http://www.klix.ba/vijesti/bih/u-jajcu-centralno-obiljezavanje-godisnjice-drugog-zasjedanja-avnoj-a/121124101
http://www.radiosarajevo.ba/novost/95494/
Video
http://www.youtube.com/watch?v=4lAVvxm5ZLw
http://www.youtube.com/watch?v=XJaudFV9QuA
http://www.youtube.com/watch?v=jP2Jk75CJRc
Foto in FB
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http://www.nasa-jugoslavija.org
VREME 1143, 29. Novembre 2012. / CULTURA
Ancora una volta sulla Jugoslavia
La scintilla nell'occhio
Nel museo della Storia jugoslava il primo dicembre, giorno del compleanno della prima Jugoslavia, si è aperta l'esposizione «La Jugoslavia dall'inizio alla fine». In quella settimana cadeva pure il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, il compleanno e la festa della seconda Jugoslavia. Ai nostri tempi si tenta di raccontare la Jugoslavia spogliata da ogni contenuto politico. Ma nella politica sta la chiave, la politica detiene una dimensione cruciale nell'idea jugoslava e nel progetto jugoslavo. La Jugoslavia non fu fatta a causa della sua cinematografia, né a causa della sua musica, né a causa del suo calcio: essa fu fatta per ragioni politiche. Diventare soggetto (politico), essere liberi, essere un fattore (politico), non essere una colonia, non essere ridotti a pura risorsa, non essere occupati: per queste ragioni si formò la Jugoslavia. Tutto il resto è venuto dopo.
Poche sono nella lingua le analogie tanto stupide quanto quella fra lo Stato e il matrimonio. Eppure qua, dalle nostre parti, questa analogia è diventata molto frequente, e quindi spesso si sente dire che la Cecoslovacchia ha avuto un divorzio pacifico e civile, mentre la Jugoslavia si è disgregata come si disgregano certi matrimoni poco tranquilli e poco civili, quando marito e moglie rompono posate e piatti, e anzi tirano fuori i coltelli. Allora nella forma giuridica si dice che marito e moglie si dividono a causa di «differenze inconciliabili». E davvero, in tali situazioni, «gli sposi» fino a poco tempo prima, generalmente mostrano pareri assolutamente discordanti a proposito di ogni cosa, a parte una unica proverbiale eccezione: non sanno in nessun modo, caro mio, perché in quella occasione avessero deciso di sposarsi...
A questo punto questa stupida analogia potrebbe far comodo; mentre nelle opinioni pubbliche dei vari statarelli postjugoslavi e nella loro provvisorietà esistono diverse, anche contrapposte, narrazioni dominanti – per usare questo termine che va di moda - che cercano di spiegare perché ci siamo divisi, le teorie dominanti sul perché ci eravamo messi insieme sono assai più conciliabili.
Errore e profitto
Nella Serbia è adesso molto popolare la tesi che considera la Jugoslavia come un tragico errore del popolo serbo. Questa, ad esempio, è la vera ossessione delle opere mature dello scrittore Dobrica Ćosić, e da lui questa visione è stata (ri)presa da una turba numerosa di (pseudo)storici e giornalisti. Questa idea ha sommerso la vita pubblica ed è diventata riconoscibile anche in luoghi dove non è coscientemente radicata in forma di concetto, ma viene scimmiottata con efficacia, visto che rispecchia lo spirito dei tempi. Essa è presente come retroscena politico nel film Montevideo, Bog te video (Montevideo, che ti veda Iddio). Dell’idea jugoslava come storia di un fatale errore si parla in modo esplicito nel libro “Il cerchio culturale serbo 1900-1918” di Petar Pijanović, nel quale l’idea jugoslava di Cvijić e di Sekulić è descritta come un utopismo nocivo. Era sbagliato verso la fine e dopo la Prima guerra mondiale costruire la Jugoslavia, afferma questa tesi, riassunta in modo più breve possibile. Bisognava costruire uno Stato serbo come Stato nazionale, su di un territorio più piccolo della Jugoslavia, ma quanto più grande possibile. Quello che per i serbi rappresenta un fatale errore, per i croati – seguendo la medesima logica - diventa un evidente profitto. I serbi si sarebbero precipitati tutti, sulle ali del destino e dell’entusiasmo, a fare la Jugoslavia, mentre i croati ne hanno tratto un profitto evidente. In questo sono d’accordo sia Dobrica Ćosić che Darko Hudelist, e la visione completa in questi giorni è sintetizzata da Inoslav Bešker, nella polemica con la famigerata frase di Stjepan Radić che rammenta «le oche nella nebbia». I rappresentanti croati nel 1918 non sono stati come oche credulone, dice Bešker, ma si sono preoccupati piuttosto di «minimizzare il danno”. Nel caso che non ci fosse stata la Jugoslavia, la Croazia sarebbe stata divisa fra i suoi aggressivi vicini dell’Occidente e dell’Oriente (Italia e Serbia). Ai croati sarebbe rimasto un paese-tampone, piccolo, piccolo, là, nel bel mezzo fra i due (non è senza interesse il fatto che ai tempi della disgregazione jugoslava Tudjman avrebbe voluto destinare il medesimo ruolo alla Bosnia-Erzegovina). In una simile concezione, la Jugoslavia ci ricorda quel mitico congelatore nel quale sarebbe stato congelato Walt Disney in attesa che si trovi un antidoto alla morte. Ai croati - ma opinioni simili si sentono anche in Slovenia - la Jugoslavia sarebbe servita unicamente come tappa per conseguire l’indipendenza, lungamente desiderata, da conquistare quando le condizioni fossero maturate. Dai montenegrini sentirete più di una volta che la Jugoslavia avrebbe cancellato il loro Stato, il più antico Stato e con la continuità statale più lunga nei Balcani, mentre i musulmani bosniaci vi diranno che essa li illuse con lo slogan della fratellanza e unità, e cosi li avrebbe predisposti allo sterminio e al genocidio. Probabilmente anche i macedoni avrebbero più di un rimprovero, ma per momento non me ne viene in mente nessuno...
Avvoltoi. Banditori. Urlatori.
Bene: per non peccare con l'anima, ammetto che in tutti quei paesetti ex-jugoslavi e anche nelle loro forme provvisorie, come pure nella cosiddetta “diaspora”, esistono piccoli mondi organizzati, che non si scaldano in modo tanto folcloristico per i propri Stati (nazionali). In verità, quegli Stati non gli fanno schifo, ciononostante si appoggiano molto di più a certe fondazioni ed organizzazioni internazionali, e vivono saltellando da un aereo all’altro, da una conferenza internazionale all’altra (conference-hop-ping come direbbero i colleghi della BBC), al contempo versando un mare di lacrime a causa di tutte le ingiustizie e per via di tutti i diseredati e gli emarginati. Anche questi non trovano parole lusinghiere per la Jugoslavia. Essa, per loro, come dice un adagio che ripetono spesso negli ultimi tempi, “avrebbe trovato la propria fine nelle fosse comuni e nei campi di concentramento”. Costoro sono amanti della giustizia e sono naturalmente di sinistra: si occupano e si preoccupano delle questioni mondiali. Il loro atteggiamento verso la Jugoslavia è perfettamente palese in un testo (peraltro schifoso) di Aleksandar Dragoš, critico musicale, che descrive il gruppo musicale Šarlo Akrobata confrontandolo con un altro gruppo musicale chiamato EKV. Citiamo quest'enfatica idiozia: "In breve, Šarlo sta a EKV come i principi del socialismo stanno alla Jugoslavia. Per i primi vale la pena di lottare ancora, mentre la seconda rappresenta il passato, che sarebbe meglio lasciare in pace." Questi tifosi dei principi del socialismo si mettono però in prima fila quando si fa la propaganda per “confrontarsi con il passato.” Affermano il loro impegno è di non permettere che si dimentichino le vittime. Nel caso che non avessimo voglia di passare per bugiardi, questi non sono altro che avvoltoi. Nella settimana in cui sono nate entrambe le Jugoslavie, in cui cade il 29 Novembre, Giornata della Repubblica, e la prima seduta dell’AVNOJ, nonché il 1 Dicembre, giorno in cui fu proclamata la prima Jugoslavia, bisogna leggere le poesie di Miloš Crnjanski e precisamente il poemetto che egli dedicò alla Jugoslavia. Questa poesia è stata scritta nel 1918 a Zagabria ed inizia con questi versi che tutti conoscono:
“Nessun bicchiere che si vuota
nessun tricolore che viene proposto
non è il nostro...”
In questa poesia si trovano i versi sui "terribili fratelli, di ciglia folte e canzoni tristi". Il verso chiave è il penultimo:
“Ma di celebrazione che vino beve
di feste e chiese, cosa vuol che c’ importi?
Le lacrime dall’occhio cadranno fra breve
Mentre il tamburo urla in vece dei morti.”
Ahimè, quanta poesia in questi tamburi e banditori che urlano - peraltro scritta da Crnjanski, il meno turco fra i nostri grandi scrittori! Il banditore, che urla a suon di tamburo, secondo la spiegazione del dizionario, è colui a cui spetta il compito di rendere note cioè di pubblicare le comunicazioni del potere. Gli urlatori - i banditori del nuovo ordine mondiale, impiegati leali e assai ben pagati, e quei banditori che gridano al suon di tamburo di regola lo sono - urlano dunque il suo racconto, la sua narrazione sulla Jugoslavia; la urlano per conto dei morti e, come affermano loro, per i morti. Visto che i vivi, almeno alcuni, possiedono l’abitudine scomoda ad avere memoria, a ricordare, la narrazione dei banditori - urlatori sulla Jugoslavia - è ambivalente. Ecco, dicono i banditori-urlatori, si viveva bene (i principi del socialismo!), ci davano gli alloggi gratis, non si pagava l’istruzione e nemmeno si pagavano le cure mediche, andavamo tutti al mare, Vegeta [prodotto del periodo jugoslavo] era un ingrediente ottimo nella cucina, Zdravko Čolić era un ottimo cantante, Rade Šerbedžija era un ottimo attore... ma tutto ciò è finito nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. La sostanza di quella narrazione è chiara: il racconto sulla Jugoslavia deve essere privato di ogni contenuto politico.
Visto che nella politica sta la chiave, la politica (nel vero senso della parola, non volgarizzata e ridotta alle chiacchiere nei bar, trasformata in intrighi quotidiani e macchinazioni) rimane la dimensione cruciale dell’idea jugoslava e del progetto jugoslavo. Non si è costruita la Jugoslavia a causa della cinematografia, o a causa della musica leggera o a causa del calcio, essa si è costituita per ragioni politiche. Essere un soggetto, essere liberi, essere un fattore (politico), non diventare una colonia, non essere trattati come pura risorsa, non essere occupati - per tutte queste ragioni si è costruita la Jugoslavia. Tutto il resto arrivò, come si dice, come utile collaterale. E la Jugoslavia non fu fatta da calcolatori, da chi soppesava che cosa sarebbe stato meglio e realisticamente più fattibile nel momento dato, da quelli che possedevano soluzioni di riserva, gente carrierista e pragmatica: fu fatta da uomini liberi, che credevano nella poesia e nei sogni.
La stella sulla fronte
Esiste una consuetudine antica nei funerali ebraici, un’abitudine che Boris Davidovič Novski, in un colloquio breve con il suo mentore spirituale Isaak Ilič Rabinovič, aveva riassunto cosi: “Nel momento in cui si preparano a portare il morto fuori dalla Sinagoga per trasportarlo al cimitero, allora un servitore di Gèova si china sul defunto, lo chiama per nome e gli dice ad alta voce: Sappi che sei morto!” Questa consuetudine ha attecchito anche per quanto riguarda la Jugoslavia, ed ha attecchito anche molto bene. Non c’è da meravigliarsi. La gente da noi è molto amante delle consuetudini - esiste anche il proverbio: Meglio distruggere un villaggio intero che una consuetudine. E nel nome della mostra che apre il 1 dicembre nel Museo della storia jugoslava si evidenziano le briciole di quel proverbio, visto che porta il nome “La Jugoslavia dall’inizio fino alla fine”. Il defunto si nomina, lo si chiama per nome e gli si dice: Jugoslavia, è vero, hai avuto un inizio e dunque hai una fine, il che sarebbe una variante di: Sappi che sei morto. Le consuetudini nei funerali esistono e si praticano per i vivi, non per i morti. E questa consuetudine esiste per convincere i vivi che il defunto è morto per davvero. Nel caso jugoslavo, questa consuetudine è perversa al massimo, visto che tutte le varietà di traditori nostrani nonché i fattori stranieri hanno speso un colossale sacco di soldi e di esplosivo per elidere quel nome dalla vita e dalla realtà, per svuotarlo da ogni contenuto, per farlo diventare privo di ogni significato, vuoto come una buccia di noce svuotata. Eppure, a lungo termine, tutto questo non servirà a nulla. Come si dice: è possibile ingannare tutta la gente per un certo tempo, ma non è possibile ingannare tutta la gente per tutto il tempo. Verrà il tempo della verità. La verità è che la Jugoslavia non è finita nelle fosse comuni e nei campi di concentramento. In queste fosse comuni e in questi campi di concentramento hanno avuto inizio i suoi Statarelli-eredi, con le loro entità, con i loro territori provvisori o occupati, sia negli anni Quaranta che negli anni Novanta del secolo scorso.
La Jugoslavia nacque dalla stella sulla fronte e dalla scintilla nell’occhio, dalla piaga del defunto poeta Tin Ujević, dalla tomba fra gli uliveti del poeta Ljubomir Milanović “che passò la maturità a Smederevo", dallo sparo epocale di Gavrilo Princip, autore di versi che anche cento anni dopo restano il migliore commento possibile a proposito della morte della Jugoslavia: Chi vuole vivere, che muoia! Chi vuole morire, che viva!
Muharem Bazdulj
(trad. JT, rev. AM)