La lurida coscienza della guerra in Libia

1) Mani sporche sulla guerra in Libia (S. Cararo)
2) Roma. Pacifisti contestano davanti alla direzione del Partito Democratico
3) Primo Maggio di guerra (P. Tacchino)
4) La "fabbrica del falso" sulla guerra in Libia (V. Giacché)
5) Del Boca: le condoglianze a Gheddafi


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Mani sporche sulla guerra in Libia

di Sergio Cararo*

Nella guerra di Libia, stanno emergendo una dietro l'altra tutte le assai poco nobili motivazioni che hanno portato le maggiori potenze europee della Nato a scatenare una operazione militare vera e propria contro quello che fino a tre mesi era ritenuto “un membro decisivo del partenariato euro-mediterraneo”.

Ormai sono sempre meno coloro disposti ad accettare la motivazione ufficiale che ministri e bollettini della Nato ripetono come un mantra ossia “la protezione dei civili”. Gli ultimi bombardamenti della Nato poi hanno colpito gli edifici della televisione e dell'agenzia di stampa libica. Cosa hanno a che fare con la “protezione dei civili” a Bengasi o a Misurata? E' tempo di cominciare a chiamare le cose con il loro nome.


In questo caso sono i fatti – più che le opinioni – a inchiodare le "mani sporche"  dei governi della Nato che hanno riempito il Mediterraneo di navi militari e riempito di missili e bombe le città libiche, siano esse vicine o lontane dal fronte della guerra civile che oppone le milizie di Gheddafi a quelle del Cnt di Bengasi. 

 
  1. La missione militare di “protezione civile” è diventata una caccia all'uomo con bombardamenti che si configurano come tentativi di omicidio mirato contro Gheddafi e i suoi familiari. In pratica siamo di fronte ad un terrorismo di Stato, in qualche modo eccitato dalla vicenda dell'uccisione di Osama Bin Laden, che punta all'eliminazione fisica del “nemico di turno” come presupposto alla soluzione politica o negoziata del conflitto;

  2. La missione di “protezione dei civili” si dissolve qualora i civili assumono le fattezze dei profughi che dall'Africa o dal Maghreb fuggono verso le coste italiane su carrette e mezzi di fortuna. Le navi militari della Nato o li ignorano – e li lasciano morire nella tomba d'acqua del Mediterraneo – o si limitano a lanciare qualche bottiglietta d'acqua o qualche scatola di biscotti. Dopodichè le regole di ingaggio finiscono lì.

  3. L'eliminazione del regime di Gheddafi sta assumendo i contorni di un “grosso affare” in molti sensi. Da un lato il sequestro dei beni finanziari libici all'estero, ha portato nelle casse delle banche dove erano depositate un bottino di quasi 120 miliardi di dollari. Si tratta dei beni della Lia (Lybian Investment Authority), della Central Bank of Lybia e della National Oil Corporation, congelati dalle sanzioni. Per aggirare il divieto di utilizzarli a proprio piacimento, le banche e i governi della Nato hanno escogitato un trucchetto con enormi conseguenze politiche e diplomatiche: hanno dovuto creare un soggetto. E' questa la spiegazione della fretta con cui alcuni paesi hanno riconosciuto il Cnt di Bengasi. Occorre tener conto che già il 19 marzo (con il conflitto appena iniziato) a Bengasi erano già state costituite la Central Bank of Bengasi e Libyan Oil Company, due soggetti giuridici in grado di dare un quadro legale al sequestro dei beni libici dovuto alle sanzioni.

  4. Nei mesi scorsi, qualcuno deve aver pensato che il presidente francese Sarkozy fosse stato “mozzicato dalla tarantola”. Il suo oltranzismo e la sua fregola, hanno trascinato nei bombardamenti sulla Libia i governi di Usa, Gran Bretagna e poi l'Italia. Qual'era la ragione di questa escalation da parte dell'establishment francese? Alcuni hanno detto che erano ragioni elettorali e di calo di consensi. Come abbiamo visto alcune delle motivazioni erano altre e molto più concrete. Ma ce ne sono altre che attengono al ruolo colonialista della Francia in Africa e che solo in queste settimane sono state portate alla luce e all'attenzione di chi troppo facilmente dimentica il passato e il presente coloniale delle potenze europee (Italia inclusa) nelle relazioni con la sponda sud del Mediterraneo e il continente africano.

    Per la Francia, il fronte libico era del tutto speculare a quello in Costa d'Avorio, il quale nello stesso periodo in cui si è iniziato a bombardare la Libia, ha visto l'intervento militare francese per deporre con la forza l'ex presidente ivoriano Gbagbo. Motivo? Gbagbo, come Gheddafi, per quanto fossero discutibili sul piano democratico, avevano però cercato di sganciare i paesi africani – aderenti all'Unione Africana – da quello che era il Cfe, cioè l'unità di conto monetaria che vincola le economie e addirittura gli accordi commerciali con altri paesi da parte dei paesi africani francofoni .... alle decisioni della Francia. Il cambio di regime in Libia come in Costa d'Avorio sono stati perseguiti sistematicamente e pesantemente dal governo francese sin dall'inizio di tutta la vicenda.

  5. Qualcun'altro si domanderà: ma le rivolte del mondo arabo come si connettono a tutto questo? Una parte della risposta viene dalla filosofia dell'amministrazione Obama su quanto sta accadendo in Medio Oriente: “evolution but not revolution”. La modernizzazione possibile e i cambiamenti che stanno intervenendo in questa regione strategica, possono vedere al massimo una “evoluzione” nel senso della struttura politica con riforme che introducano meccanismi simili (ma non identici) a quelli dei paesi occidentali. Ma guai se dovessero mettere in discussione anche la struttura economico-sociale: rapporti di proprietà, nazionalizzazione delle risorse, distribuzione delle royalties sul petrolio etc. In quel caso altro che rivoluzione democratica, se non dovessero bastare i militari dei vari governi, regimi, monarchie arabe, le cannoniere della Nato sono già posizionate nel Mediterraneo e nel Mar Arabico. Chiaro il segnale?

Se queste osservazioni sono vere – e abbiamo la netta sensazione che lo siano – è evidente come a questo punto la Francia e le altre potenze della Nato perseguano l'omicidio di Gheddafi come un passaggio necessario per far quadrare l'operazione. Ne hanno creato i presupposti legali (la risoluzione dell'Onu, il riconoscimento di un nuovo soggetto di governo attraverso il Cnt di Bengasi) e ne stanno perseguendo la realizzazione con i “bombardamenti mirati”.

A fronte di tale presupposto e di tale evoluzione della guerra, chi accetta ancora di nascondersi dietro il dito della “protezione dei civili” è un complice di una operazione di stampo nitidamente coloniale che – esattamente un secolo dopo l'invasione italiana della Libia – si sta realizzando sotto i nostri occhi tra l'inerzia e la complicità delle “forze democratiche” e le grandi difficoltà che incontra il movimento contro la guerra in un contesto in cui “l'imperialismo cattivo” stavolta non è quello statunitense ma quello dal “volto umano” della nostra cara, vecchia e maledetta Europa.

Domenica prossima, a Roma, le reti del movimento No War che non hanno rinunciato a mobilitarsi contro questa guerra dal carattere sempre più palesemente coloniale, terranno una nuova assemblea nazionale per discutere come gettare sabbia e indignazione dentro questo ingranaggio. Ci si vede alle ore 10.00 in via Galilei 53. E' un appuntamento che pochi possono permettersi il lusso di perdere.

* editoriale di Contropiano, giornale comunista online, dell'11 maggio



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Roma. Pacifisti contestano davanti alla direzione del Partito Democratico


di  Redazione Contropiano

Oggi pomeriggio, un folto gruppo di attivisti della Rete romana contro la guerra, hanno inscenato una manifestazione di protesta davanti alla sede nazionale del Partito Democratico a Roma nella centralissima via Sant'Andrea delle Fratte.

Nei cartelli e negli slogan i motivi della contestazione. “Il PD ha votato a favore della guerra”; “Non esistono guerre umanitarie”, “l'art.11 va rispettato”.

Gli attivisti contestano al PD di aver votato in Parlamento a favore della guerra e dei bombardamenti sulla Libia invece di incalzare il governo sulle sua contraddizioni.

Critiche anche verso il Presidente della Repubblica Napolitano che – secondo gli attivisti della Rete contro la guerra – ha il dovere di difendere anche l'art.11 della Costituzione e non di fare la sponda a chi ha voluto portare l'Italia a fare la guerra in Libia. Già alla fine di marzo la rete contro la guerra aveva infatti manifestato sotto il Quirinale.

Gli attivisti fanno riferimento ai sondaggi secondo i quali la maggioranza dell'opinione è contraria all'intervento militare italiano in Libia ma anche in Afghanistan, eppure la maggioranza parlamentare continua a sostenere le missioni militari all'estero. Per questo hanno chiesto un incontro con la direzione del PD ritenendo che di fronte agli sviluppi della guerra nel Mediterraneo ognuno deve assumersi le proprie responsabilità anche di fronte ai propri elettori.

Nei volantini distribuiti ai passanti gli attivisti annunciano una assemblea nazionale del movimento contro la guerra per domenica prossima a Roma e la partecipazione alla manifestazione nazionale di sabato a sostegno della Freedom Flotilla che intende raggiungere Gaza rompendo il blocco navale israeliano.

L'iniziativa ha provocato parecchio sconquasso nel quadrante della città politica.  Polizia e carabinieri si sono precipitati in forze identificando gli attivisti, ma il sit in è proseguito tra battibecchi e discussioni. Mentre davanti alla sede del PD si procedeva all'identificazione, altri attivisti ne hanno approfittato per volantinare nelle strade circostanti. Il responsabile dell'Area Mediterranea del PD è uscito dalla sede dicendosi disponibile a discutere... ma solo dopo le elezioni...ballottaggi inclusi. Ovvero non prima di giugno! La guerra in Libia non è decisamente tra le priorità del Partito Democratico.


[...]

Qui di seguito il volantino distribuito durante la contestazione alla direzione nazionale del Partito Democratico

 

VERGOGNA! L'ITALIA BOMBARDA LA LIBIA CON VOTO BIPARTISAN

Perché oggi protestiamo davanti alla sede del Partito Democratico

Le bombe sono un crimine e bombardare significa uccidere i civili e non solo i soldati.

I bombardamenti mirati non esistono.

La cosa la cosa più paradossale e vergognosa, è che i sostenitori dei bombardamenti, dei bombardieri e dell’impegno militare italiano, giustificano la loro guerra “per proteggere i civili” mentre le loro navi li ignorano se stanno morendo in mezzo al Mar Mediterraneo, mentre con le loro bombe li uccidono nelle città libiche, mentre negano il cessate il fuoco e i corridoi umanitari, li costringono a fuggire come profughi e rimangono come inetti quando arrivano sulle nostre coste
La “protezione dei civili” è in realtà diventata un cavallo di Troia che consente alle potenze della NATO di entrare in Libia per conquistarla con un cambio di regime, è diventato il pretesto mediatico per giustificare la guerra e acquisire consenso.

La risoluzione dell’ONU che prevedeva la No Fly Zone “a protezione dei civili” è stata in realtà usata come via libera alla guerra ed oggi viene completamente violata dalle bombe delle NATO e dunque anche dai bombardamenti italiani

L’anomalia italiana vede un Presidente della Repubblica sostenere una guerra in violazione dell’art.11 della Costituzione.
L’anomalia italiana è anche un Partito Democratico – principale partito dell’opposizione – che dice si alla guerra, si alle bombe e dunque si alla politica del governo

Siamo indignate e indignati e facciamo appello alla coscienza civile e pacifica del movimento di lotta nel nostro paese per ridare forza e voce al ripudio della guerra
Per il cessate il fuoco in Libia
Per l’immediata cessazione dei bombardamenti
Per l’apertura di un vero negoziato che ponga fine alla guerra civile in Libia
Per il ritiro dell’Italia da questa guerra che sta diventando un crimine

Oggi protestiamo ad alta voce davanti alla direzione del Partito Democratico

Sabato 14 maggio saremo in piazza  nella manifestazione per la Palestina e  a sostegno della Freedom Flotilla diretta a  Gaza per rompere l’assedio dei palestinesi (ore 14.30 piazza della Repubblica)

Domenica 15 maggio alle 10.00 terremo una Assemblea Nazionale contro la guerra a Roma, (Sala di Via Galilei 53).

Rete romana contro la guerra

nowaroma@...



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PRIMO MAGGIO DI GUERRA


Chi non conoscesse quanto sta accadendo e si limitasse a comprenderlo dalle immagini fornite dai cortei di questo Primo Maggio e dal concerto romano, offerto dai sindacati Cgil, Cisl e Uil, penserebbe innanzi tutto che si celebrano con orgoglio i 150 anni dell’Unità d’Italia mentre nel nostro Paese esistono gravi problemi riguardanti la disoccupazione, il mondo del lavoro, la legalità, l’ecologia; ma senz’altro che l’Italia non sta facendo la guerra alla Libia.
Come dalle case sventolano i tricolori e non le bandiere della pace, così i palloncini, simbolo di questa giornata, sono decorati con la bandiera italiana.
Non ci sono striscioni contro la NATO e la scelta europea e italiana di aggredire lo Stato libico con azioni che ormai vanno platealmente anche oltre lo stesso mandato dell’ONU, come è avvenuto per il bombardamento in cui sono stati uccisi il figlio e i nipoti di Muhammar Gheddafi.
La crisi politica ed economica italiana non possono giustificare un miope pensare esclusivamente al proprio orticello.
La scrittrice tedesca Christa Wolf, parlando dell’avvento del nazismo, ricorda come le nefandezze accadessero sotto gli occhi di tutti, ma si andasse avanti fingendo che tutto fosse normale. Sparivano gli handicappati: erano morti d’influenza in ospedale.
Da noi la Costituzione diventa sempre più evanescente: ora la maggiore forza parlamentare di opposizione dichiara di credere che essa sia esclusivamente improntata a difendere il diritto al lavoro e la divisione dei poteri, senza alcun riferimento al ripudio della guerra (così il Segretario del PD in una intervista televisiva durante le celebrazioni del 25 aprile).
D’altro canto, perché dobbiamo mettere in crisi le nostre coscienze civili.
L’Italia non sta facendo la guerra: lo dice un esperto di diritto quale è il nostro Presidente della Repubblica; lo conferma, dal maggiore partito di opposizione, un ex magistrato, con una preparazione giuridica ineccepibile, il quale sostiene che “per senso di responsabilità internazionale si devono avallare i bombardamenti”; i giuristi non prendono posizioni forti ed esplicite; anche i cortei del primo maggio ci infondono lo stesso messaggio. Come non crederci?
La mancanza di consapevolezza delle nostre mire e dei nostri crimini coloniali, passati e presenti, confonde innanzi tutto le nostre menti, ci abitua a respirare nei minuscoli e sempre più angusti spazi che il mercato ci concede: via via si dimenticano la sovranità degli altri Stati, la dignità degli stranieri che arrivano, dei nostri concittadini e anche di noi stessi.
2 Maggio 2011
Piera Tacchino

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Martedì 10 Maggio 2011 12:47

La "fabbrica del falso" sulla guerra in Libia


di  Vladimiro Giacché


Il collasso dell'informazione occidentale sulla guerra i Libia sotto l'egemonia della "fabbrica del falso". Un saggio di Vladimiro Giacché.

 
 

La fabbrica del falso e la guerra in Libia

 
 

“Attraverso la ripetizione, ciò che inizialmente appariva solo come accidentale e possibile, diventa qualcosa di reale e consolidato”

G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie del Geschichte, in Sämtliche Werke, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1971, Bd. 11, p. 403.

 

L’attacco della Nato contro la Libia iniziato il 19 marzo 2011 rappresenta un caso emblematico a più riguardi. In primo luogo, conferma in modo eclatante una verità più generale: nel mondo contemporaneo la propaganda, la guerra delle parole e delle immagini è ormai parte della guerra stessa. In secondo luogo, evidenzia la confusione che regna in una sinistra che – anche quando si pretende “radicale” e conseguente – in Italia come in tutti i paesi occidentali, ha dimostrato una sorprendente arrendevolezza e subalternità rispetto alla propaganda e all’informazione ufficiale. Si tratta di un fenomeno tanto più significativo in quanto anche in questo caso – come già era accaduto per l’Iraq – gli stessi Paesi aderenti alla Nato si sono presentati all’appuntamento divisi: l’astensione della Germania già in sede Onu si è trasformata in decisa presa di distanza dalle operazioni, e la stessa Turchia ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla conduzione della guerra. Ma mentre ai tempi della guerra di Bush le divisioni nel campo imperialista avevano grandemente giovato al movimento per la pace, in questo caso nulla di questo è avvenuto. Lo stesso gruppo parlamentare della GUE al Parlamento Europeo si è spaccato, e nel nostro Paese si è assistito al grottesco spettacolo di un PD assai più guerrafondaio degli stessi partiti di governo, mentre SEL ha tenuto un atteggiamento inizialmente ondivago (con una parte della base favorevole all’intervento) e soltanto la Federazione della Sinistra ha avuto da subito posizioni intransigenti sull’argomento.

In questo articolo esaminerò i principali dispositivi che la fabbrica del falso ha posto in essere nel caso della guerra di Libia, e proverò ad individuare i motivi di fondo che hanno indotto molti, anche a sinistra, a cedere alla propaganda di guerra. Nel mio argomentare metterò in gioco lo schema interpretativo che ho esposto più diffusamente nel mio libro La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea(DeriveApprodi, 20112). In questo testo proponevo un insieme di strategie di attacco alla verità non assimilabili alla menzogna pura e semplice. Vediamo come queste strategie sono entrate in gioco nel caso libico.

      1. La verità mutilata

La verità viene mutilata quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si colloca, delle circostanze, di ciò che gli sta attorno. O, semplicemente, la si racconta a metà.

Nella famosa sequenza dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Bagdad, divenuta una delle icone della guerra in Iraq, le inquadrature mandate in onda sulle tv internazionali e pubblicate sui giornali erano così ravvicinate da non mostrare che la piazza era praticamente deserta e che la “folla festante” si riduceva a poche decine di iracheni.1 In questo caso la verità viene mutilata dal taglio delle foto, che impedisce di vedere lo spazio in cui ha luogo l’evento, e ne induce una falsa rappresentazione.

Nel caso libico esiste un episodio del tutto parallelo. Si tratta della famosa foto che il 22 febbraio i media di tutto il mondo hanno rilanciato con grande evidenza sotto il nome di “fosse comuni in Libia”. Quello che la foto riprende è in realtà un normale cimitero in cui si stanno preparando alcune tombe singole, ma gli scatti che hanno fatto il giro del mondo non consentono di capirlo. Ma c’è di più: come ha rivelato il giornalista Rai Amedeo Ricucci, lestesse foto erano già state messe in rete mesi fa. Lo stesso Ricucci a questo proposito ha raccontato un episodio interessante. Il caporedattore di un’importante agenzia di stampa italiana, accortosi della bufala, fatto presente al suo direttore che si trattava di foto vecchie. La risposta del direttore è stata: “[questa notizia] gli altri la danno, non possiamo bucare”.2

Questo meccanismo è tutt’altro che nuovo. Il 26 e 30 maggio 2004, il New York Times fece autocritica sull’atteggiamento tenuto nei confronti della guerra in Iraq, ammettendo – in un editoriale firmato dalla direzione del quotidiano e poi in un articolo del garante dei lettori – che alcuni articoli “non erano stati rigorosi a sufficienza”, e si erano giovati di fonti “discutibili”. Di più: il quotidiano ammise che la copertura offerta era stata un fallimento “non individuale ma istituzionale”: un “fallimento” fatto anche di titoli strillati in prima con notizie false. In quel contesto ilNew York Times fece riferimento anche all’“ansia di scoop”, quale movente che avrebbe indotto a pubblicare notizie senza verificarne in misura adeguata l’attendibilità. Anche Franck de Veck (ex direttore del settimanale tedesco Die Zeit) ha attribuito una parte della colpa delle notizie false pubblicate nel caso iracheno alla necessità per i giornali di decidere rapidamente cosa mettere in pagina: “meglio un’opinione, anche non suffragata da prove, che nessuna”.3

Lo stesso è avvenuto nei primi giorni dei disordini in Libia. Se tutti i giornali aprono sui 10.000 morti in Libia, notizia lanciata dalla televisione saudita Al-Arabiya il 24 febbraio e assolutamente inverificabile, io – giornalista della redazione x – che faccio? “Prendo un buco” o la metto anch’io? Da un punto di vista di etica dell’informazione, la scelta dovrebbe essere ovvia: non la metto. In pratica succede quasi sempre il contrario: perché il fatto che tutti mettano una notizia non verificata mi copre se risulterà non vera. E in effetti, la notizia in questione si è rivelata falsa, come false erano le generalità dei presunti funzionari della Corte Penale Internazionale che ne sarebbero stati la fonte. Ma ha contribuito a creare il clima psicologico per predisporre l’opinione pubblica occidentale alla decisione di effettuare un intervento militare in Libia. Lo stesso vale per l’episodio raccontato da Ricucci, con l’aggravante – in quel caso – che la verifica era stata fatta e aveva dato esito negativo.

 
      1. La verità messa in scena

Il mosaico delle verità dimezzate (le presunte atrocità commesse dai soldati di Gheddafi, mentre ovviamente i soldati lealisti ammazzati o umiliati dai rivoltosi della Cirenaica non vengono mostrati, o – quando lo sono – vengono etichettati come “mercenari”) e delle pure e semplici falsità finisce per comporre una più generale verità messa in scena. Una rivolta tribale è trasformata in rivoluzione democratica, gli scontri armati tra ribelli e truppe regolari sono trasformati in “genocidio” ad opera di queste ultime (memorabili alcuni titoli in prima del Fatto Quotidiano), e un personaggio come Gheddafi si trasforma, da un giorno all’altro, da affidabile partner d’affari a una via di mezzo tra Adolf Hitler e Idi Amin Dada; ovviamente, in parallelo alla demonizzazione del dittatore, c’è l’idealizzazione degli insorti, che attinge vette di notevole lirismo. Lo prova tra gli altri un titolo di Repubblica del 23 marzo: “Al fronte in sella a una Kawasaki i sorridenti guerrieri della rivoluzione”; con tanto di sottotitolo rock“Un inno ispirato a Jim Morrison per l’esercito della nuova Libia”. Il messaggio sottinteso di questa ridicola propaganda di guerra: loro sono come noi, Gheddafi e i suoi sono dei barbari o – come pure è stato detto – “beduini”.

La principale verità messa in scena riguarda però le motivazioni dell’intervento militare occidentale, ossia il presunto diritto all’“ingerenza umanitaria”. Un memorabile testo di Danilo Zolo riferito all’aggressione alla Jugoslavia, come noto giustificata nello stesso modo, reca come titolo le prime parole di una frase di Proudhon: “Chi dice umanità cerca di ingannarti”.4 Sono parole di profonda verità. E non da oggi. Chiunque conosca la storia del colonialismo non avrà difficoltà a rinvenire i precedenti di questa giustificazione. A metà Ottocento, a sentire re Leopoldo del Belgio, la sua Associazione Internazionale per il Congo – uno dei principali strumenti del colonialismo belga – intendeva “rendere dei servigi duraturi e disinteressati alla causa del progresso”. Il raffinato storico dell’arte Ruskin nel 1870 vedeva nell’Inghilterra “un’isola che impugna lo scettro, fonte di luce e centro di pace per il mondo intero”; un’Inghilterra il cui dovere, per adempiere a tale missione, era quello di “fondare nuove colonie il più lontano e il più rapidamente possibile, insediandovi i più energici e valorosi tra i suoi uomini”, per poi “radunare in sé la divina conoscenza di nazioni lontane, passate dalla barbarie all’umanità e redente dalla disperazione alla pace”.5 Oggi la stessa litania la sentiamo nella forma del cosiddetto “imperialismo dei diritti umani” (Ignatieff), o – addirittura – dell’“imperialismo benevolo” (Kaldor). È una litania che negli ultimi anni è stata intonata più volte: a proposito del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Iraq, e ora della Libia.6 Ora, è logico che chi si rende colpevole di una guerra di aggressione preferisca ammantare le proprie azioni con motivazioni altruistiche. Un po’ meno logico è che si dia credito a queste giustificazioni autoapologetiche.

Ma c’è qualcos’altro da dire a questo riguardo: l’“ingerenza umanitaria”, dagli anni Novanta in poi, venuto meno il contrappeso di potere rappresentato dall’Unione Sovietica, è stata il grimaldello con cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno scardinato i principi di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli stabiliti nella Carta dell’Onu del 1948 (art. 1, par. 2 e art. 2, par. 7).7 Purtroppo, quello che oggi sembra difettare a sinistra è la capacità di capire il funzionamento di questo grimaldello e le sue conseguenze devastanti non soltanto per la pace nel mondo, ma per la stessa autodeterminazione delle nazioni.

 
      1. La verità rimossa

Speculare alla verità messa in scena è la verità rimossa. La verità messa in scena ha infatti tra le sue principali finalità proprio quella di nascondere verità scomode. Che in questo caso sono più d’una.

La prima riguarda ovviamente i veri motivi dell’intervento in Libia. Che sono essenzialmente due, tra loro legati: l’opportunità di controllare – dividendolo – un Paese come la Libia e di mettere direttamente le mani su importanti giacimenti petroliferi. “Direttamente” significa: senza le onerose (per le compagnie petrolifere occidentali)royalties che Gheddafi aveva imposto per il petrolio estratto dal territorio libico. Questo risultato sarebbe raggiunto qualora si avverasse la previsione formulata il 28 marzo dal quotidiano arabo (ma stampato a Londra) al-Quds al-Arabi: il risultato dell’intervento militare occidentale potrebbe essere la divisione della Libia in “due stati, un Est ricco di petrolio in mano dei ribelli e un Ovest povero, diretto da Gheddafi… Una volta garantita la sicurezza dei pozzi petroliferi, potremmo trovarci di fronte ad un nuovo emirato petrolifero in Libia, a bassa densità di popolazione, protetto dall’Occidente e molto simile agli Emirati del Golfo Persico”.

Che l’obiettivo sia questo, e non la “protezione dei civili”, ce lo dice meglio di mille parole quello che sta succedendo sul campo. La Risoluzione 1973 dell’Onu, che prevedeva lo stabilimento di una “no-fly zone” per “proteggere la popolazione civile”, è stata da subito violata da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Che hanno immediatamente compinciato a colpire obiettivi a terra, anche quando si trattava di scontri tra l’esercito libico e i ribelli armati, e anche quando gli obiettivi colpiti erano lontani dal luogo delle operazioni. I più obiettivi, tra gli osservatori, ne hanno dato atto. Qualcuno pacatamente e senza troppo scandalizzarsi. Il generale Fabio Mini, ad esempio, ha scritto il 30 marzo perRepubblica un articolo a suo modo esemplare, che recava questo titolo: “Attacchi a terra e forze speciali. La vera guerra degli alleati per liberare la Libia da Gheddafi”. Ancora più chiaro il sottotitolo: “Non solo no-fly zone: così combatte l’Occidente”. Anche Sergio Romano si è limitato a descrivere quanto accaduto e a prevedere quanto presumibilmente accadrà: “abbiamo constatato che la no-fly zone è divenuta di fatto una guerra combattuta dal cielo (almeno per ora) contro lo stato di Gheddafi per garantire agli insorti una vittoria che sarebbe altrimenti improbabile… Dominati dal timore di fallire, gli alleati si vedranno costretti ad alzare progressivamente la soglia del loro intervento sino a trasformare la protezione dei civili in una vera e propria alleanza con i ribelli”.8

Altri, per deformazione professionale più attenti alle forme giuridiche, qualche preoccupazione l’hanno invece manifestata. È il c

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