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1993–1999

I Nostri Inviati tra gli «Amici» dell'Uck

La Caritas modello bresciano
Una storia in cui, incredibilmente, convivono veri frati, falsi volontari e incalliti mercanti d'armi. Tutti vecchie conoscenze
di Luca Rastello - "Diario" da mercoledì 19 a martedì 25 maggio 1999
Milano – Pane amaro, marcio pane di sant'Antonio. Strano che nessuno ricordi questa sigla: «Il pane di sant'Antonio», nota copertura di traffici mortali nella guerra di Bosnia. Di solito la si trova in calce a un simbolo apparentemente pacifico con la croce e le spighe, già macchiato di sangue italiano: il sangue di Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni, assassinati il 29 maggio del 1993 sulla strada che da Gornji Vakuf porta a Novi Travnik, nella Bosnia centrale. Eppure ancora oggi, quando «Il pane di sant'Antonio» si ripresenta sulle banchine del porto di Ancona con il suo consueto carico di morte, sembrano cadere tutti dalle nuvole, a cominciare dai volontari della Caritas, che manifestano sorpresa e indignazione per l'uso indebito delle loro insegne da parte dei trafficanti. Anche l'usurpazione del nome Caritas, però, non è una assoluta novità, come sanno molto bene dalle parti di Brescia, capitale italiana della produzione d'armi e, nello stesso tempo, degli aiuti umanitari.
I fatti, quelli recenti: il 12 aprile scorso, tre grandi camion con le insegne Caritas, provenienti da Sarajevo e diretti a Scutari, in Albania, vengono fermati dalla guardia di finanza italiana al porto di Ancona. È un controllo casuale, dovuto in larga parte al ritardo nelle operazioni di carico della motonave diretta a Durazzo su cui i Tir devono essere imbarcati: i militari italiani quasi non credono ai loro occhi davanti all'arsenale che salta fuori sotto le merci, peraltro avariate, catalogate come aiuti umanitari. Due dei tre camion sono stati modificati per nascondere in appositi tramezzi uomini e armi, e dietro le patate in germoglio e il mangime per polli scaduto, spuntano cose come missili anticarro e antiaereo, mortai, lanciagranate, un cannone senza rinculo, ma anche valigette per puntamento e innesco di ordigni elettronici a distanza: trenta tonnellate di sofisticatissime attrezzature per la produzione di morte che viaggiano con i documenti dell'associazione «Il pane di sant'Antonio», organo esecutivo per gli aiuti umanitari della Caritas francescana di Sarajevo.
«Siamo stati ingannati», dice Silvio Tessari, uno dei responsabili Caritas che dall'Albania aveva telefonato al porto di Ancona sollecitando lo sdoganamento del convoglio: «Il marchio su quel camion è solo un'imitazione. Se qualcuno se ne appropria commette un atto illegale di cui non siamo responsabili».
Solo che non è la prima volta.

LA BRAVA GENTE E I FRATI.
I fatti, quelli antichi: «Il pane di sant'Antonio» è l'organizzazione diretta dal frate croato Bozo Blazevic che si occupa di smistare gli aiuti umanitari in Bosnia centrale nel corso della guerra croato-musulmana del 1993. Centro logistico delle operazioni di Blazevic e compagni è la Caritas francescana di Spalato, diretta da padre Leonard Orec, dove arrivano i convogli dall'estero, in massima parte dall'Italia. «Il pane di sant'Antonio» ha un suo agente di collegamento in Italia: la signora Spomenka Bobas, residente a Modena. Proprio Spomenka viene in contatto con un gruppo di preghiera costituitosi a Ghedi (Brescia) intorno alla figura di Giancarlo Rovati, industriale di grande prestigio nella zona che si pone il problema di intervenire in soccorso delle vittime di guerra. È la fine del 1992, il gruppo di Rovati conta cinque o sei membri, ma la volontà è forte e i mezzi non mancano: il contatto con Spomenka e i francescani d'Erzegovina fornisce l'occasione per il salto di qualità: «Grazie all'appoggio dei frati», raccontava Rovati, «eravamo in grado di servire, viaggiando ogni settimana, oltre sessanta località in Bosnia centrale». È l'inizio della primavera del 1993, le Nazioni Unite considerano la Bosnia centrale «zona instabile», eufemismo che copre i più spaventosi massacri di quegli anni, e hanno sospeso i loro convogli in quell'area.
Rovati e compagni con il pane di sant'Antonio viaggiano invece al ritmo di venti Tir la settimana. L'associazione si chiama «Caritas di Ghedi». Attenzione: non Caritas, sezione di Ghedi ma, come se fosse tutto attaccato, «Associazione Caritas di Ghedi».
«No», dice don Alberto Nolli, allora responsabile della Caritas di Brescia, «non erano Caritas, ma era brava gente e permettevamo loro di usare quel nome. Sa, a quel tempo era un po' come un lasciapassare, aiutava...». Ecco come fu che il nome dell'associazione di Rovati dovette cambiare. Il 29 maggio del 1993 un piccolo convoglio di un gruppo di volontari bresciani viene contattato a Spalato da Spomenka Bobas e padre Orec. Poiché vanno in Bosnia centrale, i religiosi li pregano di consegnare quattro pacchi a Vitez: con questa scusa li forniscono di documenti con il marchio del pane di sant'Antonio, un po' come se firmassero l'ignara spedizione dei bresciani. A fare da garante è Fabio Moreni, che collabora con Rovati da qualche settimana e ora accompagna i bresciani nel loro viaggio. Poche ore dopo, appena transitati da Gornji Vakuf, i cinque bresciani vengono intercettati da una banda di irregolari bosniaci che sequestra il carico e i documenti e uccide a freddo Moreni insieme a Sergio Lana e Guido Puletti.
Stranamente è presente in zona proprio padre Blazevic, il capo dell'organizzazione francescana che si trova a Gornji Vakuf per contrattare con il comandante bosniaco Goran Cisic il rilascio di un altro convoglio marcato pane di sant'Antonio, ben più consistente di quello bresciano, da un paio di giorni sotto sequestro. Blazevic non si fa vedere dai volontari che ha segnato con il proprio marchio mentre vanno alla morte. Ma non si turba più di tanto: sei mesi dopo, alla testa di un grande convoglio, viene fermato su quella stessa strada, nello stesso punto dove erano stati intercettati i bresciani, al canyon di Opara. È il 22 dicembre 1993, a fermare il convoglio è il comandante Goran Cisic, l'interlocutore di padre Blazevic: la vecchia trattativa è andata a buon fine, dato che Cisic non si scompone quando sotto i generi alimentari chiamati «aiuto umanitario» saltano fuori i soliti lanciarazzi, mortai a treppiede eccetera. Si limita ad arrestare i due giornalisti italiani involontariamente testimoni dei traffici in corso - sono Ettore Mo ed Eros Bicic - e lascia ripartire
il carico verso la zona controllata dai croati a cui era diretto. La morte dei tre ignari volontari italiani era probabilmente un segnale nel linguaggio tipico di questo tipo di trattative, un messaggio in codice fra soci in affari che non si sono ancora messi bene d'accordo e forse vogliono alzare il prezzo.

LE VIE DELLA CONNIVENZA.
Guido, Sergio e Fabio sono morti, padre Blazevic, amico personale del presidente Tudjman, è parroco a Okucani in Slavonia e minaccia in nome della sicurezza nazionale croata chi prova a tirarlo in ballo, Rovati è una potenza intercontinentale degli aiuti umanitari e spedisce convogli in tutto il mondo, dal Perù al Burundi alla Romania: è comparso alla televisione italiana, a Pinocchio, dove è stato definito «il volto pulito dell'Italia, quello che ci piace guardare». Ha continuato anche a lavorare con i frati d'Erzegovina, ed è tornato a Gornji Vakuf, per progetti di ricostruzione e per portare il suo perdono agli assassini di allora. Ovviamente la sua associazione non si chiama più Caritas di Ghedi: il nome nuovo è «Associazione 29 maggio», i nomi delle tre vittime compaiono sui teloni dei Tir in partenza per i cinque continenti.
Strana storia, quella del pane marcio di sant'Antonio, e triste storia, quella della leggerezza con cui si instaurano relazioni pericolose quando a legittimare i gesti avventati è la ragione umanitaria. L'interesse per il volontariato non sempre risponde a nobili ragioni, e l'uso strumentale delle azioni di pace da parte di strateghi e profittatori di guerra è ormai la regola, non più l'eccezione. In queste condizioni l'ingenuità è semplicemente un placido modo della connivenza. Anche se, magari, sulle strade dello sforzo di pace si verificano formidabili conversioni, come quella dell'ex maresciallo Germano Tessari, ben noto ai lettori di Diario della settimana (1999, numero 15) per il suo coinvolgimento nei processi sui traffici d'armi del Sisde in Val di Susa. Proprio a Scutari, centro della missione in Albania della Diocesi di Susa, Tessari si è recato in passato a portare aiuti umanitari e mezzi da trasporto. Se lo ricorda bene una suora della Fondazione Monsignor Rosaz, a Susa. La polizia italiana segnala, fra l'altro, il transito a Valona di mezzi pesanti recanti, magari abusivamente, il marchio della Sitaf, la società delle autostrade del Fréjus, di cui l'ex maresciallo è stato a lungo consulente per la sicurezza, negli anni degli attentati e dei miliardi pubblici intascati da comitati d'affari in vario modo legati all'azienda. Come si convertono gli individui si convertono anche le grandi aziende.
Ma di quando in quando qualche pecorella smarrita si fa cogliere in flagrante, sulle banchine di Ancona, intenta ai vizi d'un tempo.

©diario della settimana


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Per i servizi segreti americani l'Uck è legato alla mafia albanese e autofinanzia la guerriglia con il traffico di eroina

La via della droga passa per il Kosovo
Intanto i "basisti" dell'Esercito di liberazione hanno trasformato Bari nel loro quartier generale
di Elisa Carcano - La Padania, 4 maggio 1999

Non c'è nessun nuovo indagato nell'inchiesta condotta dal sostituto procuratore della Repubblica di Ancona Cristina Tedeschini sui tre tir bloccati dalla Guardia di Finanza e dalla dogana nel porto di Ancona lo scorso 12 aprile (ma la notizia del sequestro è stata data solo l'altro giorno): seppur carichi d'aiuti umanitari per i profughi del Kosovo, i camion trasportavano nei doppifondi un enorme carico d'armi diretto all'Uck. Al centro dell'interesse del magistrato ci sarebbe per ora la figura di un prete, probabilmente coinvolto nella vicenda. I tre tir viaggiavano sotto le insegne dell'organizzazione umanitaria "Kruh Svetog Ante" (Il pane di Sant'Antonio) di Sarajevo ed erano diretti, secondo la bolla d'accompagnamento, alla "Caritas" di Scutari (che però si è chiamata fuori dicendo "quei camion non sono nostri"). Il religioso potrebbe essere o l'ultimo destinatario, in Albania, dell'ingente quantitativo di armi ritrovato sui tre tir o il penultimo intermediario, sempre albanese, in grado di indicare a chi, nel territorio controllato dall'Uck, avrebbe dovuto essere consegnato alla fine le armi. Un vero e proprio arsenale, con armi anche sofisticate, di cui facevano parte fra l'altro cinque valigette per puntamento e innesco elettronico a distanza di ordigni, missili anticarro e antiaereo, armi con puntamento laser, bazooka, mortai, munizioni, esplosivi - in gran parte dell'ex Urss e dell'ex Jugoslavia - mitragliatrici belghe, cinesi e americane e un gran numero di granate Usa. Il presidente dell'organizzazione umanitaria mittente, padre Stipo Karajica, ha già dichiarato, attraverso il proprio procuratore legale ad Ancona, che la "Kruh Svetog Ante" è totalmente all'oscuro delle armi e che ha solamente provveduto alla raccolta degli aiuti affidandone l'invio a terzi. Quanto ai tre autisti, bosniaci (ma uno di loro ha un cognome tedesco), sono ancora in carcere ad Ancona.

Da Ancona spostiamoci a Bari, diventata importante snodo di guerriglieri dell'Uck. Nel porto della città pugliese sono infatti dislocati i basisti dell'Esercito di liberazione del Kosovo che assistono i combattenti, acquistano per loro i biglietti di viaggi, forniscono cibo e acqua, provvedono al trasporto dei volontari dalla stazione ferroviaria al porto. Un'organizzazione, si direbbe, svizzera. Come svizzera è l'originaria appartenenza dei trenta camion militari bloccati dalla Guardia di Finanza a Bari. Guidati da autisti kosovari, gli automezzi sono in attesa dell'autorizzazione necessaria alla partenza per Durazzo: trasportano sì generi alimentari ed altri aiuti umanitari, ma una volta in Albania

non sarebbero più utilizzati come spola per gli aiuti e rimarrebbero invece a disposizione dell'Uck a scopi militari. Finora, nel giro di quattro settimane, sono passati dal porto di Bari tremila combattenti kosovari: si imbarcano su traghetti di linea diretti a Durazzo, da qui poi raggiungono il confine con il Kosovo per combattere contro i serbi. Secondo la Guardia di Finanza il flusso è molto cambiato negli ultimi giorni: da una fase caratterizzata da una "chiamata alle armi" per certi versi spontanea, si è passati ad un vero e proprio viaggio verso il fronte organizzato nei minimi particolari. Nei primi giorni, per esempio, decine di uomini si presentavano già in tuta mimetica nel capoluogo pugliese, ora invece per non destare eccessivamente l'attenzione delle forze di polizia, proprio i "basisti" hanno disposto che i volontari dell'Uck vengano in borghese.
Intanto in America mostra la corda il fronte pro guerriglieri: ai due parlamentari Usa che vorrebbero armarli e finanziarli con i soldi dei contribuenti (il repubblicano Mitch McConnell e il democratico Joseph Lieberman), il "Washington Post" replica, citando documenti dell'intelligence statunitense e di altri paesi, con un articolo in prima pagina secondo cui l'Uck "è un'organizzazione terroristica che trae gran parte delle sue risorse dal traffico di eroina". Secondo questi documenti, agenti antidroga di cinque nazioni (tra cui gli Usa) ritengono che l'Uck abbia stretti legami con il crimine organizzato albanese, responsabile del traffico di eroina e cocaina verso i mercati europei occidentali e, in misura minore, verso gli Stati Uniti. La "mafia albanese", scrive ancora il giornale, è legata ad un'organizzazione per il narcotraffico con base a Pristina in Kosovo, e ha tra i suoi capi diversi responsabili del Fronte nazionale del Kosovo, il braccio politico dell'Uck. Questo cartello sarebbe oggi uno dei più potenti del mondo, e gran parte dei suoi proventi servirebbero a finanziare le armi dell'Uck.
La "rotta" dell'eroina gestita dagli albanesi del Kosovo attraversa Grecia, Jugoslavia, Turchia e Bulgaria, è chiamata dagli agenti dell'antidroga, "la strada dei Balcani". Il 75% dell'eroina sequestrata in Europa lo scorso anno ha seguito questa rotta. "Un anno fa erano semplici terroristi ed ora, per politica, sono diventati combattenti per la libertà", ha dichiarato al quotidiano un agente antidroga americano.





8 marzo 1994

Il carico di armi della nave Jadran Express, destinato alle milizie croate, fu sequestrato nel 1994 nel Canale di Otranto.

Furono rari all'epoca tali sequestri; molte di più furono le navi che passando per i nostri mari raggiunsero i destinatari – sempre solo croati, nostri grandi alleati cattolici. Secondo la Dia sarebbero state almeno 22 le navi cariche di armi che, tra il 1992 e il 1994, attraversarono le acque italiane, prima di approdare in Croazia.
Dafermos è stato bloccato a Istanbul: l'uomo si è dichiarato consulente ufficiale del governo della Croazia, e il suo arresto ha scatenato una violenta protesta diplomatica.
Le armi sequestrate alla Jadran Express furono stipate alla Maddalena, dove comunque non sono nella disponibilità dell’Italia, ma della NATO.
Né sono rimaste tutte lì in questi anni ad arrugginire: ad esempio, già il 18 maggio 2011 un grande quantitativo è stato trasportato su quattro container imbarcati segretamente sulla nave passeggeri [sic!] Seremar da Olbia a Civitavecchia, dopodiché se ne sono... perse le tracce.

In realtà la destinazione di quelle armi è un segreto di Pulcinella, poiché tutti sappiamo che anch'esse sono generosamente andate ad insanguinare il Medioriente, e precisamente nelle mani dei vezzeggiatissimi "ribelli di Bengasi", i quali dopo avere ucciso Gheddafi tramite linciaggio tuttora (2014) usano le stesse armi per alimentare la carneficina in corso in Libia e produrre naufraghi a Lampedusa.

Non contenti del disastro provocato in Libia con l'aggressione del 2011, i governanti italiani nell'estate del 2014 hanno annunciato che parte delle armi rimanenti del carico della Jadran Express saranno "generosamente" passate ai curdi di Barzani e Talabani (cioè ai curdi di destra).

(a cura di Italo Slavo. Vedi anche:

Armi italiane alla Libia, storia segreta/1
Dopo le rivelazioni di Globalist. Armi provenienti da altre guerre che andavano distrutte, e la stupidità degli "spedizionieri" (giovedì 27 ottobre 2011)
e Armi italiane alla Libia, storia segreta/2
Quel carico di armi sequestrato durante la guerra nella ex Jugoslavia che prende la rotta verso il sud Mediterraneo, tra Sirte e Tripoli (domenica 30 ottobre 2011)
di Sergio Finardi, direttore del centro internazionale di ricerca TransArms (Chicago, USA) – inchiesta pubblicata per la prima volta da Altreconomia, nel blog "I signori delle guerre".

Il mistero della Maddalena
di Eugenio Roscini Vitali, 22/7/2011 )
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Le rotte segrete delle navi della morte negli anni ’90

Il pentito della ’ndrangheta Fonti ha parlato ai magistrati di altri viaggi della Jadran Express

06/06/2011 – LA MADDALENA. Anni bui, di traffici e di trame, gli anni Novanta. Le armi sequestrate al petroliere Zhukov vengono da quella stagione nella quale le acque del Mediterraneo erano solcate da navi-cargo cariche di fucili, razzi, bombe e scorie nucleari. Un commercio oscuro che alimentava guerre sanguinose ai Africa e nei Balcani e risolveva i problemi di spregiudicate aziende che smaltivano rifiuti tossici a basso costo. Con le inconfessabili complicità dei servizi segreti di molti governi.
La Jadran Express, per esempio, non fece solo quel viaggio nel quale, nel marzo del ’94 venne bloccata nello Stretto di Otranto. Ne parla infatti anche il superpentito della ’ndrangheta Francesco Fonti che ha raccontato alla magistratura il grande business delle armi e delle scorie.
Così disse Fonti: «Le armi erano 75 casse di kalashnikov, 25 casse di munizioni e 30 di mitragliette Uzi. All’inizio del 1993 furono caricate in Ucraina, dalla fabbrica “Ukrespets Export”, a Odessa, a bordo della nave Jadran Express che batteva bandiera maltese, affittata per mio conto..... La Jadran Express fece scalo a Trieste, dove le armi furono quindi caricate su due camion e trasferite nel porto di La Spezia, luogo in cui furono trasbordate dentro un capannone portuale, in attesa di essere reimbarcate sulla nave Mohamuud Harbi».
Le armi finirono poi in Somalia e consegnate alla fazione di Ali Mahdi. Era i traffici sui quali stava indagando la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi, assassinata a Mogadiscio il 20 marzo del 1994.
In questi oscuri affari sembra essere entrata un’altra nave, la Lucina, che nel luglio del 1994 fu teatro di una terribile mattanza nel porto di Djendjen, in Algeria: i sette uomini dell’equipaggio vennezo sgozzati e sparirono 600 tonnellate di carico. Secondo alcuni testimoni oculari, quella nave era a Capo Ferrato, in Sardegna, il 2 marzo del ’94, quando sparì un elicottero della finanza con due militari a bordo. Forse fu abbattuto.
Ma la storia di queste navi della morte viene continuamente cancellata e riscritta. Semplicemente cambiando nome. La Jadran Express, per esempio, oggi si chiama Hrvatska e batte bandiera croata. E la Lucina, dopo essersi stata chiamata Pepito oggi è la Joanne I e batte bandiera panamense. (p.m.)





20 marzo 1994

A Mogadiscio, Ilaria Alpi e Miran Hro­va­tin sono eliminati dopo che hanno scoperto il traffico di armi della “21 Oktoobar”, l’ammiraglia della flotta Schifco, verso la Croazia.

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IL DOCUMENTO: Ilaria Alpi - L'ultimo viaggio (Speciale di RAI3 del 11/04/2015)
Sono passati ventuno anni dalla morte di Ilaria Alpi, giornalista Rai e del suo operatore Miran Hrovatin, uccisi in un agguato a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Da allora molti misteri, molti depistaggi, hanno tenuta nascosta la verità sui mandanti, sugli esecutori materiali, sul movente di quel sangue. "Ilaria Alpi – L'ultimo viaggio" prova ad accendere qualche nuova luce sull'inchiesta che Ilaria stava facendo in Somalia sul traffico internazionale di armi, ora che nuovi documenti sono stati de-secretati e nuove testimonianze acquisite. Cosa aveva scoperto Ilaria Alpi durante il suo ultimo viaggio? Che cosa le è stato impedito di raccontarci con quell'ultimo agguato a Mogadiscio? Una docu-fiction di Claudio Canepari prodotta da Rai Fiction in collaborazione con Magnolia. (VIDEO)

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La scottante verità di Ilaria Alpi
di Manlio Dinucci su Il Manifesto del 09.06.2015 (rubrica "L'arte della guerra")
La docu­fic­tion «Ila­ria Alpi – L’ultimo viag­gio» (visi­bile sul sito di Rai Tre [ http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-77f45782-2361-40cd-a00a-1ede256a8794.html ]) getta luce, soprat­tutto gra­zie a prove sco­perte dal gior­na­li­sta Luigi Gri­maldi, sull’omicidio della gior­na­li­sta e del suo ope­ra­tore Miran Hro­va­tin il 20 marzo 1994 a Moga­di­scio. Furono assas­si­nati, in un agguato orga­niz­zato dalla Cia con l’aiuto di Gla­dio e ser­vizi segreti ita­liani, per­ché ave­vano sco­perto un traf­fico di armi gestito dalla Cia attra­verso la flotta della società Schi­fco, donata dalla Coo­pe­ra­zione ita­liana alla Soma­lia uffi­cial­mente per la pesca.
In realtà, agli inizi degli anni Novanta, le navi della Shi­fco erano usate, insieme a navi della Let­to­nia, per tra­spor­tare armi Usa e rifiuti tos­sici anche radioat­tivi in Soma­lia e per rifor­nire di armi la Croa­zia in guerra con­tro la Jugoslavia.
Anche se nella docu­fic­tion non se ne parla, risulta che una nave della Shi­fco, la 21 Oktoo­bar II (poi sotto ban­diera pana­mense col nome di Urgull), si tro­vava il 10 aprile 1991 nel porto di Livorno dove era in corso una ope­ra­zione segreta di tra­sbordo di armi sta­tu­ni­tensi rien­trate a Camp Darby dopo la guerra all’Iraq, e dove si con­sumò la tra­ge­dia della Moby Prince in cui mori­rono 140 persone.
Sul caso Alpi, dopo otto pro­cessi (con la con­danna di un somalo rite­nuto inno­cente dagli stessi geni­tori di Ila­ria) e quat­tro com­mis­sioni par­la­men­tari, sta venendo alla luce la verità, ossia ciò che Ila­ria aveva sco­perto e appun­tato sui tac­cuini, fatti spa­rire dai ser­vizi segreti. Una verità di scot­tante, dram­ma­tica attualità.
L’operazione «Restore Hope», lan­ciata nel dicem­bre 1992 in Soma­lia (paese di grande impor­tanza geo­stra­te­gica) dal pre­si­dente Bush, con l’assenso del neo-presidente Clin­ton, è stata la prima mis­sione di «inge­renza umanitaria».
Con la stessa moti­va­zione, ossia che occorre inter­ve­nire mili­tar­mente quando è in peri­colo la soprav­vi­venza di un popolo, sono state lan­ciate le suc­ces­sive guerre Usa/Nato con­tro la Jugo­sla­via, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria e altre ope­ra­zioni come quelle in corso nello Yemen e in Ucraina.

Pre­pa­rate e accom­pa­gnate, sotto la veste «uma­ni­ta­ria», da atti­vità segrete. Una inchie­sta del New York Times (24 marzo 2013 [ http://www.nytimes.com/2013/03/25/world/middleeast/arms-airlift-to-syrian-rebels-expands-with-cia-aid.html?_r=1 ]) ha con­fer­mato l’esistenza di una rete inter­na­zio­nale della Cia, che con aerei qata­riani, gior­dani e sau­diti for­ni­sce ai «ribelli» in Siria, attra­verso la Tur­chia, armi pro­ve­nienti anche dalla Croa­zia, che resti­tui­sce così alla Cia il «favore» rice­vuto negli anni Novanta.
Quando il 29 mag­gio scorso il quo­ti­diano turco Cum­hu­riyet ha pub­bli­cato un video che mostra il tran­sito di tali armi attra­verso la Tur­chia, il pre­si­dente Erdo­gan ha dichia­rato che il diret­tore del gior­nale pagherà «un prezzo pesante».
Ven­tun anni fa Ila­ria Alpi pagò con la vita il ten­ta­tivo di dimo­strare che la realtà della guerra non è solo quella che viene fatta appa­rire ai nostri occhi.
Da allora la guerra è dive­nuta sem­pre più «coperta». Lo con­ferma un ser­vi­zio del New York Times (7 giu­gno [ http://www.nytimes.com/2015/06/07/world/asia/the-secret-history-of-seal-team-6.html ]) sulla «Team 6», unità super­se­greta del Comando Usa per le ope­ra­zioni spe­ciali, inca­ri­cata delle «ucci­sioni silen­ziose». I suoi spe­cia­li­sti «hanno tra­mato azioni mor­tali da basi segrete sui calan­chi della Soma­lia, in Afgha­ni­stan si sono impe­gnati in com­bat­ti­menti così rav­vi­ci­nati da ritor­nare imbe­vuti di san­gue non loro», ucci­dendo anche con «pri­mi­tivi tomahawk».
Usando «sta­zioni di spio­nag­gio in tutto il mondo», camuf­fan­dosi da «impie­gati civili di com­pa­gnie o fun­zio­nari di amba­sciate», seguono coloro che «gli Stati uniti vogliono ucci­dere o catturare».
Il «Team 6» è dive­nuta «una mac­china glo­bale di cac­cia all’uomo». I kil­ler di Ila­ria Alpi sono oggi ancora più potenti. Ma la verità è dura da uccidere.


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Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Da: Luigi Grimaldi <grimaldipress @ gmail.com>
Oggetto: Contributo di Luigi Grimaldi. Richiesta Ospitalità per pubblicazione on line
Data: 14 giugno 2015 13:45:54 CEST


ILARIA ALPI E LA CIA: COSE DI COSA NOSTRA E COSA LORO

di Luigi Grimaldi
In relazione all'importante articolo di Manlio Dinucci pubblicato sul Manifesto del 9 giugno (La scottante verità di Ilaria Alpi http://ilmanifesto.info/la-scottante-verita-di-ilaria-alpi/ ), molto ripreso e dibattuto in rete, in cui sono citato come consulente della docu-fiction di Rai 3 "Ilaria Alpi L'Ultimo Viaggio", vorrei esprimere la mia opinione.

Un esercizio molto di moda nel nostro paese, a cominciare dal "lavoro" di Carlo Taormina, in relazione al caso Alpi Hrovatin, è quello della destrutturazione del lavoro di ricerca e analisi di chi cerca la verità, senza pretendere di possederla. In inglese "debunkers", specialità tipica di coloro che accusano di dietrologia e complottismo chi mette in discussione le affermazioni di noti bugiardi. Ognuno è libero di avere le proprie opinioni e di criticare, ma anziché baloccarsi a discettare su ciò che non è il "caso" in questione (esercizio troppo facile in assenza di argomentazioni fattuali) ci si dovrebbe esercitare su ciò che è stato e che è il caso Alpi Hrovatin. Ci si  esponga insomma se si vuole intervernire. Per me la questione di fondo è e rimane il ruolo della Cia nella vicenda Alpi. Più di qualcuno, certamente in buona fede, ma in modo miope, continua a sostenere che un coinvolgimento della Cia nel delitto di Mogadiscio sarebbe un comodo schermo per le responsabilità italiane. Non è così. Ritengo sia un distinguo inconsistente . E' chiaro che nulla di quanto è accaduto in Somalia, traffici di armi e rifiuti, ma non solo, sarebbe stato possibile senza un attivo coinvolgimento dei servizi italiani e della politica. Ma dov'è il confine tra intelligence italiana e USA? Non c'è! Perché la Somalia era "Cosa Nostra", fin dai tempi delle colonie dell'impero.... Notizia ben chiara anche alla CIA che al momento di attivare la propria cellula a Mogadiscio (nell'agosto del 1993) affianca al capo stazione un particolare agente: non uno che parli il somalo o l'arabo, ma Gianpaolo Spinelli: perché di origini italiane, perché parla italiano e perché da anni è l'agente di collegamento tra la CIA e il Sismi a Roma (lo ritroveremo nel caso Abu Omar a Milano e nello scandalo sullo spionaggio Pirelli-Telecom-Sismi al fianco di Mancini e Tavaroli). Dov'è quindi la contraddizione??? Dov'è il problema? Se la Somalia era "Cosa Nostra", nel senso dell'Italia, i nostri servizi (o una fazione all'interno di questi) sono da sempre "cosa loro", nel senso dell'intelligence USA. E allora tutto si spiega: mi riferisco in particolare agli ostacoli giudiziari all'accertamento della verità, come il caso Gelle o i molti depistaggi a cui in questi anni abbiamo assistito e che hanno dimostrato una intensità, una continuità e un livello mai visti se non per casi come Ustica, la strage di Bologna, il Moby Prince. Sin dal primo giorno dopo il delitto (chi conosce "le carte" lo sa) si è depistato per accreditare la tesi della rapina e escludere il delitto su commissione, che invece prevede dei moventi: e chi compie questo gioco di prestigio? Unosom, la cellulla dei Servizi di informazione di Unosom. E chi è Unosom? Unosom è "cosa loro", la finta uniforme degli USA per le cosiddette operazioni di ingerenza umanitaria a suon di carri armati e di missili.Un coinvolgimento mosso da “necessità nazionali” o maturate in ambito Nato? Ci sono indizi sufficienti e documentabili oltre ogni incertezza per affermare che il duplice delitto di Mogadiscio sia stato, per dirlacon le parole di Luciana Alpi, la mamma di Ilaria, concordato.Concordato in più sedi e a più livelli, all'interno di uno scacchiere internazionale ben definito e circostanziato che appare abbastanza evidente analizzando il contesto storico in cui matura. La contemporaneità della guerra nella ex Yugoslavia in primo luogo, il lavorio per predisporre l'ingresso di paesi dell'ex blocco comunista nella Nato (come Polonia e Lettonia), i rapporti, che definire contraddittori è davvero poca cosa, tra blocco occidentale e paesi musulmani (leggi Afganistan e Yemen), sono elementi che costantemente emergono se si analizza con lucidità la vicenda nel suo complesso, guardando l'orizzonte senza limitarsi a far la guardia al recinto dell'orto. La verità sul caso Alpi fa ancora paura dopo 21 anni e quanto si è messo in campo per impedire che venisse alla luce, ivi comprese le inutili conclusioni della commissione presieduta con disinvoltura da Carlo Taormina e sostenute dalla maggioranza di centro destra (anche se a dire il vero la “sinistra” non ha brillato), la dice lunga sul livello delle responsabilità che ancora devono essere coperte. Le prove ci sono. Il quadro è chiaro. Il disegno leggibile: basterebbe che ognuno facesse la sua parte fino in fondo.


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“UN TRAFFICO D’ARMI PER CONTO DELLA CIA”: L’ULTIMA VERITÀ SU ILARIA E MIRAN
Un’imboscata per eliminare due cronisti che facevano domande scomode. Le rivelazioni sulla morte della Alpi e di Hrovatin in una docu-fiction su Rai 3.
di DANIELE MASTROGIACOMO, su
La Repubblica del 10/4/2015
NESSUNA rapina o tentativo di sequestro. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono caduti in un’imboscata. Un agguato studiato nei dettagli per mettere a tacere due giornalisti diventati troppo pericolosi. Grazie ad una soffiata della parte dei Servizi italiani rimasta legata al signore della guerra Mohammed Farah Aidid, il Tg3 della Rai avrebbe raccolto sufficienti indizi per smascherare un traffico d’armi clandestino portato avanti da due noti broker internazionali: il siriano Monzer al-Kassar e il polacco Jerzy Dembrowski. Il tutto in un territorio controllato dall’altro signore della guerra somalo, Mohammed Ali Mahdi, su cui avevano puntato gli Usa. Un traffico svolto per conto della Cia e gestito dalla flotta della società Schifco, donata dalla Cooperazione italiana alla Somalia per incrementare l’industria peschiera nell’Oceano Indiano del Corno d’Africa. Non è facile rievocare l’assassinio di Ilaria e Miran. Soprattutto dopo 21 anni da quella tragica esecuzione, avvenuta il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio. E’ stata esplorata in otto processi, indagata da quattro Commissioni parlamentari e conclusa, almeno da un punto di vista giudiziario, con una condanna a 26 anni nei confronti di un cittadino somalo, Hashi Omar Assan, che molti credono innocente.
Con una docu-fiction elaborata in oltre un anno di indagini che andrà in onda sabato prossimo su Rai 3 alle 21,30, gli sceneggiatori Claudio Canepari e Massimo Fiocchi, per una produzione Magnolia, sono riusciti a ripercorrere gli ultimi mesi di lavoro e di vita di Ilaria Alpi. Con il titolo “Ilaria Alpi  -  L’ultimo viaggio “, realizzato anche da Mariano Cirino e Gabriele Gravagna e raccontato dall’inviata Lisa Iotti, il video si snoda in un racconto chiaro, dal ritmo battente, con immagini del tutto inedite sui 200 giorni trascorsi in Somalia dalla giornalista del Tg3. Grazie alle riprese conservate dall’operatore Rai Alberto Calvi che ha sempre seguito con Ilaria l’operazione Restore Hope, rinunciando all’ultima, fatale missione, si scopre il lavoro costante della collega.

Solo la lettura degli atti desecretati, assieme alle testimonianze dello stesso Calvi, di Franco Oliva, l’ex funzionario della Farnesina spedito in Somalia per mettere ordine nell’attività della Cooperazione e vittima a sua volta di un attentato a cui è scampato per miracolo, il lavoro di Ilaria e Miran prende corpo e forma. Le rivelazioni di un ex appartenente alla “Gladio”, rete clandestina anticomunista, riempiono infine quei vuoti che né la magistratura né la Commissione di indagine erano riuscite a colmare, aprendo la strada all’agguato per rapina o sequestro.
Con uno scoop finale, grazie al contributo del giornalista Luigi Grimaldi. Quello che fa intuire il movente di un duplice omicidio. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si erano avvicinati troppo ad un traffico che doveva restare segreto: riguardava anche la spedizione in Somalia di una partita di 5000 fucili d’assalto e 5000 pistole da parte degli Usa. Ufficialmente. Ma in realtà, attraverso una triangolazione che aggirava l’embargo decretato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel 2002, una partita destinata alla neonata federazione croata-bosniaca durante la guerra nell’ex Jugoslavia.
Due differenti carichi, trasferiti da navi della Lettonia a navi della Shifco sempre al largo della Somalia, sono segnalati in due rapporti delle Nazioni Unite del 2002 e del 2003. Il primo avviene il 14 giugno del 1992; il secondo nel marzo del 1994: è identico a quello registrato a bordo della “21 Oktoobar”, l’ammiraglia della flotta Schifco, la cui rotta è tracciata dai Lloyds fino al porto iraniano di Bandar Abbas. Di qui, avrebbe preso il largo verso la Croazia a bordo di un’altra nave. Ilaria a Miran moriranno pochi giorni dopo.
La “Farax Oomar”, l’altra nave della Schifco, con a bordo 2 italiani e ormeggiata a Bosaso su cui indagava la giornalista Rai, era ostaggio del clan di Ali Mahdi. Serviva come garanzia del pagamento della tangente per il traffico d’armi Usa-Italia destinato a Zagabria. Ilaria Alpi ignorava tutto questo. Ma aveva dei sospetti. Cercò di chiarirli nella sua ultima intervista al sultano di Bosaso: gli chiese se la “Farax Oomar” ormeggiata in porto era sotto sequestro. Una domanda fatale.
Nella docu-fiction basta osservare la reazione del capo tribù. Ilaria e Miran verranno attirati in una trappola con una telefonata di cui si ignora l’autore. Lasciano il loro albergo e si avventurano nella parte sud di Mogadiscio per raggiungere l’hotel Amana. Fanno qualcosa che non avrebbero mai fatto se non davanti a qualcosa di eccezionale. Dopo un agguato verranno freddati entrambi con un colpo alla nuca. Una vera esecuzione. Per mettere fine a quella curiosità e al riparo un segreto imbarazzante.




1995–1996

Maggio 1996: a Minorca viene trovato impiccato l'inviato di Le Figaro Xavier Gautier, 35 anni. Le circostanze della morte sono misteriose. Si occupava del traffico di armi e mercenari tra Italia, Austria, Somalia, Croazia e Bosnia. Del quale era probabilmente informato anche Marco Mandolini, parà morto il 13 giugno precedente.

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TROPPI DUBBI SUL PRESUNTO SUICIDIO DELL' INVIATO DI LE FIGARO. NEL CASO SAREBBE COINVOLTO ANCHE UN MERCENARIO ITALIANO
di Ulderico Munzi, sul Corriere della Sera del 22 maggio 1996
Il giallo di Xavier, penna anti armi
Impiccato il reporter che denuncio' le forniture militari all' ex Jugoslavia
In una sua inchiesta la mappa del traffico tra Italia, Austria, Croazia e Bosnia
Il precedente di un giornalista inglese
PARIGI . Avvolta nel mistero, la morte violenta del giornalista Xavier Gautier, 35 anni, angoscia tutti i suoi colleghi del "Figaro", di cui era uno dei piu' validi inviati speciali. Suicidio o omicidio? Per ora, non c' e' alcuna risposta, anche perche' il fatto si e' svolto a Ciudadela, nell' isola di Minorca, alle Baleari. La seconda ipotesi, quella dell' omicidio, puo' essere giustificata solo dalle inchieste svolte da Xavier Gautier nell' ex Jugoslavia: aveva indagato, sul finire del 1994, sul traffico di armi in favore di bosniaci e croati. Un traffico in cui si distinguevano austriaci e italiani e, a quanto pare, si delineava la figura di un misterioso mercenario, nostro connazionale. Un articolo molto dettagliato di Gautier era apparso sul Figaro del 6 gennaio 1995. I parenti del giornalista, soprattutto il padre e la sorella, sono convinti che Xavier sia stato assassinato. Una circostanza strana: qualche altro giornalista, che si era interessato del traffico di armi, come l' inglese Jonathan Moyle in Cile, ha trovato la morte per impiccagione. Ma procediamo con ordine. Il corpo e' stato scoperto da un amico domenica scorsa. Apparentemente, Gautier si era tolto la vita stringendosi una corda al collo dopo averla assicurata a una trave del soffitto. La villa che aveva affittato e' situata in una zona abbastanza isolata di Ciudadela. Sul muro esterno e' stata trovata una scritta in italiano: "Traditori, diavoli rossi". E queste parole fanno sorgere i primi dubbi sul suicidio, dubbi che non sono condivisi dalla polizia locale. Le parole sono state vergate da qualcuno che ha usato la mano destra. Di corporatura robusta, il giornalista era mancino. Ancora un fatto sconcertante: le sue mani erano legate, i suoi piedi strusciavano sul pavimento e sulla sua camicia, tracciate con precisione, c' erano alcune croci. Il giudice spagnolo Jose' Maria Escrivano, secondo alcune fonti, e' ancora incerto sulle cause della morte di Xavier Gautier. In sostanza, sarebbe propenso a credere all' ipotesi dell' omicidio. Dopo aver passato molto tempo in Medio Oriente e poi nell' ex Jugoslavia, il giornalista poteva essere in preda a una forma di depressione? La sua ex moglie, che abita a Mahon, sempre nell' isola di Minorca, dice di averlo incontrato venerdi' sera di ritorno da Barcellona e di averlo trovato in condizioni normali. Era in attesa di un contratto da un editore spagnolo. Approfittando di un anno sabbatico, Xavier s' era impegnato a scrivere la biografia di un rocker americano e sembrava ormai essersi distaccato dall' esperienza bosniaca, sulla quale aveva anche scritto tre libri. Com' e' saltata fuori la "presenza" del mercenario italiano? Pare che Gautier ne abbia parlato in passato e anche di recente con la moglie e con alcuni amici. E il personaggio sarebbe conosciuto anche negli ambienti diplomatici di Parigi. Il padre e la sorella di Xavier giungeranno oggi a Ciudadela. Vogliono incontrare il giudice Escrivano per convincerlo, in base ad elementi in loro possesso, che il loro congiunto e' stato ucciso. Quali sono gli indizi in favore del suicidio? Uno di essi appare importante. Gautier avrebbe comprato la corda con la quale aveva deciso d' impiccarsi. E' stato trovato lo scontrino nelle sue tasche. Ma, come ci fa osservare il rappresentante consolare francese alle Baleari, chiunque puo' averglielo messo nelle tasche. A detta di altri testimoni, il giornalista del Figaro, negli ultimi tempi, dava l' impressione d' essere tormentato. Viveva in una casa senza luce elettrica e si mostrava scontroso nei rapporti con la gente. Si puo' dedurre che era depresso? Certo, come si si puo' dedurre il contrario, ossia che temeva per la sua vita. I poliziotti spagnoli sostengono che la morte e' avvenuta per rottura delle vertebre cervicali e che Xavier s' era legato le mani per evitare di sciogliere i nodi del cappio nel momento estremo. Ma perche' mai avrebbe scritto quelle parole sulla facciata di casa: "Traditori, diavoli rossi"? E poi perche' in italiano? Il giallo e' lontano dalla soluzione.


ALTRI LINK:
Sono stato dio in Bosnia. Vita di un mercenario
Profilo di Roberto Delle Fave. Documentario, regia di Erion Kadilli (2010, 80').

VIDEO: Xavier Gautier - German TV Report (Die Reporter) - English subtitles
https://www.youtube.com/watch?v=3zf-g0LJJzo

CACCIA A DIAVOLO ROSSO (settembre 27, 2013 by redazione)
Di: Pier Paolo Santi & Francesco Sinatti
http://www.inchiostroscomodo.com/?p=98

“DIAVOLO ROSSO”: un depistaggio? (settembre 30, 2013 by redazione)
Di: Pier Paolo Santi & Francesco Sinatti
http://www.inchiostroscomodo.com/?p=110

HUNTING FOR “ RED DEVIL” (dicembre 16, 2013 by redazione)
by: Pier Paolo Santi & Francesco Sinatti
... In May 1996, a prominent journalist of the French headline “Le Figarò” dies under mysterious circumstances. Xavier Gautier during the last years of his life has dealt diligently with a big arms trafficking from Bosnia. A long, complicated, stressful and very dangerous investigative report. Gautier managed to publish a good article on the subject trotting out mercenaries, especially Italians, and a trafficking that starting from Bosnia was spreading  in Austria, Italy and Somalia...
Gautier would have met an informer, that probably was Roberto Delle Fave, a mercenary that fought in the Serbo-Croatian war. It may be a coincidence (properly constructed, in our opinion), but it seems that the informer was exactly nicknamed “Red Devil”. Was the writing “Red devil, traitor” a warning to the mercenary that, by informing a French journalist, betrayed a self-professed organization? Was the alleged mercenary in contact with some NATO military? ...
Marshal Marco Mandolini, parachutist of the Folgore, was found brutally killed on the cliff of Romito, Livorno (Tuscany). It was June the 13th 1995... As a matter of facts the marshal was not the same, neither psychologically nor physically, after he came back from the mission “Ibis” in Somalia. Still the family asserts that Mandolini spoke regarding some comrades dead under suspicious circumstances in Somalia...
Mandolini was directly linked with another victim of this story: the marshal Vincenzo Li Causi, a man of the Italian Intelligence (Sismi) operating in Somalia. Li Causi was also the informer of Ilaria Alpi, the murdered journalist...
The entrepreneur from Piemonte, Gian Carlo Marocchino makes the scene as ambiguous protagonist in the murder of Ilaria Alpi. Many have written about this case so we don’t want to repeat its chronicle, but we want to make simple questions: it is said that Marocchino at the time of the facts was strictly linked to the Italian Intelligence. It is also said that he would own a small but lethal private army, consisting of 150 soldiers. The arsenal made clear the degree of professionalism and the intents of the team: Kalashnikov, Browning 50 e M16. The key word in the following sentences will be: MER – CE – NA – RIES... Strange analogies with what some time after this would have happened in Croatia and in Bosnia, where it is said that the humanitarian convoys were mostly used to cover for trafficking of any kind (arms and organs included)...
If it existed, what happened to the private army of Marocchino after the operation in Somalia? Did they work also in Croatia and Bosnia? A new link? We are going to address these questions to the appointed public prosecutor. It is certain that if we read the Acts of the “Parliamentary Committee of Inquiry about the deaths of Ilaria Alpi and Milan Hrovatin, April the 20th 2004”, page 44, we can find a possible joining link between the business in Somalia and the ones in Croatia. The link is represented by Guido Garelli, the shady operator, strictly linked to American and Italian Intelligence...
http://www.inchiostroscomodo.com/?p=350




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