ATTENTI AL PUPO!

In “Trieste 1945” (Laterza, 2010 ) lo storico triestino Raoul Pupo ha dedicato un lungo capitolo agli avvenimenti di Basovizza, e prima di parlare della questione della cosiddetta “foiba”, ha trattato della fucilazione dei quattro antifascisti (Bidovec, Marusič, Miloš e Valenčič) avvenuta presso il vecchio poligono di tiro il 6 settembre 1930.
Sulla vicenda vi rimandiamo all’articolo “Martiri di Basovizza” pubblicato in questo stesso sito, così come non riprendiamo qui l’annoso discorso su chi, quanti e come sarebbero stati “infoibati” a Basovizza: ricordiamo solo che nel suo libro Pupo ha concluso il capitolo facendo un paragone (a nostro parere aberrante) tra i due “luoghi della memoria” di Basovizza: sui fucilati di Basovizza, scrive lo storico, aleggia il sospetto del terrorismo, sugli infoibati di Basovizza che vi siano i torturatori dell’Ispettorato Speciale di PS.
Data questa considerazione sui martiri di Basovizza, eravamo quantomeno curiosi di sentire come il professor Pupo avrebbe condotto il suo discorso in occasione delle cerimonia commemorativa per l’80° anniversario dell’episodio, svoltasi sulla gmajna di Basovizza il 12 settembre scorso, alla presenza di alte autorità slovene, nonché della Presidente della Provincia Trieste ed alcuni sindaci della provincia di Trieste (significativa l’assenza del sindaco di Trieste Roberto Di Piazza, nonostante il sito si trovi nel territorio di competenza del suo Comune).
Commenteremo solo in parte l’intervento “storico” del relatore ufficiale in lingua italiana. 
Relativamente alla questione del “terrorismo” il professor Pupo ha affermato che la lotta dei primi antifascisti non era stata di massa ma si era basata su “azioni cospirative e dimostrative”, usando come strumenti di intervento la “propaganda” ed il “terrorismo”, ed ha ribadito che non si deve “avere paura delle parole” perché scelte simili furono tipiche anche di movimenti di unificazione nazionale, aggiungendo che non si deve “caricare la terminologia di significati che non ha”, visto che il termine “terrorismo” può adattarsi sia alle “stragi sunnite nelle moschee sciite”, sia a “tentativi un po’ goffi” come quello di Guglielmo Oberdan (che gettare bombe in mezzo alla folla sia un “tentativo goffo” di fare terrorismo è un’interpretazione che ci lascia un po’ basiti, ma tant’è).
Lo storico ha aggiunto quindi che “il termine è corretto” ma “operativamente come categoria interpretativa non ci fa capire la specificità del fenomeno”.
Osserviamo che di norma il significato che si dà al termine “terrorismo” è quello di un comportamento tale da portare, mediante azioni violente indiscriminate, ad un terrore generalizzato nella popolazione. Così terrorismo è quello che abbiamo vissuto negli anni della strategia della tensione, quando le bombe poste nelle piazze o sui treni, o genericamente in luoghi pubblici, dove avrebbero potuto colpire chiunque si trovasse a passare in quel posto al momento dell’esplosione, incutevano terrore in quanto non si poteva immaginare chi avrebbe potuto essere la prossima vittima. Mentre altri atti (eticamente altrettanto esecrabili, sia chiaro) come l’attentato alla singola persona, individuata come un obiettivo mirato (“gambizzazioni”, rapimenti, omicidi operati dalle Brigate rosse), vengono di solito considerati come azioni di “lotta armata”, e non di “terrorismo”, in quanto non sono finalizzati a creare il “terrore” generalizzato.
Per questo motivo ci permettiamo di dissentire dalla definizione di “terroristi” che il professor Pupo usa a proposito degli attivisti del TIGR fucilati a Basovizza. Le azioni del Movimento erano innanzitutto dimostrative, ed il loro scopo non era quello di fare vittime, è appurato che le bombe venivano posizionate modo che esplodessero quando negli edifici non ci sarebbe stato nessuno. La morte di Guido Neri, che si trovava nei locali della redazione del “Popolo di Trieste” non fu voluta, perché la sua presenza non era prevista nell’ora in cui fu piazzato l’esplosivo. Anche qui, se dal punto di vista etico la questione non fa differenza, perché un morto è sempre un morto, bisogna però distinguere nelle finalità che gli attentatori si erano dati: e dato che il loro fine non era quello di spargere il terrore nella popolazione, ma di colpire i simboli della snazionalizzazione operata dal fascismo e del fascismo stesso, non ha senso, a parer nostro, definirli “terroristi”, visto che il termine ha un significato ben preciso e non ha senso cercarne altri per adattarlo alle proprie interpretazioni e valutazioni.
Un successivo punto del discorso del professor Pupo dal quale dissentiamo è la sua interpretazione di come si sarebbero svolti i fatti in quello che lui definisce “fronte orientale” (dal senso del discorso si suppone che l’oratore intendesse con questo termine il confine orientale dell’Italia), e cioè che negli anni ’40 si sarebbero “confrontati la propensione nazista allo sterminio e l’eredità della rivoluzione bolscevica e delle politiche staliniane”, e che “quanto concretamente successo nelle nostre terre” sarebbe che “alla fase eroica della liberazione” sarebbe “succeduta quella dell’affermazione”, e che “l’ansia di libertà” si sarebbe trasformata in “intolleranza verso chi non appartiene alla comunità nazionale vincente”.
Storicamente ciò che accadde “nelle nostre terre” negli anni ’40 (generalizzazione un po’ azzardata, visto che dal 1940 al 1945 l’Europa era in guerra e dal 1945 in poi gli avvenimenti erano diversi di anno in anno), è che la politica di guerra imperialista nazifascista, finalizzata al genocidio dei popoli considerati “inferiori” (Ebrei, genericamente “Slavi”, Rom…) nonché all’annientamento delle cosiddette “esistenze zavorra” (invalidi, omosessuali ed oppositori politici), fu fermata da un blocco di alleati che andavano dalla Francia e la Gran Bretagna, agli Stati Uniti, all’Unione Sovietica, passando per la Jugoslavia, ed altri minori. Nell’ambito di questa guerra (che non si limitò all’area europea ma coinvolse l’intero pianeta) vi furono massacri indiscriminati, bombardamenti devastanti (sia dall’una che dall’altra parte, citiamo i due esempi speculari di Coventry e Dresda), rappresaglie feroci sulle popolazioni civili, campi di sterminio, e si concluse con il lancio delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
In questo contesto mondiale, gli avvenimenti “nelle nostre terre”, diventano una piccolissima parte della tragedia generalizzata della Seconda guerra mondiale. Se il professor Pupo intendeva dire (ma forse avrebbe fatto meglio a dirlo chiaramente e non con circonlocuzioni di parole) che dopo gli eccidi nazifascisti qui vi fu il cosiddetto “fenomeno delle foibe”, vorremmo ricordargli che regolamenti di conti a fine guerra si ebbero sì in questa zona, ma in misura minore che nel resto dell’Italia del Nord, per non parlare di quello che accadde in Francia, e generalmente in tutta l’Europa, come è normale che accada dopo un’occupazione feroce come fu quella nazifascista (ciò non significa “giustificare”, ma semplicemente prendere atto della realtà dei fatti). 
E se quello che il professor Pupo intendeva dire è che le “foibe” rappresentano “l’eredità della rivoluzione bolscevica e delle politiche staliniane”, dobbiamo ribattere che nessun paragone può essere fatto in questi termini, storicamente e politicamente parlando. Innanzitutto perché la rivoluzione bolscevica e le politiche staliniane sono due eventi del tutto diversi e che non si possono accomunare con tale faciloneria (ma entrare nel merito di questo richiederebbe un’analisi di diverse pagine), e poi perché, anche volendo paragonare le “foibe” con i “gulag”, non ci siamo proprio. Nei “gulag” venivano imprigionati gli oppositori nell’interno dell’Unione sovietica; le “foibe”, anche volendo considerare con questo termine (cosa che però non accettiamo storicamente) la “generalizzazione” che è uso fare il professor Pupo, e cioè le “ violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime”, significano prigionieri di guerra internati e poi deceduti nei campi, criminali di guerra giustiziati dopo processo, regolamenti di conti e vendette personali. Cosa c’entri tutto questo con le “politiche staliniane”, non riusciamo proprio a comprendere.
Infine l’affermazione a proposito dell’“ansia di libertà che si trasforma in intolleranza verso chi non appartiene alla comunità nazionale vincente”: almeno per quanto concerne la politica della “nuova” Jugoslavia, cioè la Jugoslavia uscita vittoriosa dalla guerra di liberazione popolare, è doveroso riconoscere che non vi fu alcuna “intolleranza” di tipo etnico alla fine del conflitto. Vi furono, da parte istituzionale, esecuzioni di collaborazionisti e di criminali di guerra, soprattutto jugoslavi: ma nessuno fu ucciso perché “non appartenente alla comunità nazionale vincente”, cosa che dovrebbe essere quantomeno ovvia se si considera che nell’Esercito di liberazione jugoslavo combatterono, con spirito internazionalista ed antifascista, volontari di decine di etnie (tra cui moltissimi furono anche gli italiani), uniti dal desiderio di creare un mondo migliore.
Non riconoscere questi dati storici in un intervento all’interno di una cerimonia dall’importanza internazionale di quella che si svolge ogni anno a Basovizza per ricordare i quattro fucilati antifascisti, significa voler ridurre quello che dovrebbe essere uno spazio di riflessione storica ad un intervento di mere valutazioni politiche, del tutto fuori luogo in un contesto simile.

settembre 2010