Dove sarebbero andate esposte le opere di Ivan Mestrovic ...

... se non ci fosse stata la Jugoslavia? Era una domanda che qualcuno, a suo tempo, si poneva. Infatti ecco, oggi 19.10.2010 sono stato vedere la Mostra del Centenario al Vittoriano di Roma, intitolata "Roma verso il 2011". Tra i documenti esposti ho visto la rivista "Panorama" del 1911, aperta alla pagina dedicata all' arte slava nel padiglione serbo all' Esposizione internazionale d' arte a Roma, 1911. Eh si, giacche' non esisteva ancora la Jugoslavia, anche Mestrovic fu indicato come artista serbo.
Allego qui l' articolo apparso su "Il Messaggero" del 1911. Ieri in Jugoslavia, oggi in tutte le ex Repubbliche jugoslave si trovano opere d' arte di questo maestro originario dalla Dalmazia interna. Primeggiano senz' altro il mausoleo al Milite ignoto sul monte Avala vicino Belgrado, il Vincitore sul Kalemegdan di Belgrado e, sulla cima più alta del monte Lovcen in Montenegro, il mausoleo a Petar Petrovic-Njegos.

Ivan per CNJ-onlus

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http://mestrovic.kkz.hr/web_redizajn/ART-srppavilj.htm

Il padiglione della Serbia

"Il Messaggero", Roma 11 aprile 1911

Se è vero che in tutti gli atti e le idee vi sia un punto culminante che adombra ed identifica il miracolo, ecco, il miracolo di Valle Giulia è questo: il padiglione della Serbia. Certamente i visitatori di questa esposizione internazionale, dotti ed indotti, riporteranno nel padiglione serbo le impressioni più profonde e indimenticabili.
Qui storia e leggenda vivono insieme – prodigio inatteso ai nostri tempi – a formare l'epopea palpitante, quale dovette essere nell'antichissima Ellade, quando dal loro connubio nacque, e in organismo vivo e contemporaneo, il paganesimo puro. Di tutto ciò noi supponevamo e favoleggiavamo: oggi è sotto gli occhi nostri un caso moderno di questa vera realizzazione dell'ormai irrealizzabile.

Cosa son mai davanti a ciò le tragedie, i poemi mitologici od epici che noi sentiamo adesso con uno spossante ed imponente sforzo cerebrale?
Qui si vede, qui si tocca con mano come la nostra civiltà, già troppo lontana da ciò che fu a' tempi eroici, deve aver il coraggio di rinunziare definitivamente alla loro reincarnazione; che ci riesce muta o grottesca: manierata ed insensata sempre.
Dio mio, che sgomento a dover fissare in brevi e frettolose note ciò che meriterebbe un libro ed un libro che fosse poema! Ah, lasciatemelo dire sotto l'impressione immediata e col coraggio di chi non ha paura a riconoscer se stesso; noi tutti del bacino mediterraneo occidentale e di quello nord-atlantico, noi tutti civili e liberi siam gente troppo dotta, vissuta, raffinata: scienza, coscienza e civiltà hanno finito per deprimere, livellare, distruggere naturalezza, subcoscienza, sensibilità; siamo davanti a costoro, come una stirpe di signori che ha lineamenti aristocratici e finezze di esperienza, ma non ha più né muscoli, né volontà, siamo una gente che scende per l'altro dell'altro versante della montagna della storia e della vita, mentre costoro si arrampicano su per il versante opposto con una violenza inaudita.
Oltre a ciò la meravigliosa esposizione, così povera di dottrina e così ricca di forza, ispirazione e passione, ha due caratteri, uno frequente, sebbene non troppo, e l'altro che è unico. Ha il carattere nazionale evidentissimo che elimina ogni idea di conglomerati e di antecedenti: ed ha poi un vero e proprio – tanto più prezioso per quanto meno voluto – carattere politico: una orma costante di rivolta e speranza, di dolore e d'odio, che potrebbe far fremere (io faccio qui esame d'arte e posso parlar sincero) i vani tentativi di rinnovamento cerebrale, scolastico, accademico, privi di un contenuto nazionale, deboli di vita, di un'altra mostra assai vicina a quella della Serbia.
Il grande regno di Dusciano, re e zar dei Serbi e dei Greci, conquistatore dei Balcani. Il di cui impero nel secolo XIV scendeva fino al mare Adriatico, fu pari a quello di Alessandro il Macedone e di Napoleone il Grande, così nelle vittorie, come nella sua fine prematura.
Il regno dei Nemagna cade nella fatale battaglia di Kosovo (1389). Ecco l'invasione turca che poi si stende in Croazia ed Ungheria: e comincia il martirio del popolo serbo, durato quattro secoli. Furono i primi, i serbi, i più vicini, i più ferocemente trattati dalle barbarie arabe prima e poi mongoliche e tartare.
Pochi esempi vi sono di popoli eroici e liberi trattati con più crudele signoria. Il sangue che si versava ogni giorno sui pali, sotto le mannaie, nelle terre spopolate, deserte, ogni gloriosa traccia del passato distrutta a ferro e fuoco, le fanciulle violate, rapite, l'armata dell'oppressore composta ormai di uomini che da fanciulli erano stati rubati alle madri serbe per poi essere scristianizzati ed evirati, tutto questo inferno di secoli avrebbe distrutto qualunque nazione non fosse stata fortissima: ma non riuscì a distruggere l'invitta Serbia.
Dove il miracolo fu compiuto dalla poesia, frutto, a sua volta, delle mirabili energie della razza. I canti nazionali serbi, che quel popolo rassomiglia ai canti di Omero, conservarono lo spirito nazionale, prepararono la rivincita.
I cantori di gusle: vecchi, ciechi, povera gente inerme, condotta a mano da fanciulletti scalzi, per quattro secoli ricantarono nella più schietta lingua, nella forma più commovente le leggende della gloria e del dolore. Le gesta dei re magnanimi fino alla morte del grande Dusciano, la tragedia di Kosovo con la fine di Lazaro, ultimo zar, e la morte grandiosamente eroica della Niobe serba, la madre dei nove figli Jugovici, che non pianse nemmeno dinanzi ai cadaveri degli otto figli sgozzati, ma si spense di angoscia quando i corvi le gettarono in grembo la mano troncata del suo ultimo nato; tutto cantarono i guslari, aggiungendovi l'epopea di Marko Kraljevic, l'eroe nazionale, il Sigfried serbo, figlio di re, gigante di corpo, fanciullo d'animo, che accorrendo dovunque, come un arcangelo, sul suo grande cavallo nero, libera fanciulle, debella mostri, combatte infedeli, tracanna fiumi di vino, esuberante di vita e di gioia, e s'addormenta infine nell'antro fatato delle Villi dei monti, conficcando nella rupe la spada favolosa che lo risveglierà da morte soltanto nel dì della riscossa.
E la battaglia di Kosovo fu vendicata. Guai a quella nazione moderna, civile od incivile, che volesse nuovamente allungare la mano sacrilega su la indipendenza della Serbia! Son pochi: ma pronti a tutto. Le rivolte albanesi, in cui freme un medesimo dolore, possono darne un esempio.
La figura di Marko Kraljevic, famigliarizzata dalla passione patriottica del popolo serbo e al tempo stesso sovrannaturalizzata, è una delle più belle e vive incarnazioni svoltesi lungo il corso del Danubio e dei secoli, della figura del paladino errante dell'eterno eroe di Roncisvalle, simbolo della magnanimità e del valore. Ma io mi accorgo di essermi troppo trattenuto su ciò che è il contenuto nazionale, etnico e passionale della mostra serba: della quale avrei piuttosto dovuto parlare.
E non me ne dolgo. Un soffio di poesia e di fede è sempre la più alta espressione e celebrazione delle forti intenzioni e delle grandi opere. Parleremo in seguito con qualche particolare di ciò che vi è di più mirabile in codesto padiglione, dove il disegno è ancora – quasi sempre – primitivo, ma la colorazione è violenta e l'espressione è tragica e potentissima sempre.
Nel bel padiglione, che arieggia all' esterno e all'interno, un tempio neoegiziano, stanti i caratteri specifici dell'architettura locale, trionfa fra tutti Ivan Mestrovic: un giovine dall'aspetto dolce e pensieroso, quasi umile, vicino alla caratteristica voluttuosa bellezza slava della sua signora che, nelle linee del volto e negli occhi, ricorda un poco la regina Elena.
Ivan Mestrovic è il Giotto serbo: ed egli, come quasi tutti gli artisti suoi connazionali, ha avuto la eccezionale fortuna di poter immergere la sua nativa e vigorosa ingenuità artistica nel flusso della piena civiltà circostante; quindi il miracolo! Ivan Mestrovic quindici anni a dietro pasceva le greggi su le balze della Dalmazia: ed oggi è più e meglio che un Giotto, un Michelangelo quasi, ancor tarsognato ed informe, ma che dove tocca con la sua stecca o batte col suo scalpello crea una vita formidabile e sempre nuova. Egli giganteggia nella mostra, tutta pervasa dall'opera sua, con la quale sono stati costruiti i frammenti, le materie prime ed essenziali di quel gran Tempio del Kosovo che presto sorgerà, ricordo della stirpe e della risurrezione, monumento gigantesco e perenne come quello di Vittorio Emanuele a Roma.
La mano di questo improvviso aedo nazionale dello scalpello, di questo nuovo Omero della pietra, questo creatore di mondo sparito – al quale, tenendo conto della sua abbondanza e della sua potenza, le associazioni artistiche internazionali, il comitato, la cittadinanza devono e renderanno certamente onori eccezionali ed indimenticabili, perchè sarà egli uno dei trionfatori nelle mostre del 1911 – sollevò l'enorme statua ignuda di Marko Kraljevic sopra un membruto cavallo danubiano di quelli che le legioni di Traiano riportarono e che prevalsero nella scultura dell'Impero. E impone stupore e terrore questo grandioso simulacro dell'ira nazionale e delle forze indomite frementi e giubilanti che scossero e atterrarono il Moloch asiatico, tiranno della intera Jugoslavia.
All'appello del Mestrovic, dissotterrante atletiche divinità mai viste e plasmante innumeri genti, come coloro che effigiarono la potenza di Roma diffusa per tutto il mondo conosciuto, accorse una schiera di giovani forze, serbi e croati, figli di una madre comune e parlando una stessa lingua, che han voluto e saputo aiutarlo a creare l'arte nazionale, sempre con la stessa ingenuità e spesso con identico vigore, ed a fissare in perpetuo la storia della razza, l'epopea del passato.
Ma – e con molto dispiacere – devo qui fermarmi.
Un'altra volta parleremo singolarmente delle opere migliori, vale a dire di quasi tutte.
(.....)

G.D.