Le tradizioni nazifasciste della stampa italiana
1937: Guernica, menzogne italiane
2012: I fascisti e il Corsera
(fonte: Il Manifesto - www.ilmanifesto.it )
=== 1937 ===
Fonte: il manifesto | Autore: Angelo D'Orsi
27 aprile 2012
Guernica, menzogne italiane
Allineata e coperta per volontà del Duce, la stampa italiana costruì menzogne per nascondere la verità sulla distruzione della città basca. Con l’avallo di autorevoli penne ancora oggi celebrate
Il 29 aprile 1937 il Corriere della Sera dà notizia della distruzione di Guernica, l’antica storica capitale di Euskadi, avvenuta tre giorni prima, il 26 aprile, un lunedì pomeriggio. Il primo articolo del Corriere ha un titolo emblematico, che coglie perfettamente nel segno, ma rovesciando le cose: Come si falsa la Storia. La distruzione di Guernica e le menzogne della democrazia internazionale. Di qui si può capire perché quell’evento possa esser considerato l’esempio e quasi il modello del ribaltamento della verità, a cui tante volte abbiamo poi assistito nel corso del XX e dei primi decenni del XXI specie in relazione ad eventi militari. Non è solo il Corriere a prestarsi all’operazione di costruire menzogne per nascondere le menzogne. È tutta la stampa italiana, allineata e coperta alla volontà del duce, in quell’anno terribile che fu il 1937, quando il fascismo, reduce da una guerra – l’Etiopia, con la «conquista dell’Impero» tornato «sui colli fatali di Roma» – si è immediatamente impegnato in un’altra guerra, quella contro los rojos spagnoli, guerra di cui Mussolini come Hitler capiscono subito l’importanza ideologica, prima che strategica. Con il sostegno decisivo della Chiesa cattolica spagnola, sia, un po’ più defilate, delle gerarchie vaticane, i sedicenti volontari italiani (che raggiunsero la cifra di 120.000) inviati dal regime fascista e la potente rinata, aeronautica militare del Terzo Reich, trasformano una sedizione militare, già sul punto di fallire, in un’aggressione internazionale a uno Stato europeo, usando il terrore di massa. E la menzogna per giustificarlo o occultarlo.
Ma esisteva una stampa indipendente internazionale, e grandi reporter (a cominciare da George Steer, l’australiano, mitico corrispondente del Times e del New York Times) che si recarono sui luoghi e inviarono vere corrispondenze di guerra, in grado di inchiodare nazisti, fascisti e franchisti alle loro colpe.
Il caso di Guernica è emblematico. Le menzogne del comando di Franco – balbettante fra diverse versioni, ma tutte coincidenti nell’attribuire la responsabilità ai rossi – si rivelano presto insostenibili davanti alle circostanziate denunce dei giornali britannici francesi e americani. Quelli italiani persistettero nel loro repertorio di sciocchezze e menzogne, tanto più desolante, se si pensa che ne furono protagoniste grandi firme, che, nel dopoguerra si riciclarono tranquillamente nella stampa “democratica” e ancora oggi sono considerate stelle del giornalismo italiano, come Luigi Barzini che, sul Popolo d’Italia (il quotidiano di Mussolini), scrisse articoli vergognosi quanto superficiali.
La campagna su Guernica assunse un tono prevalentemente antibritannico, anticipazione della assordante propaganda contro «il popolo dei cinque pasti», che già avviata dopo le sanzioni all’Italia per l’aggressione all’Etiopia nel 1935, diverrà ossessiva durante la guerra mondiale. Non potendo negare la distruzione della città santa dei Baschi, si insiste sulla menzogna: sono stati i repubblicani in fuga, e si disegna la trama classica del complotto internazionale, su cui a partire dall’attacco all’Etiopia, e alle successive sanzioni contro l’Italia, la pubblicistica fascista si è scatenata, in un crescendo che toccherà i suoi picchi massimi nella Seconda guerra mondiale. Scrive il Popolo d’Italia che i francesi del Fronte Popolare, «prendendo a pretesto la distruzione di Guernica per attribuirla all’aviazione nazionale, piuttosto che alle torce incendiarie dei repubblicani fuggiaschi», hanno collaborato a «intorbidire l’atmosfera internazionale»: accanto a loro, «i demagoghi ispirati dalla bibbia anglicana con i seguaci di Carlo Marx e i fratelli massoni». Nell’idea della cospirazione internazionale, invece degli ebrei sono i protestanti, gli anglicani, che complottano con i marxisti, e, naturalmente, con i massoni.
L’altro elemento che entra nel modello Guernica, ci riporta sotto gli occhi un altro luogo comune delle guerre coloniali, dalla Libia del 1911 all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia 2011. Gli invasori sono i «liberatori». Tale Riccardo Andreotti firma sulla Gazzetta del Popolo un articolo che fissa un vero canone interpretativo: «Guernica è apparsa alle truppe liberatrici quasi completamente rasa al suolo dalla furia devastatrice dei rossi che, prima di abbandonarla, l’hanno data alle fiamme».
Un altro inviato speciale, Renzo Segàla (altro “grande nome” del giornalismo nazionale), sul Corriere della Sera presenta un quadro che sembra riprodurre i suoi stessi servizi da Addis Abeba occupata dalle truppe italiane all’incirca un anno prima: gli invasori sono salutati dalle popolazioni locali come liberatori, vengono ben accolti nelle città (e in special modo a Guernica, si precisa con straordinaria spudoratezza): in confronto a quanto fatto dai rossi a Guernica, Pompei può ancora sembrare una città abitabile.
Su La Stampa attraverso uno dei suoi inviati di punta, Sandro Sandri (destinato morte prematura, in quello stesso anno ’37, dopo aver avuto il tempo di pubblicare un libro encomiastico verso il generale Graziani, il massacratore degli africani), fa capire, fin dal titolo, che non la verità dei fatti, ma la fedeltà politica stanno a cuore al giornale: Guernica ridotta in cenere dai dinamitardi comunisti. Il racconto vuol essere una dolente epopea capace di commuovere e insieme indignare. Mentre lungo la strada una folla commossa ed entusiasta di contadini accorsi dai villaggi vicini faceva ala al passaggio delle truppe, benedicendo ed acclamando, uno spettacolo terribile si presentò ai nostri occhi, non appena fummo nell’abitato (… ) un silenzio desolante regnava nelle vie di Guernica, su cui la barbarie rossa ha compiuto un crimine che supera di gran lunga l’incendio di Eibar. Quella di Guernica bombardata dai nacionales o loro alleati non è che una «stupida panzana». Ancora Il Popolo d’Italia ritorna sull’argomento, con parole che vorrebbero chiudere la bocca ai malevoli che parlano di bombardamento. A leggerle oggi v’è di che rimanere quasi sedotti da tanta disinvoltura: Ho compiuto oggi un doloroso pellegrinaggio fra le rovine ancora fumanti di Guernica (…) e ho potuto constatare che le case erano distrutte da incendi e che gli incendi dimostravano origine identiche. Ciò mi ha portato a credere che erano stati appiccati dall’interno. Non ho visto il minimo segno di bombe lanciate dall’alto, né ho osservato segni di esplosioni di bombe di aerei nelle vicinanze dei fabbricati.
Siamo alla ipostatizzazione della menzogna, alla costruzione di un paradigma: se esso rimarrà vigente in Spagna, per i successivi quattro decenni, in Italia comincerà a essere incrinato solo dopo il fascismo, pur rimanendo in qualche modo in circolazione il germe del dubbio, capace se non di rovesciare la verità, quanto meno di farla apparire traballante. Insomma, il modello di una storia assurdamente “paritetica”: «Furono i tedeschi, ma agirono di testa propria, e non si esclude che gli stessi repubblicani abbiano collaborato in qualche modo…».
Su questa strada si arriverà alle posizioni di revisionismo storiografico anche assai greve, negli ultimi decenni. Revisionismo che investirà anche, e soprattutto, il quadro di Picasso, la più efficace e drammatica testimonianza e insieme denuncia del massacro della ciudad sagrada del popolo basco. Ancora oggi capita di leggere su siti, giornali e libri che quel quadro era in realtà stato già dipinto e che il furbo pittore lo riciclò, per venderlo alla Repubblica.
Anche per combattere tante menzogne, e mezze verità, in occasione del 75° del bombardeo si è tenuto a Guernica (Gernika nella grafia basca), un importante simposio internazionale organizzato dal Museo della Pace, e dall’annesso ricchissimo Centro di Documentazione (www.museodelapaz.org/es/docu-historia.php): è stato fatto il punto sulle conoscenze, interrogandosi sulle ragioni, gli attori, i risultati. Guernica ne è stata confermata come un esperimento che anticipa la guerra totale, con il suo terrore e le sue menzogne. È emerso, in questo primo convegno dedicato al martirio della città basca, un quadro esauriente delle ripercussioni del bombardamento, con una specie di catalogo delle menzogne, nel quale quelle italiane hanno risaltato. Al punto che un convegnista britannico ha chiesto come questo potesse spiegarsi, e ha avanzato un’ipotesi, a cui non ho saputo replicare: gli italiani popolo di guitti e mentitori, da Barzini a Berlusconi?
Guernica, menzogne italiane
Allineata e coperta per volontà del Duce, la stampa italiana costruì menzogne per nascondere la verità sulla distruzione della città basca. Con l’avallo di autorevoli penne ancora oggi celebrate
Il 29 aprile 1937 il Corriere della Sera dà notizia della distruzione di Guernica, l’antica storica capitale di Euskadi, avvenuta tre giorni prima, il 26 aprile, un lunedì pomeriggio. Il primo articolo del Corriere ha un titolo emblematico, che coglie perfettamente nel segno, ma rovesciando le cose: Come si falsa la Storia. La distruzione di Guernica e le menzogne della democrazia internazionale. Di qui si può capire perché quell’evento possa esser considerato l’esempio e quasi il modello del ribaltamento della verità, a cui tante volte abbiamo poi assistito nel corso del XX e dei primi decenni del XXI specie in relazione ad eventi militari. Non è solo il Corriere a prestarsi all’operazione di costruire menzogne per nascondere le menzogne. È tutta la stampa italiana, allineata e coperta alla volontà del duce, in quell’anno terribile che fu il 1937, quando il fascismo, reduce da una guerra – l’Etiopia, con la «conquista dell’Impero» tornato «sui colli fatali di Roma» – si è immediatamente impegnato in un’altra guerra, quella contro los rojos spagnoli, guerra di cui Mussolini come Hitler capiscono subito l’importanza ideologica, prima che strategica. Con il sostegno decisivo della Chiesa cattolica spagnola, sia, un po’ più defilate, delle gerarchie vaticane, i sedicenti volontari italiani (che raggiunsero la cifra di 120.000) inviati dal regime fascista e la potente rinata, aeronautica militare del Terzo Reich, trasformano una sedizione militare, già sul punto di fallire, in un’aggressione internazionale a uno Stato europeo, usando il terrore di massa. E la menzogna per giustificarlo o occultarlo.
Ma esisteva una stampa indipendente internazionale, e grandi reporter (a cominciare da George Steer, l’australiano, mitico corrispondente del Times e del New York Times) che si recarono sui luoghi e inviarono vere corrispondenze di guerra, in grado di inchiodare nazisti, fascisti e franchisti alle loro colpe.
Il caso di Guernica è emblematico. Le menzogne del comando di Franco – balbettante fra diverse versioni, ma tutte coincidenti nell’attribuire la responsabilità ai rossi – si rivelano presto insostenibili davanti alle circostanziate denunce dei giornali britannici francesi e americani. Quelli italiani persistettero nel loro repertorio di sciocchezze e menzogne, tanto più desolante, se si pensa che ne furono protagoniste grandi firme, che, nel dopoguerra si riciclarono tranquillamente nella stampa “democratica” e ancora oggi sono considerate stelle del giornalismo italiano, come Luigi Barzini che, sul Popolo d’Italia (il quotidiano di Mussolini), scrisse articoli vergognosi quanto superficiali.
La campagna su Guernica assunse un tono prevalentemente antibritannico, anticipazione della assordante propaganda contro «il popolo dei cinque pasti», che già avviata dopo le sanzioni all’Italia per l’aggressione all’Etiopia nel 1935, diverrà ossessiva durante la guerra mondiale. Non potendo negare la distruzione della città santa dei Baschi, si insiste sulla menzogna: sono stati i repubblicani in fuga, e si disegna la trama classica del complotto internazionale, su cui a partire dall’attacco all’Etiopia, e alle successive sanzioni contro l’Italia, la pubblicistica fascista si è scatenata, in un crescendo che toccherà i suoi picchi massimi nella Seconda guerra mondiale. Scrive il Popolo d’Italia che i francesi del Fronte Popolare, «prendendo a pretesto la distruzione di Guernica per attribuirla all’aviazione nazionale, piuttosto che alle torce incendiarie dei repubblicani fuggiaschi», hanno collaborato a «intorbidire l’atmosfera internazionale»: accanto a loro, «i demagoghi ispirati dalla bibbia anglicana con i seguaci di Carlo Marx e i fratelli massoni». Nell’idea della cospirazione internazionale, invece degli ebrei sono i protestanti, gli anglicani, che complottano con i marxisti, e, naturalmente, con i massoni.
L’altro elemento che entra nel modello Guernica, ci riporta sotto gli occhi un altro luogo comune delle guerre coloniali, dalla Libia del 1911 all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia 2011. Gli invasori sono i «liberatori». Tale Riccardo Andreotti firma sulla Gazzetta del Popolo un articolo che fissa un vero canone interpretativo: «Guernica è apparsa alle truppe liberatrici quasi completamente rasa al suolo dalla furia devastatrice dei rossi che, prima di abbandonarla, l’hanno data alle fiamme».
Un altro inviato speciale, Renzo Segàla (altro “grande nome” del giornalismo nazionale), sul Corriere della Sera presenta un quadro che sembra riprodurre i suoi stessi servizi da Addis Abeba occupata dalle truppe italiane all’incirca un anno prima: gli invasori sono salutati dalle popolazioni locali come liberatori, vengono ben accolti nelle città (e in special modo a Guernica, si precisa con straordinaria spudoratezza): in confronto a quanto fatto dai rossi a Guernica, Pompei può ancora sembrare una città abitabile.
Su La Stampa attraverso uno dei suoi inviati di punta, Sandro Sandri (destinato morte prematura, in quello stesso anno ’37, dopo aver avuto il tempo di pubblicare un libro encomiastico verso il generale Graziani, il massacratore degli africani), fa capire, fin dal titolo, che non la verità dei fatti, ma la fedeltà politica stanno a cuore al giornale: Guernica ridotta in cenere dai dinamitardi comunisti. Il racconto vuol essere una dolente epopea capace di commuovere e insieme indignare. Mentre lungo la strada una folla commossa ed entusiasta di contadini accorsi dai villaggi vicini faceva ala al passaggio delle truppe, benedicendo ed acclamando, uno spettacolo terribile si presentò ai nostri occhi, non appena fummo nell’abitato (… ) un silenzio desolante regnava nelle vie di Guernica, su cui la barbarie rossa ha compiuto un crimine che supera di gran lunga l’incendio di Eibar. Quella di Guernica bombardata dai nacionales o loro alleati non è che una «stupida panzana». Ancora Il Popolo d’Italia ritorna sull’argomento, con parole che vorrebbero chiudere la bocca ai malevoli che parlano di bombardamento. A leggerle oggi v’è di che rimanere quasi sedotti da tanta disinvoltura: Ho compiuto oggi un doloroso pellegrinaggio fra le rovine ancora fumanti di Guernica (…) e ho potuto constatare che le case erano distrutte da incendi e che gli incendi dimostravano origine identiche. Ciò mi ha portato a credere che erano stati appiccati dall’interno. Non ho visto il minimo segno di bombe lanciate dall’alto, né ho osservato segni di esplosioni di bombe di aerei nelle vicinanze dei fabbricati.
Siamo alla ipostatizzazione della menzogna, alla costruzione di un paradigma: se esso rimarrà vigente in Spagna, per i successivi quattro decenni, in Italia comincerà a essere incrinato solo dopo il fascismo, pur rimanendo in qualche modo in circolazione il germe del dubbio, capace se non di rovesciare la verità, quanto meno di farla apparire traballante. Insomma, il modello di una storia assurdamente “paritetica”: «Furono i tedeschi, ma agirono di testa propria, e non si esclude che gli stessi repubblicani abbiano collaborato in qualche modo…».
Su questa strada si arriverà alle posizioni di revisionismo storiografico anche assai greve, negli ultimi decenni. Revisionismo che investirà anche, e soprattutto, il quadro di Picasso, la più efficace e drammatica testimonianza e insieme denuncia del massacro della ciudad sagrada del popolo basco. Ancora oggi capita di leggere su siti, giornali e libri che quel quadro era in realtà stato già dipinto e che il furbo pittore lo riciclò, per venderlo alla Repubblica.
Anche per combattere tante menzogne, e mezze verità, in occasione del 75° del bombardeo si è tenuto a Guernica (Gernika nella grafia basca), un importante simposio internazionale organizzato dal Museo della Pace, e dall’annesso ricchissimo Centro di Documentazione (www.museodelapaz.org/es/docu-historia.php): è stato fatto il punto sulle conoscenze, interrogandosi sulle ragioni, gli attori, i risultati. Guernica ne è stata confermata come un esperimento che anticipa la guerra totale, con il suo terrore e le sue menzogne. È emerso, in questo primo convegno dedicato al martirio della città basca, un quadro esauriente delle ripercussioni del bombardamento, con una specie di catalogo delle menzogne, nel quale quelle italiane hanno risaltato. Al punto che un convegnista britannico ha chiesto come questo potesse spiegarsi, e ha avanzato un’ipotesi, a cui non ho saputo replicare: gli italiani popolo di guitti e mentitori, da Barzini a Berlusconi?
=== 2012 ===
Fonte: il Manifesto | Autore: Alessandro Robecchi
4 maggio 2012
I fascisti e il Corsera
Un infortunio giornalistico può sempre capitare. Ma l'errore in cui è incorso Pierluigi Battista, illustre commentatore e vicedirettore del Corriere della Sera, è un caso di scuola, una specie di esempio luminoso di cosa accade quando si scrive per tesi precostituite. I fatti separati dalle opinioni, si diceva un tempo, e mai come in questo caso lo slogan è azzeccato: i fatti qui, visibili, controllabili, stampati su foto e filmati. E le opinioni, invece, già belle e confezionate. Dunque ecco.
Il primo maggio sul Corriere Battista firma un denso editoriale dal titolo: «Cgil, perché è vietato ricordare Ramelli?». Nel resoconto di Battista si fronteggiano due realtà: una è il presidio antifascista della Cgil che si propone di «ostacolare la celebrazione in cui si ricorda l'uccisione di Sergio Ramelli», giovane di destra assassinato nel '75. Una cosa proprio brutta, su cui Battista non risparmia toni apocalittici: «lugubre decennio», «teste e coscienze penosamente aggrappate al passato», «fragorosa e rituale protesta». Insomma, i cattivi del solito antifascismo.
Dall'altro lato, invece, gli amici e i camerati di Ramelli, che onorano il loro amico con «un elementare esercizio di pietà». Lo scenario che si presenta ai lettori del primo quotidiano italiano per mezzo di una delle sue penne più illustri è dunque questo: antichi e rancorosi facinorosi ostacolano la sacrosanta pietà. Abbastanza per suscitare qualche curiosità e per scoprire alcune cose che qui si elencano come semplici dati di fatto.
1. La sacrosanta pietà degli amici di Ramelli consisteva in una riunione in una sala della Provincia di Milano gentilmente concessa dal presidente Podestà (Pdl) e pietosamente intitolata "Milano burning". Presenti le sigle più minacciose della destra fascista e nazista cittadina, con personaggi già noti alla questura e alle autorità in un tripudio di simboli, slogan e paccottiglia fascista.
2. Il presidio antifascista davanti alla Camera del Lavoro, sita a pochi metri, è stato indetto dalla stessa Camera del Lavoro (ha aderito l'Associazione ex deportati) per un motivo molto semplice: in analoghe occasioni certi raduni "pietosi" erano sfociati in raid e provocazioni. Il presidio consisteva in una discreta presenza, canti, discorsi. Età media (purtroppo) alta. Chi voglia vedere le fotografie di queste «teste e coscienze aggrappate al passato» può andare a quest'indirizzo, bit.ly/JgkD0S, e vedrà di che razza di facinorosi si tratta.
3. «L'elementare esercizio di pietà» così ben descritto da Battista è sfociato in una manifestazione, questa sì assai lugubre. In fila per cinque con i labari e le croci celtiche, le svastiche tatuate, il grido «Camerata Ramelli, presente!», gli «A noi!», e tutto il repertorio. Il video, veramente agghiacciante, è qui: bit.ly/JNEFU9 . Ognuno può rendersi conto dell'affronto che queste immagini rappresentano per Milano, città medaglia d'oro della Resistenza, che è poi la città del Corriere della Sera, lo stesso che tante belle e preziose pagine confeziona ogni anno in occasione del giorno della Memoria.
In sostanza: un semplicissimo gioco di ribaltamento: la "cattiva" Cgil ancorata al passato e i pietosi giovani di destra che commemorano il loro caduto. Questo sanno i lettori del Corriere. Cioè l'esatto opposto di quel che è successo realmente. Sarebbe bastato leggere le cronache pubblicate dallo stesso Corriere il giorno prima. Sarebbe bastato cercare un po' in rete, magari dare un'occhiata al corteo nazifascista. Ma l'opinione preconfezionata ne avrebbe forse risentito, e allora perché farlo?
Viste quelle immagini, poi, si è cercato sul Corriere qualche cenno di errata corrige, qualche velata scusa, qualche ritrattazione, un pietoso (questo sì) «mi sono sbagliato». Invece niente. E dunque, vien da pensare, non un banale errore giornalistico, ma qualcosa di più. Irresistibile, per esempio, l'incipit del pezzo di Pierluigi Battista, che così recita: «Sinceramente non si capisce perché la Cgil, che pure avrebbe molti impegni da onorare in questo terribile periodo di crisi del lavoro debba prodigarsi per organizzare un presidio antifascista...». «Sinceramente», mi raccomando. Insomma: nazisti, vittime degli anni bui, sprangate, labari e croci celtiche non c'entrano niente, e quel che si voleva era mettere un po' al suo posto la Cgil. Tutto qui. Tutto semplice e lineare. La vergogna di cinquecento neonazisti che marciano inquadrati militarmente per Milano scimmiottando le coreografie berlinesi degli anni Trenta non conta. Ma che importa: leggendo soltanto l'accorato commento di Battista - lontano anni luce da fatti comodamente controllabili - i lettori del Corriere non lo sapranno.
Un infortunio giornalistico può sempre capitare. Ma l'errore in cui è incorso Pierluigi Battista, illustre commentatore e vicedirettore del Corriere della Sera, è un caso di scuola, una specie di esempio luminoso di cosa accade quando si scrive per tesi precostituite. I fatti separati dalle opinioni, si diceva un tempo, e mai come in questo caso lo slogan è azzeccato: i fatti qui, visibili, controllabili, stampati su foto e filmati. E le opinioni, invece, già belle e confezionate. Dunque ecco.
Il primo maggio sul Corriere Battista firma un denso editoriale dal titolo: «Cgil, perché è vietato ricordare Ramelli?». Nel resoconto di Battista si fronteggiano due realtà: una è il presidio antifascista della Cgil che si propone di «ostacolare la celebrazione in cui si ricorda l'uccisione di Sergio Ramelli», giovane di destra assassinato nel '75. Una cosa proprio brutta, su cui Battista non risparmia toni apocalittici: «lugubre decennio», «teste e coscienze penosamente aggrappate al passato», «fragorosa e rituale protesta». Insomma, i cattivi del solito antifascismo.
Dall'altro lato, invece, gli amici e i camerati di Ramelli, che onorano il loro amico con «un elementare esercizio di pietà». Lo scenario che si presenta ai lettori del primo quotidiano italiano per mezzo di una delle sue penne più illustri è dunque questo: antichi e rancorosi facinorosi ostacolano la sacrosanta pietà. Abbastanza per suscitare qualche curiosità e per scoprire alcune cose che qui si elencano come semplici dati di fatto.
1. La sacrosanta pietà degli amici di Ramelli consisteva in una riunione in una sala della Provincia di Milano gentilmente concessa dal presidente Podestà (Pdl) e pietosamente intitolata "Milano burning". Presenti le sigle più minacciose della destra fascista e nazista cittadina, con personaggi già noti alla questura e alle autorità in un tripudio di simboli, slogan e paccottiglia fascista.
2. Il presidio antifascista davanti alla Camera del Lavoro, sita a pochi metri, è stato indetto dalla stessa Camera del Lavoro (ha aderito l'Associazione ex deportati) per un motivo molto semplice: in analoghe occasioni certi raduni "pietosi" erano sfociati in raid e provocazioni. Il presidio consisteva in una discreta presenza, canti, discorsi. Età media (purtroppo) alta. Chi voglia vedere le fotografie di queste «teste e coscienze aggrappate al passato» può andare a quest'indirizzo, bit.ly/JgkD0S, e vedrà di che razza di facinorosi si tratta.
3. «L'elementare esercizio di pietà» così ben descritto da Battista è sfociato in una manifestazione, questa sì assai lugubre. In fila per cinque con i labari e le croci celtiche, le svastiche tatuate, il grido «Camerata Ramelli, presente!», gli «A noi!», e tutto il repertorio. Il video, veramente agghiacciante, è qui: bit.ly/JNEFU9 . Ognuno può rendersi conto dell'affronto che queste immagini rappresentano per Milano, città medaglia d'oro della Resistenza, che è poi la città del Corriere della Sera, lo stesso che tante belle e preziose pagine confeziona ogni anno in occasione del giorno della Memoria.
In sostanza: un semplicissimo gioco di ribaltamento: la "cattiva" Cgil ancorata al passato e i pietosi giovani di destra che commemorano il loro caduto. Questo sanno i lettori del Corriere. Cioè l'esatto opposto di quel che è successo realmente. Sarebbe bastato leggere le cronache pubblicate dallo stesso Corriere il giorno prima. Sarebbe bastato cercare un po' in rete, magari dare un'occhiata al corteo nazifascista. Ma l'opinione preconfezionata ne avrebbe forse risentito, e allora perché farlo?
Viste quelle immagini, poi, si è cercato sul Corriere qualche cenno di errata corrige, qualche velata scusa, qualche ritrattazione, un pietoso (questo sì) «mi sono sbagliato». Invece niente. E dunque, vien da pensare, non un banale errore giornalistico, ma qualcosa di più. Irresistibile, per esempio, l'incipit del pezzo di Pierluigi Battista, che così recita: «Sinceramente non si capisce perché la Cgil, che pure avrebbe molti impegni da onorare in questo terribile periodo di crisi del lavoro debba prodigarsi per organizzare un presidio antifascista...». «Sinceramente», mi raccomando. Insomma: nazisti, vittime degli anni bui, sprangate, labari e croci celtiche non c'entrano niente, e quel che si voleva era mettere un po' al suo posto la Cgil. Tutto qui. Tutto semplice e lineare. La vergogna di cinquecento neonazisti che marciano inquadrati militarmente per Milano scimmiottando le coreografie berlinesi degli anni Trenta non conta. Ma che importa: leggendo soltanto l'accorato commento di Battista - lontano anni luce da fatti comodamente controllabili - i lettori del Corriere non lo sapranno.