Regressione capitalistica

1) Donne e lavoro nelle giovani "democrazie" dell’Est e del Sud 
(Cristina Carpinelli, NoiDonne, giugno 2011)
2) Catastrofe demografica nella Romania capitalista
(Jose Luis Forneo, giugno 2011)


=== 1 ===



Europa orientale e meridionale

La regressione esportabile
 
Uno sguardo d’insieme su donne e lavoro nelle giovani democrazie dell’Est e del Sud evidenzia un preoccupante e generalizzato arretramento dei diritti
 
Cristina Carpinelli
 
Giugno 2011
 
Con la crisi economica mondiale, le giovani democrazie dell’Europa dell’Est e del Sud stanno arrancando in una seria recessione. Il crollo si è abbattuto su finanza, assicurazioni ed edilizia, settori tipicamente maschili, ma anche su servizi e commercio, dove gran parte delle maestranze sono donne. Molti lavoratori sono espulsi dal mondo del lavoro. Di questi, le donne sono in numero superiore: tenendo conto delle differenze nei livelli occupazionali tra i sessi, si può affermare che le donne sono le vittime predestinate della recessione. L’impatto della crisi ha colpito in modo particolare le donne già provate dagli anni della transizione durante cui i tassi d’ingresso e d’uscita dal lavoro (maschile e femminile) si ripartirono iniquamente a loro grande svantaggio.
 
Quando l’indice GEI (Gender Equity Index) segna regressioni a livello nazionale, per la maggior parte dei casi si tratta di passi indietro nella partecipazione delle donne all’economia. Questo, come afferma il Social Watch (Report 2010), è il caso dell’Europa orientale e meridionale, che presenta il peggioramento più consistente. L’indice GEI 2009, riferito allo Stato di Slovenia, che è il paese con il Pil più alto tra le c.d. economie in transizione, corrisponde al 65%. Un valore piuttosto basso, principalmente causato dalla scarsa presenza femminile negli organi legislativi (12,2%). La situazione è decisamente migliore nel settore degli affari dove le slovene occupano circa il 20% delle cariche direttive.
 
La Repubblica di Macedonia, che nel passato aveva goduto di elevati livelli di partecipazione femminile all’economia, si trova nel gruppo di quelli che hanno fatto marcia indietro (43,5% - dati Eurostat, 2010). Slovacchia, Croazia, Ungheria e Bulgaria presentano tassi di disoccupazione femminile sotto alla media europea (9,5%) e in costante peggioramento nel corso degli ultimi anni (dati Eurostat - 2010) . Il Forum delle donne indipendenti d’Albania ha di recente denunciato l’alto tasso di disoccupazione femminile delle albanesi (19%), connesso alla privatizzazione del mercato del lavoro e agli elevati tassi migratori.
 
La globalizzazione dei mercati ha prodotto la delocalizzazione degli impianti produttivi da parte di imprese e multinazionali. Si è esteso, in questo modo, il lavoro dipendente mal pagato e precario, specialmente fra le donne. Molte realtà imprenditoriali italiane hanno trasferito in Romania considerevoli investimenti finanziari e tecnologici. Queste realtà imprenditoriali si sono insediate, in particolare, nella provincia di Timişoara, che attualmente dà parecchio lavoro alla manodopera autoctona dal costo “contenuto”: nelle imprese calzaturiere, dove le occupate sono tutte donne rumene, i lavoratori percepiscono un decimo del salario italiano.
 
Un dato in controtendenza arriva dalla regione del Baltico. Nelle tre piccole repubbliche, la crisi economica si è pesantemente abbattuta tra il 2007-2010. I settori dell’economia che sono stati colpiti sono il primario (agricoltura e allevamento) e il secondario (costruzioni navali e industria meccanica, chimica ed elettronica) dove è occupato il 50% della forza lavoro del paese, quasi tutta maschile. Il settore terziario, in cui è al contrario concentrata gran parte della manodopera femminile, non ha subìto i contraccolpi della crisi. Questa situazione si è riflessa sui tassi di disoccupazione: l’Estonia è al primo posto per il tasso maschile di disoccupazione più elevato di quello femminile (rispettivamente 19,7% e 11,2%). Seguono Lituania (18,6% e 10,6%) e Lettonia (26,6% e 19,2%) - dati Eurostat 2010. Questo orientamento, spiccatamente marcato nel Baltico, si è riscontrato anche in tutta l’Ue-27. Ciò è dovuto al fatto che i settori dell’industria e della costruzione, a prevalenza di manodopera maschile, sono stati duramente segnati dalla crisi. Negli ultimi mesi del 2010, però, i tassi di disoccupazione femminile e maschile sono cresciuti allo stesso ritmo e questo riflette l’allargamento della crisi ad altri comparti, in cui la composizione degli occupati per sesso è più equilibrata di quella dei settori ridotti per primi.
 
La condizione delle donne serbe non è dissimile a quella che si riscontra in molti altri paesi: stipendi più bassi rispetto a quelli degli uomini, scarsa presenza femminile nei ruoli dirigenziali, difficoltà a conciliare famiglia e carriera, ecc. Le donne serbe, però, appaiono meno consapevoli dei loro diritti. Un sondaggio del Centro belgradese per i diritti umani e dello “Strategic marketing” (2009) ha rivelato che più della metà delle donne interrogate non sapeva che al colloquio di lavoro il datore non ha diritto di chiedere informazioni sulla situazione familiare della candidata. Secondo i dati 2010 dell’Eurobarometro, le disuguaglianze delle retribuzioni tra donne e uomini sono nella Repubblica Ceca tra le più alte dell’Ue. La Cechia si colloca al penultimo posto tra i 27 paesi europei. In media le retribuzioni delle donne sono inferiori del 26% rispetto a quelle degli uomini (la media europea è del 18%.).
 
Secondo una ricerca condotta nel 2010 dal sito fizetesek.hu, le donne ungheresi guadagnano in media un quarto in meno rispetto agli uomini. La differenza tra gli stipendi cresce sino al 31% tra coloro che possiedono un titolo universitario. Il gap fra le retribuzioni delle donne e degli uomini a livello dirigenziale figura essere pari al 29%, mentre è del 23% per gli operai specializzati e solo del 7% per i lavoratori non specializzati. Di recente il governo ungherese ha deciso di ripristinare il congedo di maternità di tre anni con effetto retroattivo. Inoltre, le madri che opteranno per il ritorno al lavoro con orario part-time otterranno i rimborsi per la maternità solo se lavoreranno per un massimo di 4 ore al giorno. Il precedente sistema di maternità dava alle madri la possibilità di mantenere il loro posto di lavoro durante i loro 3 anni di assenza per prendersi cura dei neonati, con pagamenti di maternità in misura decrescente ogni anno. La Bulgaria è, invece, il paese dove si registra l’offerta più scarsa di servizi all’infanzia, con un tasso d’occupazione femminile che diminuisce sensibilmente con l’aumentare del numero dei figli: donne con un figlio (77,6%); donne con tre o più figli ( 44,3%) - Eurostat 2009. Infine, in Croazia, il divario maggiore fra retribuzioni maschili e femminili emerge innanzitutto nelle imprese straniere occidentali, presso cui i lavoratori guadagnano di media il 29,8% in più delle lavoratrici, demolendo il senso comune secondo cui queste imprese sarebbero esportatrici di modelli del lavoro avanzati.


=== 2 ===

www.resistenze.org - popoli resistenti - romania - 27-06-11 - n. 370

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Dati della catastrofe demografica nella Romania capitalista
 
di Jose Luis Forneo
 
22/06/2011
 
  
La natalità scende, il tasso di mortalità è tra i più alti d'Europa, la speranza di vita è bassa e l’emigrazione continua a battere ogni record: questi sono i dati che forniscono gli specialisti dell'Istituto Nazionale di Statistica (INS), lanciando un allarme sulla drastica diminuzione della popolazione rumena nel 2011, confrontandola col censimento del 2002.
 
Ma che cosa speravano? Quando un popolo è spogliato dei propri diritti basilari, la sua ricchezza è saccheggiata ed è obbligato a vivere di prodotti importati e con salari ridicoli, il declino della popolazione è una conseguenza logica (e la sua causa criminale). I dati statistici ufficiali mostrano che la popolazione ha continuato il suo declino in modo costante dal 1990, dopo il colpo di stato che ripristinò la disuguaglianza capitalista. Nel 1990 la popolazione rumena aveva raggiunto il suo massimo storico di 23,2 milioni di persone. Al 2009 questo numero è sceso di 2 milioni e, ad oggi, si pensa di essere arrivati a 3 milioni. Nell’ottobre 2011 avverrà il prossimo censimento della popolazione e le previsioni non sono rosee. Vergil Voineagu, professore dell'Università di Sociologia di Bucarest, stima che "se si arriverà a 18 milioni di abitanti sarà già tanto, ma le previsioni sono peggiori".
 
Questo significa che dalla "Rivoluzione" fino ad oggi, i cittadini sono calati di 5 milioni! In quanto alla natalità, è scesa anno dopo anno dal 1990. Allora si registravano 314.746 nascite all'anno, mentre nel 2000 erano già 234.600 e nel 2009, 222.388. Questa tendenza in discesa si è mantenuta e nell'anno 2010 si sono registrate 10.000 nascite in meno che nei periodi precedenti. Con un tasso di natalità del 9,9 per mille abitanti, il livello della Romania sta sotto la media dell'Unione europea, dove il tasso più alto è dell'Irlanda (16,7‰) e della Francia (12,8‰) ed il più basso è quello dell’Austria (9,1‰).
 
In quanto a mortalità infantile, quella rumena è la più alta di tutta l'Unione europea, dopo quella della Bulgaria, con 10 decessi per ogni 1000 nascite, dato costante dalla "Rivoluzione". Al contrario, nel 2010 si sono registrati 260.000 decessi (12,1 per 1.000 abitanti), di alcune migliaia superiori agli anni precedenti e 10.000 di più che nel 1990. Anche per quel che riguarda questo parametro, il tasso di mortalità, la Romania occupa i peggiori posti della classifica europea, superata solo dalla Bulgaria (14,2 morti per ogni 1.000 abitanti), Lettonia ed Ungheria (13‰). La speranza di vita media in Romania è attualmente di 73,5 anni, cifra anche questa tra le più basse dell'UE.
 
In sintesi, i dati statistici mostrano che, dal 1992 la crescita demografica ha assunto un indice negativo e che questa tendenza si è mantenuta così fino ad oggi. Se nel 1992 si avevano 3.462 decessi in più rispetto alle nascite, nel 2009 la tendenza negativa è aumentata fino a 34.825. D’altro canto, secondo l'INS, tra il 1992 e il 2002 (i due ultimi censimenti), almeno 700.000 persone hanno abbandonato il paese per poter sopravvivere (in realtà questa cifra è sottostimata, infatti se già solo si contano gli emigrati in Spagna, la cifra reale dei "deportati economici" potrebbe superare i 3 milioni). La cifra dei lavoratori, forzati ad emigrare a causa della distruzione della ricchezza del popolo rumeno durante gli ultimi 20 anni, continua a crescere, aumentando di più di 10.000 all'anno. Più del 60% degli emigranti sono donne, dato che favorisce anche la caduta della natalità interna, perché in molti casi i loro figli non saranno mai registrati come rumeni, bensì come appartenenti al paese che li ospita. Queste cifre, non sono altro che la dimostrazione palese del genocidio prodotto dal capitalismo sui paesi ex-socialisti: mortalità crescente per la mancanza di lavoro, aumento della povertà, crescita dei prezzi e calo della qualità nell’assistenza sanitaria; natalità in calo, specialmente per la grande emigrazione, alta mortalità infantile (la più alta di tutta l'UE) e più di tre milioni di emigranti forzati, per via della distruzione di quattro milioni di posti di lavoro dal 1990, anno in cui si contavano più di otto milioni di lavoratori, mentre oggi si arriva appena a quattro.