Siria, la Jugoslavia araba del Medio Oriente
Nicola Nasser*
Nicola Nasser*
Pravda, 2 novembre 2011
Circondata dal membro veterano turco della NATO a nord, dal partner israeliano della NATO e dalle flotte della marina dei suoi Stati membri, che pattugliano il Mediterraneo, ad ovest, dal partner giordano dell’Alleanza a sud, e ad est dall’Iraq che ospita una missione della NATO, di cui dovrebbe diventare il 12° partner arabo, e nuotando solitario in un mare di alleati strategici arabi e israeliano degli Stati Uniti, il regime del presidente siriano Bashar al-Assad si erge come la Jugoslavia del Medio Oriente, che è stata raggiunta dall’espansione verso sud della Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, così come dal “nuovo ordine mondiale”, progettato dalla potenza unipolare degli Stati Uniti; escluso come corpo estraneo regionale, o raggiungendo Iraq e Libia bombardate fino a tornare all’età medievale.
Dopo l’ultimo loro successo militare nell’aprire il cancello libico sull’Africa, sembra che degli Stati Uniti siano sul punto di assumere il 13° “partner” arabo della NATO, permettendo così di spostare il quartier generale di Africom dalla Germania al continente, dopo la rimozione del regime di Gheddafi, che si oppose sia a questa mossa e che all’Unione per il Mediterraneo (MU) francese, una rimozione che è di per sé, per tutte le ragioni realpolitiche, un avvertimento minaccioso alla vicina Algeria affinché ammorbidisca la sua opposizione sull’installazione in Africa di Africom e all’espansione verso sud della NATO, e a togliere qualsiasi riserva mentale sulla rinascita della MU, che ha perso il suo co-presidente egiziano, assieme al presidente Nicolas Sarkozy, con la rimozione dell’ex presidente Hosni Mubarak dal potere a Cairo.
Gli Stati Uniti e la NATO sono pronti ora a spostare l’attenzione dal Nord Africa arabo al Levante arabo, per affrontare l’ultimo ostacolo siriano alla loro egemonia regionale. L’amministrazione del presidente Barak Obama sembra ormai decisa a spezzare il regime di al-Assad, allontanandosi dalla politica decennale di gestione delle crisi, perseguita dalle precedenti amministrazioni degli Stati Uniti nei confronti della Siria, che si trova ora nel Medio Oriente come l’ex Jugoslavia si trovava sulla scia del crollo dell’Unione Sovietica, quando una serie di guerre etniche e religiose la rovinarono, creando dai suoi rottami vari stati nuovi, fino a quando il nucleo serbo dell’unione jugoslava venne bombardata dalla NATO nel 1999, per far della Serbia ora un possibile membro dell’alleanza.
Tuttavia fattori strategici geopolitici internazionali e regionali stanno trasformando la Siria in una linea rossa, che potrebbe inaugurare una nuova era di ordine mondiale multipolare che ponga fine all’ordine unipolare degli Stati Uniti, se l’alleanza guidata dagli Stati Uniti non riuscirà a cambiare il regime siriano, o alla completa egemonia regionale USA – NATO, ciò che potrebbe precludere il risultato tanto atteso, in caso di successo, sono:
- Internamente, le infrastrutture dello Stato sono forti, i militari, la sicurezza, la dirigenza diplomatica e politica sono coerenti, unificate e potenti, ed economicamente lo Stato non è gravato dal debito estero ed è autosufficiente per quanto riguarda prodotti petroliferi, alimentari e di consumo. Imporre un completo assedio per soffocare economicamente e diplomaticamente il Paese sembra impossibile. La cosa più importante politicamente è il fatto che la diversità pluralistica delle grandi minoranze religiose e settarie siriane, priva l’opposizione più importante, quella dell’organizzazione islamista dei Fratelli musulmani, del ruolo guida di cui gode nelle proteste di quella che è stata definita “primavera araba” in Tunisia, Egitto e Yemen.
- Contrariamente alle analisi occidentali, che prevedono che il cambiamento dei regimi della “primavera araba” sia un disco motivante per un cambiamento simile in Siria, tali cambiamenti sono stati dei cattivi esempi per i siriani. La distruzione delle infrastrutture dello stato, specialmente in Iraq e Libia, e la cessione del processo decisionale nazionale alla NATO e agli Stati Uniti, almeno per gratitudine verso i loro ruoli nel cambiamento, non sono considerate dalla stragrande maggioranza dei siriani, compresa l’opposizione tradizionale nel paese, un prezzo accettabile e fattibile per il cambiamento e la riforma. L’esimio giornalista veterano egiziano e internazionale, Mohammed Hassanein Heikal, in un’intervista al canale satellitare arabo del Qatar, al-Jazeera, citava i cattivi esempi iracheni e libici, per spiegare l’alienazione della classe media siriana nelle principali città dal sostegno alle proteste che esigono il cambiamento del regime, ed aveva anche accusato al-Jazeera di “istigazione” contro il regime siriano di al-Assad.
- Questa situazione complessiva interna continua a scoraggiare un intervento esterno, da un lato, e dall’altro spiega perché l’opposizione abbia finora fallito nel lanciare anche una sola protesta da milioni di persone nelle strade, come era ed è il caso di Tunisia, Egitto, Bahrain e Yemen, soprattutto nei centri abitati più importanti come la capitale Damasco, Aleppo, che ospitano una decina di milioni di persone.
- Inoltre, l’uscita di una minoranza di islamisti armati, che presumibilmente avrebbe difeso i manifestanti, è fallita, alienando il pubblico in generale, le minoranze, in particolare, ed evidenziando le loro fonti esterne di finanziamento e di armamento, in tal modo sostenendo l’accusa del regime dell’esistenza di una “cospirazione” esterna, ma soprattutto deviando i riflettori dei media dalle proteste pacifiche, indebolendo queste proteste e allontanando sempre più persone dall’unirsi a loro per paura della sicurezza personale, come dimostrato dalla grande diminuzione di manifestanti, e trascinando l’opposizione in battaglia, dove il regime è sicuramente più forte, almeno in assenza di intervento militare esterno, che non è prossimo in un futuro prevedibile; un fatto che è stato confermato nella capitale libica, Tripoli, il 31 ottobre, dal segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen: “La NATO non ha alcuna intenzione (di intervenire). Posso assolutamente escluderlo“, riferiva la Reuters .
- Geopoliticamente, è vero che le potenze occidentali dopo la Prima guerra mondiale riuscirono a ridurre la Siria storica alla sua dimensione attuale, ma l’ideologia siriana pan-araba e la sua influenza si basano ancora sulla Siria storica, ed è ancora coerente con ciò che il defunto studioso di Princeton, Philip K. Hitti aveva chiamato (citato da Robert D. Kaplan su Foreign Policy del 21 aprile 2011) “Grande Siria” – l’antecedente storico della moderna Repubblica – “il più grande piccolo paese sulla mappa, di dimensioni microscopiche, ma dall’influenza cosmica“, che comprende nella sua geografia, alla confluenza di Europa, Asia e Africa, “la storia del mondo civilizzato in miniatura“. Kaplan ha commentato: “Questa non è un’esagerazione, perché non lo sono i disordini in corso in Siria, molto più importanti di quanto abbiamo visto nei disordini in tutto il Medio Oriente.” Il cambiamento di regime in Siria non porterà sicurezza e stabilità nella regione, al contrario, si aprirà un vaso di Pandora regionale. Il presidente siriano al-Assad è assai ben consapevole di questa realtà geopolitica, quando ha detto in Gran Bretagna, in una recente intervista al Sunday Telegraph che la Siria “è una (regione) linea di faglia, e se salti sul suolo, causerai un terremoto“.
- Le ripercussioni regionali di una guerra civile in Siria sono un fattore deterrente, sia contro la militarizzazione delle proteste pacifiche pro-riforma che gli interventi militari a sostegno delle stesse. Pertanto, quando la NATO e gli Stati Uniti fanno pressione o incoraggiano i loro alleati regionali Turchia e paesi arabi del CCG a fomentare conflitti settari sunniti contro l’alleato siriano dell’Iran sciita, come un preludio di guerra civile per il solo pretesto di un intervento militare, in realtà giocano con il fuoco regionale, che non salverà né i responsabili, né gli interessi “vitali” dei loro sponsor USA-NATO.
- A livello regionale, la possibile perdita per l’Iran del suo ponte siriano sul Mediterraneo, mentre le sue rotte strategiche sul mare potrebbero facilmente essere chiuse nel Golfo, nel Mare Arabico, nello Stretto di Bab-el-Mandeb, nel mar Rosso e nel Canale di Suez da parte della quinta e sesta flotte degli Stati Uniti, nonché dalle flotte degli Stati membri della NATO e d’Israele, e dei governi pro-USA che si affacciano su queste rotte marittime; allora è la linea rossa iraniana il cui sconfinamento potrebbe creare una situazione gravida di rischi potenziali di una guerra regionale.
- Anche Livello regionale, a meno della decisione di Stati Uniti e NATO di andare in guerra contro l’Iran e la Siria, l’intervento militare in Siria non sarebbe all’ordine del giorno, a meno che non ci siano garanzie che Israele resti fuori dalla portata della prevedibile rappresaglia iraniana e siriana.
- I tempi dello spostamento dell’attenzione sulla Siria di USA – NATO coincidono con il punto morto del processo di pace palestinese – israeliano e col fallimento di Barak Obama nel mantenere le sue promesse verso i suoi alleati arabi, allontanando il più moderato di loro, vale a dire il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che è ancora in rotta di collisione con lo sponsor statunitense della campagna internazionale contro il suo processo per garantirsi, in ritardo, il riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Il fallimento della mediazione di pace degli Stati Uniti è più controproducente del processo di pace israelo-siriano. Il regime di al-Assad andò al potere con un colpo di stato, con il preciso intento di essere coinvolto nel processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti in Medio Oriente. Più di quaranta anni dopo gli Stati Uniti vi sono ancora impegnati. Questo fallimento erode l’influenza degli arabi moderati filo-USA, ponendosi come il più grande ostacolo alla costruzione di un fronte israelo-statunitense-arabo contro l’Iran, che è una priorità regionale statunitense e israeliana, aggiunge munizioni e forze al protagonista siriano. L’accordo di riconciliazione di Abbas con un Hamas basato in Siria, è un buon esempio per riflettere su questo contesto, un altro è l’ultima opzione pronunciata dal leader palestinese di sciogliere l’Autorità dell’auto-governo palestinese sotto l’occupazione militare israeliana, cosa che sarebbe un colpo mortale al processo di pace arabo – israeliano.
- Il fallimento della “sponsorizzazione” degli Stati Uniti è stato un fattore importante che ha contribuito ai cambiamenti della “primavera araba” sulla catena di regimi arabi filo-USA di Egitto, Tunisia e Yemen. Tuttavia, questo fallimento rafforza l’ideologia della “resistenza” della Siria, giustifica il suo coordinamento strategico difensivo con l’Iran, rafforza il sostegno popolare a entrambi i paesi nella regione, e dà credibilità alla tesi del regime di Damasco, secondo cui gli Stati Uniti e la NATO stanno alimentando le proteste siriane in nome del cambiamento e della riforma, ma in realtà sfruttando queste proteste “per cambiare il regime” e sostituirlo con uno più disposto ad accettare l’imposizione dei dettati per la pace israelo – statunitense.
- Il ritiro programmato delle forze di combattimento statunitensi dall’Iraq entro la fine dell’anno, è un altro fattore regionale negativo contro l’intervento militare in Siria. Il ritiro senza dubbio lascerà l’Iraq nel quadro di un regime pro – Iran. Il primo ministro Nouri al-Maliki è tra coloro che si oppongono al cambio di regime in Siria, proprio a causa dell’influenza iraniana. L’Iraq sta ormai apertamente sostituendo la Turchia come profondità strategica del suo vicino siriano, fornendo un collegamento strategico tra gli alleati Damasco e Teheran, dopo l’inversione di rotta della Turchia sulla sua “cooperazione strategica” con la Siria, dopo nove anni di “rapporti a zero problemi” con i vicini arabi e islamici, e la sua adesione ai piani della NATO e degli Stati Uniti sulla Siria come membro e alleata rispettivamente.
- A livello internazionale, gli ultimi veti russi e cinesi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sono un’indicazione sufficiente che lo sforzo di Stati Uniti – NATO per cambiare il regime siriano ha superato un’altra linea rossa. Perdendo le sue infrastrutture marittime in Siria, la Russia resterebbe esclusa dal Mar Mediterraneo, che lo renderebbe un lago della NATO e degli Stati Uniti. La Cina, il cui vantaggio competitivo in Africa viene messo in discussione a seguito del cambiamento di regime in Libia, vedrebbe la caduta della Siria, divenendo una base di lancio di Stati Uniti – NATO contro l’Iran, una minaccia reale per la sua competitiva partnership con l’Iran. Cacciando Pechino anche dall’Iran, l’emergente gigante economico cinese sarebbe alla mercé dei partner della NATO, se riuscissero a garantirsi il controllo di Iran e Siria, perché questo garantirebbe anche il controllo delle riserve strategiche di petrolio in Medio Oriente e Asia centrale. Questo è assolutamente una linea rossa cinese.
- Diplomaticamente, i piani di intervento militare in Siria di USA – NATO, hanno visto negata qualsiasi copertura di legittimità delle Nazioni Unite dai veti russi e cinesi. La legittimità della Lega Araba è ancora carente; per congelare l’adesione di uno Stato membro, come nel caso della Libia, ha bisogno di un consenso che non è in vista.
Dopo l’ultimo loro successo militare nell’aprire il cancello libico sull’Africa, sembra che degli Stati Uniti siano sul punto di assumere il 13° “partner” arabo della NATO, permettendo così di spostare il quartier generale di Africom dalla Germania al continente, dopo la rimozione del regime di Gheddafi, che si oppose sia a questa mossa e che all’Unione per il Mediterraneo (MU) francese, una rimozione che è di per sé, per tutte le ragioni realpolitiche, un avvertimento minaccioso alla vicina Algeria affinché ammorbidisca la sua opposizione sull’installazione in Africa di Africom e all’espansione verso sud della NATO, e a togliere qualsiasi riserva mentale sulla rinascita della MU, che ha perso il suo co-presidente egiziano, assieme al presidente Nicolas Sarkozy, con la rimozione dell’ex presidente Hosni Mubarak dal potere a Cairo.
Gli Stati Uniti e la NATO sono pronti ora a spostare l’attenzione dal Nord Africa arabo al Levante arabo, per affrontare l’ultimo ostacolo siriano alla loro egemonia regionale. L’amministrazione del presidente Barak Obama sembra ormai decisa a spezzare il regime di al-Assad, allontanandosi dalla politica decennale di gestione delle crisi, perseguita dalle precedenti amministrazioni degli Stati Uniti nei confronti della Siria, che si trova ora nel Medio Oriente come l’ex Jugoslavia si trovava sulla scia del crollo dell’Unione Sovietica, quando una serie di guerre etniche e religiose la rovinarono, creando dai suoi rottami vari stati nuovi, fino a quando il nucleo serbo dell’unione jugoslava venne bombardata dalla NATO nel 1999, per far della Serbia ora un possibile membro dell’alleanza.
Tuttavia fattori strategici geopolitici internazionali e regionali stanno trasformando la Siria in una linea rossa, che potrebbe inaugurare una nuova era di ordine mondiale multipolare che ponga fine all’ordine unipolare degli Stati Uniti, se l’alleanza guidata dagli Stati Uniti non riuscirà a cambiare il regime siriano, o alla completa egemonia regionale USA – NATO, ciò che potrebbe precludere il risultato tanto atteso, in caso di successo, sono:
- Internamente, le infrastrutture dello Stato sono forti, i militari, la sicurezza, la dirigenza diplomatica e politica sono coerenti, unificate e potenti, ed economicamente lo Stato non è gravato dal debito estero ed è autosufficiente per quanto riguarda prodotti petroliferi, alimentari e di consumo. Imporre un completo assedio per soffocare economicamente e diplomaticamente il Paese sembra impossibile. La cosa più importante politicamente è il fatto che la diversità pluralistica delle grandi minoranze religiose e settarie siriane, priva l’opposizione più importante, quella dell’organizzazione islamista dei Fratelli musulmani, del ruolo guida di cui gode nelle proteste di quella che è stata definita “primavera araba” in Tunisia, Egitto e Yemen.
- Contrariamente alle analisi occidentali, che prevedono che il cambiamento dei regimi della “primavera araba” sia un disco motivante per un cambiamento simile in Siria, tali cambiamenti sono stati dei cattivi esempi per i siriani. La distruzione delle infrastrutture dello stato, specialmente in Iraq e Libia, e la cessione del processo decisionale nazionale alla NATO e agli Stati Uniti, almeno per gratitudine verso i loro ruoli nel cambiamento, non sono considerate dalla stragrande maggioranza dei siriani, compresa l’opposizione tradizionale nel paese, un prezzo accettabile e fattibile per il cambiamento e la riforma. L’esimio giornalista veterano egiziano e internazionale, Mohammed Hassanein Heikal, in un’intervista al canale satellitare arabo del Qatar, al-Jazeera, citava i cattivi esempi iracheni e libici, per spiegare l’alienazione della classe media siriana nelle principali città dal sostegno alle proteste che esigono il cambiamento del regime, ed aveva anche accusato al-Jazeera di “istigazione” contro il regime siriano di al-Assad.
- Questa situazione complessiva interna continua a scoraggiare un intervento esterno, da un lato, e dall’altro spiega perché l’opposizione abbia finora fallito nel lanciare anche una sola protesta da milioni di persone nelle strade, come era ed è il caso di Tunisia, Egitto, Bahrain e Yemen, soprattutto nei centri abitati più importanti come la capitale Damasco, Aleppo, che ospitano una decina di milioni di persone.
- Inoltre, l’uscita di una minoranza di islamisti armati, che presumibilmente avrebbe difeso i manifestanti, è fallita, alienando il pubblico in generale, le minoranze, in particolare, ed evidenziando le loro fonti esterne di finanziamento e di armamento, in tal modo sostenendo l’accusa del regime dell’esistenza di una “cospirazione” esterna, ma soprattutto deviando i riflettori dei media dalle proteste pacifiche, indebolendo queste proteste e allontanando sempre più persone dall’unirsi a loro per paura della sicurezza personale, come dimostrato dalla grande diminuzione di manifestanti, e trascinando l’opposizione in battaglia, dove il regime è sicuramente più forte, almeno in assenza di intervento militare esterno, che non è prossimo in un futuro prevedibile; un fatto che è stato confermato nella capitale libica, Tripoli, il 31 ottobre, dal segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen: “La NATO non ha alcuna intenzione (di intervenire). Posso assolutamente escluderlo“, riferiva la Reuters .
- Geopoliticamente, è vero che le potenze occidentali dopo la Prima guerra mondiale riuscirono a ridurre la Siria storica alla sua dimensione attuale, ma l’ideologia siriana pan-araba e la sua influenza si basano ancora sulla Siria storica, ed è ancora coerente con ciò che il defunto studioso di Princeton, Philip K. Hitti aveva chiamato (citato da Robert D. Kaplan su Foreign Policy del 21 aprile 2011) “Grande Siria” – l’antecedente storico della moderna Repubblica – “il più grande piccolo paese sulla mappa, di dimensioni microscopiche, ma dall’influenza cosmica“, che comprende nella sua geografia, alla confluenza di Europa, Asia e Africa, “la storia del mondo civilizzato in miniatura“. Kaplan ha commentato: “Questa non è un’esagerazione, perché non lo sono i disordini in corso in Siria, molto più importanti di quanto abbiamo visto nei disordini in tutto il Medio Oriente.” Il cambiamento di regime in Siria non porterà sicurezza e stabilità nella regione, al contrario, si aprirà un vaso di Pandora regionale. Il presidente siriano al-Assad è assai ben consapevole di questa realtà geopolitica, quando ha detto in Gran Bretagna, in una recente intervista al Sunday Telegraph che la Siria “è una (regione) linea di faglia, e se salti sul suolo, causerai un terremoto“.
- Le ripercussioni regionali di una guerra civile in Siria sono un fattore deterrente, sia contro la militarizzazione delle proteste pacifiche pro-riforma che gli interventi militari a sostegno delle stesse. Pertanto, quando la NATO e gli Stati Uniti fanno pressione o incoraggiano i loro alleati regionali Turchia e paesi arabi del CCG a fomentare conflitti settari sunniti contro l’alleato siriano dell’Iran sciita, come un preludio di guerra civile per il solo pretesto di un intervento militare, in realtà giocano con il fuoco regionale, che non salverà né i responsabili, né gli interessi “vitali” dei loro sponsor USA-NATO.
- A livello regionale, la possibile perdita per l’Iran del suo ponte siriano sul Mediterraneo, mentre le sue rotte strategiche sul mare potrebbero facilmente essere chiuse nel Golfo, nel Mare Arabico, nello Stretto di Bab-el-Mandeb, nel mar Rosso e nel Canale di Suez da parte della quinta e sesta flotte degli Stati Uniti, nonché dalle flotte degli Stati membri della NATO e d’Israele, e dei governi pro-USA che si affacciano su queste rotte marittime; allora è la linea rossa iraniana il cui sconfinamento potrebbe creare una situazione gravida di rischi potenziali di una guerra regionale.
- Anche Livello regionale, a meno della decisione di Stati Uniti e NATO di andare in guerra contro l’Iran e la Siria, l’intervento militare in Siria non sarebbe all’ordine del giorno, a meno che non ci siano garanzie che Israele resti fuori dalla portata della prevedibile rappresaglia iraniana e siriana.
- I tempi dello spostamento dell’attenzione sulla Siria di USA – NATO coincidono con il punto morto del processo di pace palestinese – israeliano e col fallimento di Barak Obama nel mantenere le sue promesse verso i suoi alleati arabi, allontanando il più moderato di loro, vale a dire il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che è ancora in rotta di collisione con lo sponsor statunitense della campagna internazionale contro il suo processo per garantirsi, in ritardo, il riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Il fallimento della mediazione di pace degli Stati Uniti è più controproducente del processo di pace israelo-siriano. Il regime di al-Assad andò al potere con un colpo di stato, con il preciso intento di essere coinvolto nel processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti in Medio Oriente. Più di quaranta anni dopo gli Stati Uniti vi sono ancora impegnati. Questo fallimento erode l’influenza degli arabi moderati filo-USA, ponendosi come il più grande ostacolo alla costruzione di un fronte israelo-statunitense-arabo contro l’Iran, che è una priorità regionale statunitense e israeliana, aggiunge munizioni e forze al protagonista siriano. L’accordo di riconciliazione di Abbas con un Hamas basato in Siria, è un buon esempio per riflettere su questo contesto, un altro è l’ultima opzione pronunciata dal leader palestinese di sciogliere l’Autorità dell’auto-governo palestinese sotto l’occupazione militare israeliana, cosa che sarebbe un colpo mortale al processo di pace arabo – israeliano.
- Il fallimento della “sponsorizzazione” degli Stati Uniti è stato un fattore importante che ha contribuito ai cambiamenti della “primavera araba” sulla catena di regimi arabi filo-USA di Egitto, Tunisia e Yemen. Tuttavia, questo fallimento rafforza l’ideologia della “resistenza” della Siria, giustifica il suo coordinamento strategico difensivo con l’Iran, rafforza il sostegno popolare a entrambi i paesi nella regione, e dà credibilità alla tesi del regime di Damasco, secondo cui gli Stati Uniti e la NATO stanno alimentando le proteste siriane in nome del cambiamento e della riforma, ma in realtà sfruttando queste proteste “per cambiare il regime” e sostituirlo con uno più disposto ad accettare l’imposizione dei dettati per la pace israelo – statunitense.
- Il ritiro programmato delle forze di combattimento statunitensi dall’Iraq entro la fine dell’anno, è un altro fattore regionale negativo contro l’intervento militare in Siria. Il ritiro senza dubbio lascerà l’Iraq nel quadro di un regime pro – Iran. Il primo ministro Nouri al-Maliki è tra coloro che si oppongono al cambio di regime in Siria, proprio a causa dell’influenza iraniana. L’Iraq sta ormai apertamente sostituendo la Turchia come profondità strategica del suo vicino siriano, fornendo un collegamento strategico tra gli alleati Damasco e Teheran, dopo l’inversione di rotta della Turchia sulla sua “cooperazione strategica” con la Siria, dopo nove anni di “rapporti a zero problemi” con i vicini arabi e islamici, e la sua adesione ai piani della NATO e degli Stati Uniti sulla Siria come membro e alleata rispettivamente.
- A livello internazionale, gli ultimi veti russi e cinesi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sono un’indicazione sufficiente che lo sforzo di Stati Uniti – NATO per cambiare il regime siriano ha superato un’altra linea rossa. Perdendo le sue infrastrutture marittime in Siria, la Russia resterebbe esclusa dal Mar Mediterraneo, che lo renderebbe un lago della NATO e degli Stati Uniti. La Cina, il cui vantaggio competitivo in Africa viene messo in discussione a seguito del cambiamento di regime in Libia, vedrebbe la caduta della Siria, divenendo una base di lancio di Stati Uniti – NATO contro l’Iran, una minaccia reale per la sua competitiva partnership con l’Iran. Cacciando Pechino anche dall’Iran, l’emergente gigante economico cinese sarebbe alla mercé dei partner della NATO, se riuscissero a garantirsi il controllo di Iran e Siria, perché questo garantirebbe anche il controllo delle riserve strategiche di petrolio in Medio Oriente e Asia centrale. Questo è assolutamente una linea rossa cinese.
- Diplomaticamente, i piani di intervento militare in Siria di USA – NATO, hanno visto negata qualsiasi copertura di legittimità delle Nazioni Unite dai veti russi e cinesi. La legittimità della Lega Araba è ancora carente; per congelare l’adesione di uno Stato membro, come nel caso della Libia, ha bisogno di un consenso che non è in vista.
Due opzioni
Questo è il contesto geopolitico strategico nel quale la trasformazione pro-democrazia siriana sta cercando disperatamente di sopravvivere ai mezzi non democratici di Stati Uniti – NATO per costringere la Siria alla conformità. Sia l’opposizione tradizionale nel paese che il regime al potere hanno quasi un consenso sulle riforme e ai cambiamenti fondamentali che porteranno la Siria a essere ciò che viene oggi definita “seconda repubblica”, attraverso il dialogo.
Sia questa opposizione che il regime, sono contro la militarizzazione delle proteste popolari pacifiche che richiedono riforme e cambiamento, e sono più risolutamente contrarie all’intervento straniero in qualsiasi forma, ed entrambe sono alla ricerca di unità nazionale interna, nonché del supporto estero al pacchetto di riforme che includono l’eliminazione della legge marziale, la limitazione del ruolo dell’intelligence dello Stato sulla sicurezza nazionale, l’abilitazione della società civile, il contrasto alla corruzione politica ed economica, pluralismo politico, elezioni, cambiando delle leggi elettorale, sui partiti e i media, bilanciamento tra esecutivo e legislativo, promozione della magistratura e dello Stato di diritto, e soprattutto, fine del monopolio costituzionale del potere del Partito Baath. Il Carnegie Endowment nella sua “Riforma in Siria: tra il modello cinese e il cambio di regime” del luglio 2006, aveva proposto la maggior parte delle riforme. In meno di sei mesi, il presidente al-Assad ha già emesso i decreti presidenziali che attuano tutte queste riforme.
Tuttavia l’asse dei sostenitori della “responsabilità di proteggere” di Stati Uniti – NATO persiste nel creare fatti sul terreno che comportino l’intervento straniero e li metta in grado di scambiare il loro sostegno a questo pacchetto di riforme interne a un cambiamento dall’esterno dell’agenda politica siriana che ha alimentato, nel corso di quattro decenni di governo al-Assad, la sua rete di alleanze regionali e internazionali hanno permesso alla Siria di mantenere una opzione di difesa nella sua lotta 40ennale per liberare le alture del Golan siriane occupate dagli israeliani, e di rimanere salda contro la dettatura di condizioni a Damasco per fare la pace con Israele, secondo termini israeliani.
Questi fattori negativi lasciano agli Stati Uniti e alla NATO due opzioni:
Primo, fare pressioni sul membro della NATO, la Turchia, affinché abbandoni i suoi nove anni di rapporti a “zero” problemi con i suoi vicini regionali, come descritto da Liam Stack sul New York Times, del 27 ottobre, mentre “ospita un gruppo armato di opposizione che conduce un’insurrezione ... nel mezzo di una più ampia campagna turca per minare il governo di Assad“, nel suo vicino meridionale siriano, la stessa ragione per cui la Turchia da anni conduce incursioni militari in Iraq, e del perché Ankara era sull’orlo della guerra con la Siria, alla fine degli anni ’90.
Secondo, aumentare la militarizzazione delle proteste pacifiche. Il 14 agosto 2011, il notiziario d’intelligence israeliano Debka aveva riferito che gli sviluppi in Siria erano al punto di una vera e propria insurrezione armata, integrata da “combattenti per la libertà” islamisti segretamente supportati, addestrati ed equipaggiati da potenze straniere. Secondo fonti di intelligence israeliane: il quartier generale della NATO a Bruxelles e l’alto comando turco, elaborano piani ... per armare i ribelli con armi controcarro ed anti-elicotteri ... Gli strateghi della NATO stanno pensando a riversare grandi quantità di missili anti-tank e anti-aereo, mortai e mitragliatrici pesanti nei centri di protesta ... La consegna di armi ai ribelli è prevista via terra, vale a dire attraverso la Turchia e sotto la protezione dell’esercito turco ... Secondo fonti israeliane, che restano da verificare, la NATO e l’alto comando turco, contemplano anche lo sviluppo di una “jihad” che comporta l’arruolamento di migliaia di “combattenti per la libertà” islamisti, cosa che ricorda l’arruolamento dei mujahideen per condurre la jihad (guerra santa) della CIA nel periodo di massimo splendore della guerra sovietico-afghana ... è stato anche discusso a Bruxelles e Ankara, affermano le nostre fonti, una campagna per arruolare migliaia di volontari musulmani nei paesi del Medio Oriente e del mondo musulmano, per combattere a fianco dei ribelli siriani. L’esercito turco avrebbe ospitato, addestrato questi volontari e garantito il loro passaggio in Siria!
L’editorialista del Washington Post del 28 settembre 2011, ha fatto una previsione: “La comparsa di tali forze non può essere benaccolta, neanche da coloro che sperano di porre fine al regime di Assad“.
Tuttavia, gli Stati Uniti e la NATO sembrano correre contro il tempo nel perseguire esattamente questo obiettivo, attraverso queste due opzioni, per impedire l’attuazione del pacchetto di riforme siriane, fino a quando il regime al potere sarà costretto a scambiare il suo sostegno a queste riforme con la conformità nell’agenda della politica estera siriana.
Ma poiché la politica estera siriana, come la politica estera di tutti i paesi, serve le prerogative interne in primo luogo, nel caso siriano la liberazione delle terre siriane occupate da Israele, la Siria non è tenuta ad adempiere tale scambio. Pertanto, la “resistenza” siriana continua, e con essa il conflitto regionale.
Nick Cohen ha scritto sul The Jewish Chronicle del 30 agosto 2011: “La Siria è una storia che grida la prima pagina. Ma non sta ricevendo l’interesse che si merita.” Cohen ha ragione, ma deve ancora affrontare la Siria da un approccio completamente diverso.
Questo è il contesto geopolitico strategico nel quale la trasformazione pro-democrazia siriana sta cercando disperatamente di sopravvivere ai mezzi non democratici di Stati Uniti – NATO per costringere la Siria alla conformità. Sia l’opposizione tradizionale nel paese che il regime al potere hanno quasi un consenso sulle riforme e ai cambiamenti fondamentali che porteranno la Siria a essere ciò che viene oggi definita “seconda repubblica”, attraverso il dialogo.
Sia questa opposizione che il regime, sono contro la militarizzazione delle proteste popolari pacifiche che richiedono riforme e cambiamento, e sono più risolutamente contrarie all’intervento straniero in qualsiasi forma, ed entrambe sono alla ricerca di unità nazionale interna, nonché del supporto estero al pacchetto di riforme che includono l’eliminazione della legge marziale, la limitazione del ruolo dell’intelligence dello Stato sulla sicurezza nazionale, l’abilitazione della società civile, il contrasto alla corruzione politica ed economica, pluralismo politico, elezioni, cambiando delle leggi elettorale, sui partiti e i media, bilanciamento tra esecutivo e legislativo, promozione della magistratura e dello Stato di diritto, e soprattutto, fine del monopolio costituzionale del potere del Partito Baath. Il Carnegie Endowment nella sua “Riforma in Siria: tra il modello cinese e il cambio di regime” del luglio 2006, aveva proposto la maggior parte delle riforme. In meno di sei mesi, il presidente al-Assad ha già emesso i decreti presidenziali che attuano tutte queste riforme.
Tuttavia l’asse dei sostenitori della “responsabilità di proteggere” di Stati Uniti – NATO persiste nel creare fatti sul terreno che comportino l’intervento straniero e li metta in grado di scambiare il loro sostegno a questo pacchetto di riforme interne a un cambiamento dall’esterno dell’agenda politica siriana che ha alimentato, nel corso di quattro decenni di governo al-Assad, la sua rete di alleanze regionali e internazionali hanno permesso alla Siria di mantenere una opzione di difesa nella sua lotta 40ennale per liberare le alture del Golan siriane occupate dagli israeliani, e di rimanere salda contro la dettatura di condizioni a Damasco per fare la pace con Israele, secondo termini israeliani.
Questi fattori negativi lasciano agli Stati Uniti e alla NATO due opzioni:
Primo, fare pressioni sul membro della NATO, la Turchia, affinché abbandoni i suoi nove anni di rapporti a “zero” problemi con i suoi vicini regionali, come descritto da Liam Stack sul New York Times, del 27 ottobre, mentre “ospita un gruppo armato di opposizione che conduce un’insurrezione ... nel mezzo di una più ampia campagna turca per minare il governo di Assad“, nel suo vicino meridionale siriano, la stessa ragione per cui la Turchia da anni conduce incursioni militari in Iraq, e del perché Ankara era sull’orlo della guerra con la Siria, alla fine degli anni ’90.
Secondo, aumentare la militarizzazione delle proteste pacifiche. Il 14 agosto 2011, il notiziario d’intelligence israeliano Debka aveva riferito che gli sviluppi in Siria erano al punto di una vera e propria insurrezione armata, integrata da “combattenti per la libertà” islamisti segretamente supportati, addestrati ed equipaggiati da potenze straniere. Secondo fonti di intelligence israeliane: il quartier generale della NATO a Bruxelles e l’alto comando turco, elaborano piani ... per armare i ribelli con armi controcarro ed anti-elicotteri ... Gli strateghi della NATO stanno pensando a riversare grandi quantità di missili anti-tank e anti-aereo, mortai e mitragliatrici pesanti nei centri di protesta ... La consegna di armi ai ribelli è prevista via terra, vale a dire attraverso la Turchia e sotto la protezione dell’esercito turco ... Secondo fonti israeliane, che restano da verificare, la NATO e l’alto comando turco, contemplano anche lo sviluppo di una “jihad” che comporta l’arruolamento di migliaia di “combattenti per la libertà” islamisti, cosa che ricorda l’arruolamento dei mujahideen per condurre la jihad (guerra santa) della CIA nel periodo di massimo splendore della guerra sovietico-afghana ... è stato anche discusso a Bruxelles e Ankara, affermano le nostre fonti, una campagna per arruolare migliaia di volontari musulmani nei paesi del Medio Oriente e del mondo musulmano, per combattere a fianco dei ribelli siriani. L’esercito turco avrebbe ospitato, addestrato questi volontari e garantito il loro passaggio in Siria!
L’editorialista del Washington Post del 28 settembre 2011, ha fatto una previsione: “La comparsa di tali forze non può essere benaccolta, neanche da coloro che sperano di porre fine al regime di Assad“.
Tuttavia, gli Stati Uniti e la NATO sembrano correre contro il tempo nel perseguire esattamente questo obiettivo, attraverso queste due opzioni, per impedire l’attuazione del pacchetto di riforme siriane, fino a quando il regime al potere sarà costretto a scambiare il suo sostegno a queste riforme con la conformità nell’agenda della politica estera siriana.
Ma poiché la politica estera siriana, come la politica estera di tutti i paesi, serve le prerogative interne in primo luogo, nel caso siriano la liberazione delle terre siriane occupate da Israele, la Siria non è tenuta ad adempiere tale scambio. Pertanto, la “resistenza” siriana continua, e con essa il conflitto regionale.
Nick Cohen ha scritto sul The Jewish Chronicle del 30 agosto 2011: “La Siria è una storia che grida la prima pagina. Ma non sta ricevendo l’interesse che si merita.” Cohen ha ragione, ma deve ancora affrontare la Siria da un approccio completamente diverso.
*Nicola Nasser è un veterano del giornalismo arabo di Bir Zeit, in Cisgiordania, nei territori palestinesi occupati da Israele.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora