse nessuno dei tre sa nulla. Cominciano ad accopparlo di legnate, sino a strappargli quasi un occhio dall’orbita. Ed il ragazzo non parla ancora; allora lo spogliano e, davanti ai genitori lo seviziano orribilmente in ogni parte del corpo. Il resto sarà compito delle SS tedesche; la madre muore a Ravensbrück, il figlio a Mauthausen; solo il padre riuscirà a ritornare da Dachau, una larva d’uomo che si spegnerà nel 1947. Così è scomparsa la famiglia Vrabec > (da Carlo Ventura, IL tempo dell’angoscia”, archivio IRSMLT .

LA CATTURA DI JAKA PLATIŠA.

Giacomo (Jaka) Platiša, nome di battaglia Franc Medved, già militante del TIGR, fu uno dei più attivi organizzatori del movimento partigiano jugoslavo. Rudi Ursini-Uršič lo indica come commissario politico della Brigata Samatorska nel 1941 (in “Attraverso Trieste”, edizioni Studio I 1996). Platiša arrivò a Trieste nel febbraio del ‘43 e fu evidentemente tradito quasi subito.
Questa la testimonianza di Floriano Del Fabbro (6/11/45), agli atti del processo Gueli.
< Ospitavo a casa mia il partigiano Giacomo Platiša. Il 27/4/43 mi accorsi di essere pedinato da un agente. Nel portone prima di casa vidi 4/5 agenti con pistole in pugno; mi hanno seguito e sono entrati con violenza in casa mia. Il partigiano era seduto tranquillamente in cucina e pranzava con i miei familiari. Gli agenti sono entrati in cucina come energumeni puntando le pistole contro Giacomo. Gli hanno intimato di alzar le mani; tuttavia hanno sparato colpendolo al viso e alla testa. Giacomo ha posto le mani in tasca sebbene ferito; invece estratta la rivoltella si è tirato due o tre colpi al cuore. Fra le persone dell’Ispettorato c’erano il Collotti, il dott. Miano, l’ispettore capo dell’Ispettorato di cui non ricordo il nome (...) È stato egli che ha preso il tavolo dove erano le scodelle della minestra, lo ha sollevato rovesciandolo e gridando “ammazzare tutti!”, senza alcuna pietà di mia moglie, di mio cognato e dei bambini che piangevano. Poi io e mia moglie fummo ammanettati e portati in via Bellosguardo (...) >.
Di seguito il rapporto di polizia del 13/6/43.
< Da tempo noi scriventi eravamo venuti a conoscenza che a seguito dell’uccisione in conflitto del commissario politico “Nino Udovici” (Giuseppe Udovič, nome di battaglia “Nino”, nato a Trieste nel rione di San Giovanni il 18/3/10, partigiano EPLJ, segretario cittadino del Fronte di Liberazione di Trieste, fu ucciso il 14/1/43 in uno scontro a fuoco con i carabinieri n.d.a.) avvenuta in questa via Ginnastica ad opera di Agenti di PS della locale Questura – dal Comando Superiore dei partigiani era stato trasferito a Trieste il commissario politico comunista a nome “Franz”, pericoloso emissario noto per capacità e non comune coraggio, trattandosi già di militante del I Battaglione “Simon Gregoric” (Gregorčič, n.d.a.) dei ribelli. Pertanto abbiamo ritenuto opportuno affidare alla Guardia Scelta di PS Cleri Gino ed alle Guardie di PS Ferro Vincenzo e Saieva Alberto l’incarico di vigilare alcune persone sospette che, secondo notizie confidenziali (a questo proposito riportiamo quanto scritto nella pubblicazione “Trieste nella lotta per la democrazia”, redatto a cura dell’Unione Antifascista Italo Slovena nel settembre 1945: < il compagno Medved, caduto vittima del tradimento del negoziante Ivan Gorkič, il quale, per ottenere la promessa libertà, tradì il suo nascondiglio di via Tigor >, n.d.a.), sarebbero state a contatto del predetto “Franz”. Tale notizia è stata confermata dal confidente, il quale – in data 27/4/43, alle ore 13 circa, incontratosi nei pressi di via Tigor 17, con (...) Ferro Vincenzo (...) gli comunicava che il “Franz” trovavasi – dalla sera precedente – presso l’abitazione di tale Del Fabbro Floriano (...) >.
Segue il telegramma inviato dal dirigente dell’Ispettorato, Gueli al Capo della Polizia di Roma: < Ore 13 oggi (27/4/43, n.d.a.) questa via Tigor n. 17 abitazione Del Fabbro Floriano (...) autista disoccupato Vice commissario dott. Miano Domenico et Vice Commissario Aggiunto dott. Collotti Gaetano questo Ispettorato con tre agenti sicurezza seguito notizia confidenziale sorprendevano sconosciuto soprannominato Franz indicato quale Commissario politico Primo Battaglione ribelli Simon Gregorčič. Atto irruzione stanza nella quale trovavasi soprannominato Franz ha spianato rivoltella Beretta calibro 7,65 carica otto cartucce di cui era armato contro funzionari che prevenendolo lo investivano con dodici colpi loro pistole riducendolo fine vita. Trasportato ospedale civile detto Franz vi decedeva ore 14 et 30. Veniva trovato possesso carta identità falsa (...) intestata Brumat Luigi (...) nonché somma L. 3.411 et foglietti propaganda sovversiva (...) Sono stati arrestati quali favoreggiatori suddetto Del Fabbro Floriano et moglie Rovan Giuseppina (...) Segnalo particolare benevola attenzione E.V. Vice commissari dott. Miano et Collotti per continue prove intelligenza, coraggio, capacità et alto spirito attaccamento dovere nonché agenti Cleri Gino, Ferro Vincenzo et Saieva Alberto che intelligentemente et coraggiosamente li hanno in diverse importanti operazioni servizio coadiuvati >.
Successivamente Gueli comunicò ai suoi superiori quanto segue: < A seguito di precedente corrispondenza, comunico che il commissario politico comunista “Franz” ucciso in conflitto a Trieste il 27/4/43, è stato identificato nella persona del pericoloso antitaliano (sic) e slavofilo Platiša Giacomo (...) nato a Poce di Circhina (Poče, n.d.a.) il 14/10/1910 (...) Il Platiša espatriò clandestinamente in Jugoslavia nel 1935, stabilendosi a Stozice di Lubiana (Stožice, n.d.a.) dove si fece notare pei suoi sentimenti a sfondo socialista e contrari alle Istituzioni italiane e del Regime. Durante la sua permanenza in Italia si addimostrò elemento caparbio, violento, capace di qualsiasi azione e di ostacolare la penetrazione nazionale nella zona di Circhina. Il Platiša era iscritto nel Bollettino delle Ricerche (schedina n. 3981-Anno 1935) per l’arresto >.
Dopo l’arresto, Del Fabbro fu violentemente picchiato da Miano e da Collotti; il 26 maggio fu condotto nei sotterranei e lì sottoposto, tra le altre, anche alla tortura della “cassetta”. Fu poi condotto al Coroneo, ma il 3 luglio riportato in via Bellosguardo per essere nuovamente torturato e rimase detenuto al Coroneo < fino al 10 settembre epoca in cui fui liberato dai partigiani triestini >.
La moglie, Giuseppina Rovan, che fu anch’essa picchiata e torturata, denunciò fra i torturatori il brigadiere Fera (forse Ferro? n.d.a.) e l’agente Mercadanti. Venne condotta ai Gesuiti < in condizioni disastrose di salute (...) sono stata visitata dal medico militare delle carceri (...) al quale ho narrato le torture subite perché perdevo sangue in gran copia dai genitali (...) era dipeso dal fatto che quando sono stata percossa nell’ufficio di Collotti, questi, mentre ero a terra abbattuta e nuda, è montato col peso della persona sul mio ventre (...) il medico ha detto che non poteva fare niente contro gli agenti di via Bellosguardo (...) ai primi di giugno durante la mia detenzione ai Gesuiti una donna proveniente da via Bellosguardo, in seguito a sevizie è stata trasportata all’Ospedale con la CRI, dove, secondo quanto si è narrato in carcere fra noi, è deceduta. Durante tale epoca è morto anche un uomo ai Gesuiti, sempre in seguito alle torture subite in via Bellosguardo (...) > (testimonianza in Carteggio processuale Gueli).


gennaio 2009


---


Giornata della Memoria 2009: l'ordine pubblico nella Venezia Giulia tra il 1942 ed il 1943

AGLI ORDINI DEL “DUCE” PER < INFRENARE L’AZIONE TERRORISTICA DELLE BANDE SLAVE E DIFENDERE L’ITALIANITÀ DI QUESTE TERRE >.

L’Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia, diretto dall’Ispettore Generale Giuseppe Gueli nacque come forza di repressione antiguerriglia. Lo stesso Gueli scrisse, all’epoca del processo che lo vide imputato (latitante), un memoriale, datato 5/8/46 ed indirizzato al Procuratore Generale della Corte d’Assise di Trieste:
< Nell’aprile del 1942 fui nominato ispettore generale di PS per la Venezia Giulia, incarico che importava il compito di infrenare l’azione terroristica delle bande slave e di difendere l’italianità della Regione > (copia di questo atto si trova nel “carteggio processuale Gueli”, archivio IRSMLT n. 914). 
Per raggiungere questi scopi Gueli fece in modo che i prefetti emanassero una serie di ordinanze che imponevano ferree regole di comportamento agli abitanti delle zone nelle quali l’Ispettorato svolgeva la propria “attività antiribelle”. L’allora prefetto di Trieste, Tullio Tamburini, rispose sempre positivamente e sollecitamente alle varie richieste avanzate da Gueli, come vediamo dagli esempi che seguono.
Il 28/7/42 Gueli scrisse ai prefetti di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, evidenziando le “difficoltà” che trovava nella sua opera di repressione e suggerendo la possibile soluzione a certi problemi. 
< Solo di pochi ribelli – e precisamente di quelli che da tempo si sono dati alla macchia, esercitando permanentemente il brigantaggio politico ai nostri danni – sono conosciuti in maniera certa i nomi. Di tutti gli altri non riesce possibile l’identificazione, né se ne conosce il numero, perché le poche e varie notizie che li riguardano vengono raccolte dalle Autorità di Polizia in un ambiente totalitariamente ostile, inquinato da irriducibili odi tra famiglie, sulla base di superficiali ed incerte conoscenze di presunta avversione al Regime Fascista e di individuale capacità a delinquere.
È noto anche che i ribelli sogliono prelevare, di volta in volta, dai vari centri abitati (...) quel contingente di uomini che loro occorre per la esecuzione di aggressioni, imboscate od atti di sabotaggio e che, subito dopo commessi i delitti preordinati, tali uomini vengono lasciati in libertà e possono tornare alle loro case ed alle loro consuete occupazioni, così che riescono quasi sempre a comparire sotto la veste di pacifici cittadini o di agricoltori, boscaioli o pastori alle Forze che, dopo ogni episodio, eseguono il rastrellamento (...) 
In tali condizioni (...) è assolutamente necessario – per una ordinata ed efficace azione di Polizia, che deve avere per base la conoscenza più precisa possibile del nemico da combattere – escogitare un mezzo che possa ovviare a siffatti gravi inconvenienti e ritengo possa conseguirsi lo scopo abbandonando il sistema dei rastrellamenti di zone più o meno vaste, dimostratosi assolutamente inefficace ed impiegando invece parte della forza disponibile in eventuali inseguimenti e parte ad eseguire immediati accertamenti diretti a stabilire quali persone del luogo, senza un giustificato e palese motivo, si siano per periodi di tempo più o meno lunghi, allontanate dalle loro case e dal loro lavoro.
Fra esse dovranno identificarsi i ribelli o quanto meno i loro complici e fiancheggiatori, sui quali potranno essere più proficuamente indirizzate le ricerche, mentre a carico delle loro famiglie potranno essere, se del caso, adottati gli opportuni provvedimenti di Polizia (...) >.
Per operare questi controlli, Gueli suggerisce ai prefetti di emettere un’ordinanza < che imponga a tutti i Capi Famiglia (...) di fornirsi del certificato sullo stato di famiglia rilasciato dai Comuni e di tenerlo sempre in casa per esibirlo ad ogni richiesta delle Autorità di polizia” e che faccia pure loro obbligo di denunciare alle Autorità di polizia “ogni allontanamento definitivo e temporaneo, per qualsiasi motivo, dalle case di abitazione o dai consueti luoghi di lavoro di individui di ambo i sessi dai 16 ai 55 anni >. 
In seguito i prefetti emanarono l’ordinanza così come richiesta da Gueli.
Un altro decreto prefettizio (4/3/43) prevedeva invece la < confisca di beni di favoreggiatori e di appartenenti alle bande dei ribelli >: 
< Ho disposto che vengano confiscati i beni mobili ed immobili di qualsiasi natura e specie e dovunque situati, appartenenti a persone o a familiari con esse conviventi convinte di svolgimento di attività partigiana o di favoreggiamento ai ribelli. (...) Per favoreggiamento deve intendersi ogni azione od omissione tendente a secondare lo svolgimento di attività partigiana. Gli organi di polizia stabiliranno, caso per caso, secondo una valutazione discrezionale, quali fatti siano passibili della sanzione preveduta nel decreto (...) La confisca (...) potrà essere ordinata da tutti gli Ufficiali di PS e dell’Arma dei CC.RR. (...) >.
La confisca dei beni aveva anche lo scopo di risolvere il problema del rifornimento dei viveri alle “bande armate di ribelli”, come vediamo in quest’altro documento, ai questori, prefetti e comandi nuclei mobili del 27/2/43.
< Uno dei problemi più assillanti per le bande armate di ribelli è quello dell’alimentazione. Uomini obbligati a vivere nei boschi e nelle vette di alte montagne hanno bisogno di nutrirsi in maniera continua e sostanziosa. Togliere i viveri o comunque ostacolarne l’afflusso, vale praticamente a fiaccare la resistenza e ad annullare l’efficienza delle bande.
Al conseguimento di tale fine sono diretti provvedimenti in parte già disposti ed in corso di attuazione (sequestro dei beni di proprietà dei familiari dei ribelli) e provvedimenti di prossima emanazione. Sarà intanto opportuno (...) dare disposizioni a tutte le dipendenti forze di Polizia perché, nell’esercizio delle loro normali funzioni, pongano particolare cura alla repressione di tale importantissima forma di favoreggiamento, cercando con tutti i mezzi di stroncarla.
Senza eccessi inutili e sempre dannosi per la scia di malcontento, che lasciano le azioni che per essere troppo grette appaiono vessatorie, sarà sempre bene accertare se con i carri agricoli, che girano in tutta la zona anche in località quasi inaccessibili, siano trasportati quantità di viveri assolutamente sproporzionate al numero di persone alle quali sono destinate e sarà sempre bene accertare se uguale sproporzione si rilevi per il trasporto di alimenti effettuato con biciclette od a spalla con gerle.
Nei casi sospetti procedere subito al fermo delle persone ed al sequestro dei generi alimentari, informando questo Ispettorato Speciale >.

Il controllo generalizzato del territorio, così come voluto da Gueli, richiedeva azioni specifiche. Il 17/2/43 Gueli inviò la seguente lettera ai Prefetti:
< Si è avuto occasione di rilevare un notevole affollamento su varie autocorriere in servizio di linea e si ha motivo di ritenere che tale affollamento dipende dalla facilità con la quale i vari Comuni rilasciano i permessi di transito (...) è evidente che l’affollamento delle vetture pregiudica non poco il servizio di controllo dei viaggiatori, molto importante ai fini di polizia nelle attuali contingenze, specie se si tiene contro che al traffico delle autocorriere è spesso connesso il servizio informativo dei ribelli. Perché sia disciplinato il movimento dei viaggiatori (...) prego l’E.V. di compiacersi impartire le opportune disposizioni affinché i dipendenti Comuni si attengano a criteri restrittivi nel rilascio dei permessi di viaggio (...) ed affinché ai posti di blocco il controllo non si limiti alla identificazione dei viaggiatori, ma venga esteso ai bagagli ed alla persona degli stessi viaggiatori con minuziose perquisizioni >.
Una volta “disciplinato” il traffico sulle autocorriere, Gueli rilevò un altro problema. 
< È stato accertato che informatori e corrieri di bande armate di ribelli fanno largo uso di biciclette per evitare lunghi viaggi a piedi, oppure per fare a meno di servirsi delle autocorriere in servizio pubblico, che sono soggette alla vigilanza degli organi di polizia. Nell’intento di stroncare tale attività, sulla quale le bande dei ribelli fanno assegnamento, specie per ottenere segnalazioni tempestive sui movimenti delle forze in servizio di rastrellamenti e di battute >, Gueli propose (27/2/43) fossero emessi < decreti che vietino l’uso di tali veicoli in determinate zone maggiormente travagliate >, il che significò, per la provincia di Trieste < gli stradali di collegamento fra tutti i comuni del Carso in cui vige il provvedimento del coprifuoco > e per la provincia di Gorizia < tutta la rete stradale della provincia, escluse le vie interne dei maggiori centri abitati e quelle che collegano questi ultimi e gli stabilimenti industriali >.
Mentre il Prefetto di Gorizia sollevò delle obiezioni all’adozione di un simile provvedimento, il Prefetto di Trieste Tamburini così decretò tempestivamente (24/2/43): < su tutta la rete stradale compresa nella zona della Provincia in cui vige il coprifuoco è vietato l’uso delle biciclette (...) gli appartenenti alle Forze armate apriranno senz’altro il fuoco contro le persone che circoleranno in bicicletta, qualora, invitati a fermarsi, non ottempereranno all’ordine >.
Gueli riscontrò anche un altro fattore di rischio che lo portò a scrivere (5/3/43) a questori, prefetti, comandi militari ed alla Direzione di PS a Roma.
< È segnalata la presenza di alcune carovane di zingari nella Venezia Giulia. Nell’attuale situazione della zona, non può essere consentita la presenza di tale categoria di vagabondi, fra i quali possono trovare asilo ribelli, corrieri comunisti, sabotatori. Prego volere esaminare l’opportunità di dare disposizioni perché sia proceduto al fermo di tutti i componenti di tali carovane e l’invio coattivo ai loro paesi d’origine >.
Ma non erano tempi duri solo per gli uomini, anche i cani se la videro brutta.
< È stato rilevato che servizi appostamento notturno o movimenti dislocazione forze dirette accerchiare centri abitati e case campestri vengono notevolmente sempre ostacolati e qualche volta frustrati da cani di guardia che percependo rumori anche a notevole distanza danno allarme abbaiando. Per evitare grave inconveniente dannoso importanti servizi polizia prego EE. VV. esaminare opportunità emettere ordinanza prescrivente sotto pena adeguate sanzioni e sequestro animali che in tutte località nelle quali vige provvedimento coprifuoco sia proibito ore notturne tener cani legati o sciolti fuori case abitazioni > (Telegramma del 3/3/43 di Gueli ai Prefetti di Trieste e Gorizia).
Di conseguenza il Prefetto Tamburini emise (25/3/43) la seguente ordinanza: 
< tutti i possessori di cani da guardia abitanti nei Comuni dove vige il coprifuoco provvedano durante le ore del coprifuoco a tenere i cani in luogo chiuso. I contravventori saranno puniti a norma di legge mentre i cani saranno requisiti e consegnati al canicida dei competenti Comuni >.

(tutti i documenti citati si trovano nell’Archivio di Stato di Trieste, fondo Prefettura).

Gennaio 2009