Campi di concentramento per zingari

1) Tra Auschwitz e Agnone, l’eredità del Porrajmos (di  E. Martini, su Il Manifesto del 25.1.2015)
2) Rita e gli esperimenti nazisti sui bimbi Rom (di S. Pasta, su Il Corriere - Città Nuova del 28.1.2015)


LEGGI ANCHE:

Alcuni campi di concentramento per zingari, incluso quello di Agnone (CB), sono elencati alla nostra pagina sull'internamento degli jugoslavi:

Per ulteriori approfondimenti si vedano anche gli articoli
Paola Cecchi: Sui Rom morti durante la II Guerra Mondiale
Elena Romanello: Ricordata per la prima volta (2010) la rivolta degli zingari nei lager
Tatiana Sirbu: The Deportation of Roma to Transnistria
Giovanna Boursier: La persecuzione degli zingari da parte del Fascismo
alla nostra pagina dedicata: 

I VIDEO:

Sinti survivor Karl Stojka on his arrival in Auschwitz-Birkenau (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO / DEUTSCH) 
Sinti survivor Karl Stojka describes his arrival in Auschwitz-Birkenau in 1943...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=zWYg5Uk0VHk

Piero Terracina on the Zigeunerlager (Gypsy camp) in Auschwitz-Birkenau (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO)
Holocaust survivor Piero Terracina talks about the Gypsy family camp known as the Zigeunerlager (Gypsy camp) in Auschwitz-Birkenau and describes the night of the camp liquidation...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=f_poSK-a8hs

Roma survivor Tulo Reinhart on deportations of Roma in Italy during WWII (USC Shoah Foundation, 26 gen 2015 – IN ITALIANO)
Roma survivor Tulo Reinhart talks about deportations of Roma in Italy during WWII...
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=L0Us9oSjtEI


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http://ilmanifesto.info/tra-auschwitz-e-agnone-leredita-del-purrajmos/

REPORTAGE

Tra Auschwitz e Agnone, l’eredità del Porrajmos

di  Eleonora Martini,  25.1.2015

Giornata della memoria. La «Devastazione» di Rom e Sinti in Germania e in Italia. Una storia quasi sconosciuta a causa dei pregiudizi italiani e per il ritardo con il quale Berlino ha riconosciuto lo sterminio razziale

Per tutta la vita Glazo si è sfor­zato di imma­gi­nare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desi­de­rio di andare a vedere Ausch­witz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata ster­mi­nata parte della mia fami­glia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accon­tenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bic­chiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più gio­vane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viag­gio della memo­ria, orga­niz­zato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 stu­denti e inse­gnanti imbar­cati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno rico­no­sciuto il nome di qual­che parente, nel lungo elenco espo­sto nel Blocco 13 del primo Campo.

In fuga perenne

Fu suo zio a sopran­no­mi­narlo Glazo, «da glas, bic­chiere, per­ché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle per­sone il nome delle cose che li cir­con­dano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Gal­liano, classe 1949, di Prato ma mila­nese di nascita, per sal­varsi la vita hanno dovuto pren­dersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liu­taio Nello Leh­mann, sce­gliendo il nome di un vio­lino di ori­gine napo­le­tana e sfug­gendo così al Por­ra­j­mos, la «Deva­sta­zione», lo ster­mi­nio delle mino­ranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludo­vico Leh­mann, anch’egli liu­taio, all’inizio del ’900 lasciò Ber­lino con i suoi cin­que figli per sfug­gire alla repres­sione della poli­zia tede­sca. Discen­dente della nume­rosa fami­glia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 per­sone in tutta Ita­lia e alcune cen­ti­naia in giro per l’Europa», Paolo Gal­liano è cre­sciuto giro­vago tra arti­sti, arti­giani e musi­ci­sti, e si è sta­bi­liz­zato a Prato solo una tren­tina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascol­tato le sto­rie dei suoi parenti dai nomi tede­schi — anche Rosen­feld, Win­ter, Hof­f­mann — impri­gio­nati nei campi di con­cen­tra­mento per zin­gari di Agnone o di Bol­zano e poi spe­diti a Mathau­sen o diret­ta­mente ad Ausch­witz. «Non è tor­nato nes­suno, solo una volta ho cono­sciuto una cugina di mio padre che aveva sul brac­cio il numero degli inter­nati e mi rac­con­tava di aver visto tutta la sua fami­glia in fila verso i forni cre­ma­tori». La parente del signor Gal­liano è una dei rari testi­moni diretti del “geno­ci­dio degli zin­gari”, mira­co­lo­sa­mente scam­pata e libe­rata dai sovie­tici nel giorno di cui ricorre domani il set­tan­te­simo anniversario.

Lo ster­mi­nio

Una sto­ria quasi sco­no­sciuta, quella del Por­ra­j­mos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricer­ca­tore di Sto­ria presso l’Università di Chieti che ha accom­pa­gnato in viag­gio gli stu­denti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popo­la­zione pre­sente nei ter­ri­tori occu­pati dal Reich in quel periodo». E «non è un con­teg­gio pre­ciso per­ché all’inizio del 1942, prima dei campi di ster­mi­nio veri e pro­pri, come gli ebrei, gli zin­gari veni­vano fuci­lati sul posto, appena arre­stati». Solo «ad Ausch­witz sono morti in 23 mila e lo sap­piamo per­ché un pri­gio­niero riu­scì a sal­vare il libro mastro dove veni­vano anno­tati i nomi delle per­sone che vive­vano nello Zigeu­ner­la­ger di Bir­ke­nau prima della sua liqui­da­zione totale, che avvenne nella notte del 2 ago­sto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».

La «razza pericolosa»

Abo­mini com­messi in nome dell’«igiene raz­ziale» garan­tita in Ger­ma­nia dalle unità del Reich dirette dallo psi­chia­tra infan­tile Robert Rit­ter che, rac­conta ancora Bravi, «dedicò anni a stu­diare la peri­co­lo­sità sociale di que­ste popo­la­zioni, indi­vi­duata in una carat­te­ri­stica ere­di­ta­ria che era l’istinto al noma­di­smo e l’asocialità». Stesse tesi soste­nute in Ita­lia dall’antropologo Guido Lan­dra, i cui “studi” soste­ne­vano le leggi raz­ziali di Mus­so­lini. Tra il 1940 e il ’43 il regime fasci­sta emana l’ordine di arre­sto di tutti i Rom e Sinti ita­liani e non, e il loro tra­sfe­ri­mento in spe­ci­fici campi di con­cen­tra­mento. «Se non fosse arri­vato l’8 set­tem­bre quelle per­sone sareb­bero sicu­ra­mente tran­si­tate verso i campi di ster­mi­nio tede­schi, i col­le­ga­menti c’erano e i docu­menti pro­vano que­sta linea­rità — spiega Bravi — Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fasci­sti salta com­ple­ta­mente, rie­scono a fug­gire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di com­pe­tenza della Repub­blica sociale, ven­gono arre­stati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathau­sen». Qual­cuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai par­ti­giani, come dimo­strano le sto­rie del pie­mon­tese sinto Amil­care Debar o di Wal­ter Vampa Cat­ter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre cir­censi, gio­strai e tea­tranti tru­ci­dati dalle Ss tra i dieci mar­tiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza».

Una memo­ria taciuta

Eppure del Por­ra­j­mos restano poche tracce nella memo­ria col­let­tiva. Per­ché, fa notare Bravi, «la memo­ria ha biso­gno di un con­te­sto sociale dispo­sto ad ascol­tare». In Ger­ma­nia, «lo ster­mi­nio raz­ziale degli zin­gari è stato rico­no­sciuto solo negli anni ’90 e il primo memo­riale è stato inau­gu­rato alla pre­senza di Angela Mer­kel vicino al Rei­ch­stag di Ber­lino solo due anni fa». In Ita­lia invece «la per­ma­nenza dello ste­reo­tipo dei Rom come nomadi, e quindi come peri­co­losi, ali­menta la poli­tica dei campi che con­ti­nua a tenere que­ste per­sone distanti, ad esclu­derle, anche dai diritti di cit­ta­di­nanza. I pre­giu­dizi di oggi sono esat­ta­mente lineari con quelli di allora». Ecco per­ché anche la ricerca sto­rica è «par­tita in ritar­dis­simo»: «Da noi i docu­menti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, gra­zie al pro­getto Memors finan­ziato dall’Unione euro­pea che ha per­messo anche l’apertura del primo museo vir­tuale ita­liano sul tema, www​.por​ra​j​mos​.it».
Eppure, con­clude Bravi, «il rac­conto del geno­ci­dio dei Sinti e dei Rom c’è sem­pre stato all’interno delle comu­nità ma dif­fi­cil­mente viene ripor­tato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il per­ché di que­sta memo­ria taciuta, e lui mi rispose: “Per­ché non vogliamo che que­sta nostra sto­ria possa essere trat­tata come spaz­za­tura, come trat­tano noi”».


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http://lacittanuova.milano.corriere.it/2015/01/28/maria-rita-e-gli-esperimenti-nazisti-sui-bimbi-rom/

28/1/2015

Rita e gli esperimenti nazisti sui bimbi Rom

Questa è una delle foto più note della follia nazifascista nei lager.

[FOTO: http://lacittanuova.milano.corriere.it/files/2015/01/Maria-Bihari-500x346.jpg ] 

Scattata nel 1941, ritrae Maria Bihari, una «zigeunerin» (zingara) di cinque anni. Conosciamo il volto di Maria – Miezi il nome con cui la chiamavano in famiglia – grazie ai cataloghi del Centro di Ricerca di Igiene Razziale del Ministero della salute nazista. Non sappiamo come sia morta, se gasata e cremata, o vittima degli esperimenti eugenetici.

Anche di Rita Prigmore, una sinti tedesca di Würzburg, non conoscevamo la storia.. La sua vita cambiò improvvisamente una sera qualsiasi mentre guidava in una stradina dello Stato di Washington. Un forte mal di testa, l’improvvisa perdita dei sensi, giusto il tempo di accendere le luci di emergenza e poi lo scontro con un palo della luce. All’ospedale i medici scrutarono le lastre, non capivano il motivo di quelle strane cicatrici sulle tempie. Rita chiamò sua madre in Germania e in un paio di giorni l’anziana donna arrivò al suo fianco e le raccontò della sua dolorosa infanzia nelle mani dei medici nazisti.
«Vivevamo in Germania da 600 anni – racconta – ed eravamo ben inseriti nella società». I nonni costruivano cesti per i viticoltori, il padre suonava il violino in una banda musicale molto affermata, la madre Theresia di giorno lavorava in una fabbrica di dolci mentre la sera era cantante e ballerina in uno dei teatri più prestigiosi della città. Racconta:

«Mio zio Kurt, il fratello maggiore di mia madre, era militare e faceva parte della squadra di motociclisti a cui spesso era chiesto di scortare il Führer. Per le sue qualità di soldato avevano deciso di promuoverlo, fu proprio nel corso delle ricerche sulla sua storia familiare che scoprirono che i genitori erano zingari: fu subito richiamato a Würzburg e venne sterilizzato. Aveva appena 25 anni».

Poco dopo, per evitare la deportazione nei lager, anche Theresia accettò la sterilizzazione:

«All’ospedale universitario – racconta Rita – si resero conto che aspettava due gemelli, me e mia sorella». Per evitare l’aborto, la costrinsero a firmare che avrebbero messo a disposizione i suoi bambini ai mdici del Reich. «Mia sorella Rolanda ed io siamo nate il 3 marzo 1943 e ci presero immediatamente».

Erano momenti terribili per i rom e sinti nei territori controllati dai nazisti: con un telespresso del 9 aprile 1942, l’Ambasciata italiana a Berlino informava Roma che «con recente provvedimento, gli zingari residenti nel Reich sono stati parificati agli ebrei e quindi anche nei loro confronti varranno le leggi antisemite attualmente in vigore». A Würzburg operava l’équipe del dottor Heyde, seguace di Mengele, specializzato negli esperimenti sui gemelli e in seguito capo del programma di eutanasia di Stato.

Alle neonate volevano cambiare il colore degli occhi e farli diventare azzurri. Dopo vari giorni, la madre riuscì a convincere un’infermiera che le mostrò Rita con un grosso cerotto sulla testa.

«Quando insistette per vedere anche mia sorella – racconta – la portò in bagno e le indicò Rolanda, con la testa fasciata. Era morta, le avevano fatto delle iniezioni di inchiostro negli occhi».

Grazie alla complicità di quell’infermiera, riuscì a scappare con la piccola sopravvissuta: «Si nascose nella cappella di Santa Rita, dove fui battezzata. Due giorni dopo, a casa ci attendeva la Gestapo. Per oltre un anno, mia madre non seppe più niente di me, finché ricevette una lettera della Croce Rossa in cui si diceva che poteva venirmi a prendere».

Dopo la guerra, la famiglia tornò a vivere nelle baracche insieme ad altri tedeschi che non erano sinti o rom, semplicemente avevano perso la casa con la guerra. L’ostilità verso il suo popolo non era finita; Rita lo racconta parlando di Erica: «Aveva la mia stessa età, andavamo insieme a scuola. Un giorno vennero a trovarci dei parenti dalla Francia: la sera ci sedemmo attorno al fuoco a prendere il caffè. Parlammo nella nostra lingua, il romanes. Il giorno dopo mi sono accorta che la mia migliore amica non parlava più con me; le chiesi perché e mi disse: “I vostri ospiti erano zingari, abbiamo sentito la vostra lingua e i miei genitori mi hanno detto che non devo aver più niente a che fare con voi”».
Cresciuta, Rita si sposò e andò a vivere negli Stati Uniti. Anni dopo, da quell’incidente ha riscoperto la storia della sua famiglia e con la Comunità di Sant’Egidio ha iniziato a girare l’Europa per testimoniare il genocidio dei rom e sinti (chiamato Porrajmos o Samudaripen). Lo sguardo della donna, che ha conservato gli occhi color verde smeraldo, è sul presente: «Sono sconvolta quando noi rom e sinti veniamo insultati con le stesse parole di allora, capita di sentirsi dire: “Nel Terzo Reich hanno dimenticato di gasarvi”».

Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria, il giorno della liberazione di Auschwitz. Nel lager nazista, c’era lo Zigeunerlager, la sezione per famiglie zingare composta da 32 baracche circondate da filo elettrico. Dobbiamo soprattutto ad alcuni testimoni ebrei, come Piero Terracina, il racconto della sua liquidazione totale, avvenuta la notte del 2 agosto 1944, quando i violini non suonarono più e, dopo grida disperate, le camere a gas zittirono quella zona del campo. Quante furono le vittime? Le stime variano, di solito si afferma siano almeno 500mila. Probabilmente è una sottostima, ma risulta impossibile conteggiare individui non segnalati all’anagrafe e spesso uccisi per strada o nelle esecuzioni sommarie all’Est. Ma la difficoltà a stabilire il numero delle vittime testimonia anche l’oblio e il disinteresse: subito dopo la guerra, su questo genocidio calò il silenzio.

Per approfondire: Giving memory a future. Rom e sinti in Italia e nel mondo, realizzato dal Centro di Ricerca sulle Relazioni Interculturali dell’Università Cattolica di Milano e dall’Usc Shoah Foundation. Il progetto è stato presentato il 27 gennaio 2015 al Senato (Giornata della Memoria) e il 16 ottobre 2013 alla Camera dei Deputati (Memoria della deportazione degli ebrei di Roma).