Ho festeggiato il nostro
settantesimo 25 aprile in Albania, a Kruja, la storica
cittadella medievale da cui l’invitto Skanderbeg osò
dichiarare guerra ai turchi. Quella dell’eroe albanese non fu
l’unica resistenza a nascere tra quelle aspre montagne, perché
esattamente cinque secoli dopo (1443-1943)
la Divisione
“Firenze” del generale Arnaldo Azzi inaugurò proprio a Kruja
la Resistenza italiana in terra d’Albania.
Nonostante una splendida memorialistica (per l’Albania
consiglio anzitutto
Franco Benanti, La guerra
più lunga, Mursia, 2003), la Resistenza dei
soldati italiani all’estero fatica a trovare spazio nei
manuali, nelle cerimonie, nella memoria collettiva. Nel 1989
il ministero della Difesa istituì sul tema un’apposita
commissione di studio, i cui risultati vennero pubblicati in
nove
cospicui volumi editi da “Rivista Militare”. Altri
storici hanno poi contribuito a colmare questo assordante
vuoto di memoria – si pensi al volume di
Elena Aga Rossi e
Maria Teresa Giusti, Una guerra a parte
(2011), edito proprio da Il Mulino – ma non stupisce che
ogni anno le celebrazioni ufficiali si concentrino sulla
dimensione nazionale e territoriale della lotta di
Liberazione.
Ciò accade, occorre dirlo, anche per la ferita che i soldati
italiani all’estero incarnano di fronte alla nostra coscienza
nazionale. A settant’anni dal sacrificio per la libertà, vale
forse la pena ricordare i crudi numeri balcanici. L’8
settembre 1943 il Regio esercito contava 64 divisioni: delle
31 stanziate all’estero, 12 si trovavano nei Balcani
continentali e 6 di queste, afferenti alla 9° Armata, in
Albania. Alla firma dell’armistizio erano dunque presenti “in
Balcania” circa 700.000 soldati italiani, 130.000 dei quali su
suolo albanese. Non va dimenticato che nel settembre ’43 a
Tirana non erano presenti divisioni tedesche: tutti i porti
erano in mano italiana, e tali rimasero almeno fino alla fine
del mese. Ciononostante, in sede di armistizio non fu
elaborato alcun piano per il recupero delle truppe oltre
Adriatico: a guerra conclusa, nell’ambito del processo cui
venne sottoposto Badoglio, il generale Ambrosio dichiarò che
nei Balcani il Maresciallo aveva preventivato la perdita di
mezzo milione di uomini.
La mancanza di un piano di evacuazione gestito di concerto con
gli Alleati – difficile ma possibile, visti i tempi e la
disponibilità di navi italiane nel Nord Adriatico – segnò il
destino delle centinaia di migliaia di uomini e di donne che
l’imperialismo fascista aveva portato oltre il mare, vicende
tragiche e disparate, poiché fuori d’Italia, più che in
patria, vi fu anche chi morì fascista per lealtà e chi divenne
partigiano per sopravvivere. Per quanto concerne l’Albania, la
Resistenza armata al nazifascismo fu scritta da una minoranza
di combattenti (
2.000-3.000 unità); il gruppo di gran
lunga più consistente fu, infatti, quello degli internati:
circa 75.000 soldati seguirono gli ordini-vergogna dei comandi
della 9° Armata, credendo alla promessa del rimpatrio
immediato e dirigendosi non verso il mare, ma a Est, verso le
stazioni ferroviarie della Bulgaria, da dove i nazisti li
tradussero nei campi di Germania e Polonia (più di un decimo
dei 600.000 internati militari italiani in Germania proveniva
dal Paese delle Aquile).
Ma non tutti gli italiani in Albania cedettero le armi al
tedesco: non lo fece
la Divisione “Perugia”, di stanza a
Sud, ad Argirocastro, e non lo fece
la Divisione
“Firenze”, il cui comandante, il generale Azzi, assunse, con
il benestare dei partigiani comunisti albanesi, il comando
delle “Truppe italiane alla Montagna”. Sebbene, nella
retorica di Enver Hoxha, l’Italia sia sempre rimasta un Paese
imperialista, il comune sacrificio di Kruja – primo episodio
di Resistenza italo-albanese nell’ex colonia del conte Ciano –
non fu disconosciuto da parte albanese: lo testimonia ancora
oggi
un piccolo monumento in marmo e mattoni che il
regime volle porre anche a memoria dell’antifascismo del
“popolo italiano”. Avevo letto della sua esistenza, ma nessuno
a Kruja è stato in grado di indicarmelo. Tornando in pianura,
uscendo da un tornante a gomito appena fuori dal centro
abitato, improvvisamente l’ho scorto, minuscolo, sulla destra.
Sulla sua lapide si legge a malapena:
«Qui, il 22 settembre 1943, i partigiani dei
battaglioni Kruja, Ishem, Mat e Diber, insieme ai
combattenti volontari antifascisti italiani [non si
legge] della Divisione “Firenze” hanno valorosamente
combattuto contro le forze [non si legge] tedesche».
In Albania, più che altrove, il rapporto con la guerra di
Liberazione è controverso: alla cacciata dei nazisti (29
novembre 1944) non seguì, come da noi, un virtuoso compromesso
costituente, ma il più longevo e spietato regime comunista
dell’Est Europa. Ciò detto, prima di essere archiviato come un
mito utile al regime albanese – il quale certamente utilizzò
la comune esperienza resistenziale per aprirsi varchi
d’amicizia oltre cortina – e prima ancora di ammettere la
relativa esiguità numerica degli uomini che a essa
sacrificarono in tutta coscienza la propria vita o la propria
giovinezza, la Resistenza armata dei soldati italiani in
Albania meriterebbe di essere inserita a pieno titolo
all’interno della narrazione dell’antifascismo nazionale.
Sullo stato dei monumenti ai partigiani in Albania vedi
anche le notizie del
2008-2009