Oltre quarantamila
furono gli italiani che, sopravvissuti ai massacri e non
cedendo alle intimazioni di resa da parte dei tedeschi
dopo l’8 settembre, si unirono ai partigiani jugoslavi,
combattendo in Montenegro e in tutte le
altre regioni del paese, dando prova di valore e
conquistandosi la fiducia, l’affetto dei compagni d’arme
e delle popolazioni locali. Ventimila di essi caddero,
riscattando con il sangue – non è retorica il dirlo – le
infamie dell’aggressione e della repressione
fascista.
Scotti, sulla base di
documentazione, frutto di una lunga ricerca svolta negli
archivi jugoslavi e italiani, può affermare che già
prima dell'8 settembre più di mille italiani disertarono
dalle file dell'esercito di occupazione
in Jugoslavia e passarono volontariamente nelle
file della Resistenza jugoslava unendosi all’armata dei
partigiani di Tito, o si “macchiarono” di altre forme di
disobbedienza, di “obiezione di coscienza”, di scarsa
partecipazione alle operazioni antiguerriglia, di
dissociazione dalle truci azioni repressive. Furono
essi, in ordine di tempo, i primi partigiani italiani,
espressione del legame che si sarebbe sviluppato poi tra
le due resistenze e l'altra faccia di quella stessa
lotta combattuta con estrema brutalità dai fascisti
italiani.
Infine, come
momento politico e organizzativo che saprà opporre
queste due facce antitetiche in modo da farne scaturire
un confronto risolutore, l’opera svolta dai due partiti
comunisti: quello jugoslavo già forza “di governo”
e salda guida della lotta popolare; e quello
italiano, fratello minore che gli crescerà accanto in
modo diverso, fra contrasti difficilmente sanabili.
Giacomo
Scotti (Saviano 1928), stabilitosi nel 1947 in
Jugoslavia, cominciò a lavorare a Fiume nella redazione
del quotidiano «La Voce del Popolo», dove ha svolto per
alcuni decenni la sua attività giornalistica. Dal 1982
si muove fra l’Italia e Balcani.
Ha pubblicato numerose
opere riguardanti la lotta antifascista e di liberazione
jugoslava, tra cui: Quelli della montagna (in collab. con
R. Giacuzzo, 1972); Il battaglione degli “straccioni”
(1974), Ventimila Caduti (1970); “Rossa una stella”
(con L. Giuricin, 1976); I “disertori” (1980); Gli alpini
dell’Intra in Jugoslavia (1984); Juris,juris!
All’attacco (1984); Le aquile delle montagne
nere (con L. Viazzi, 1987); L’inutile
vittoria (con L. Viazzi, 1989) e numerosi altri,
fino al 2009. Egli è inoltre studioso delle letterature
macedone, bosniaco-erzegovese e croata. Per le sue opere
ha ricevuto vari premi in Jugoslavia e in Italia, per la
diffusione della letteratura italiana all’estero.
da il manifesto del 22
aprile 2012
Una anticipazione da « Bono
taliano , militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943:
da occupatori a "disertori"», un saggio straordinario che
svela tutto quello che «Il giorno del ricordo»
dimentica
Nemesi italiana
di Giacomo Scotti
Facciamo un lungo salto
indietro, al giorno della resa del nostro esercito, l'8
settembre 1943. È un episodio accaduto nel Montenegro,
alla 37a Compagnia del battaglione «Intra» (divisione
«Taurinense» alpina), comandata dal capitano Pietro
Zavattaro Ardizzi. La compagnia era impegnata da parecchi
giorni in un'operazione di rastrellamento in alta
montagna quando, la mattina dell'8 settembre, attaccò il
solitario villaggio di Crna Gora, strenuamente difeso dai
pochi abitanti. La notte precedente, in tutti i
casolari investiti dal «rastrellamento», s'erano levati i
fuochi degli incendi rituali: bruciarono capanne e
pagliai, perché le case di pietra erano state già
distrutte nel maggio precedente. Sempre dai nostri
soldati, divisione «Ferrara», che compirono una delle più
spaventose stragi e innumerevoli atti di
ferocia.
La strage di Zupa
Li racconta lo storico montenegrino Radislav Marojevi nel
volume «Z upa Niksi Ka » (La Zupa di Niksi, Niksi, 1985),
presentando un'abbondante documentazione. Dunque, nel
quadro delle operazioni del maggio 1943, alcuni reparti
della divisione «Ferrara» e un battaglione tedesco di SS
penetrarono in Valle Zupa di Niksi il 28 maggio,
rimanendovi anche il 29 senza incontrare un solo partigiano.
Ma in quei due giorni avvenne l'inferno. Le poche famiglie
che, disubbidendo alle direttive dei comandi partigiani
in ritirata, avevano voluto restare, in attesa fiduciosa del
ritorno delle truppe italiane, furono vittime di violenze
inenarrabili: uomini fucilati, donne ed anziani gettati
vivi nel fuco delle loro case date alle fiamme, fanciulle
violentate e poi massacrate. Il bilancio fu di 90 persone
uccise, 680 case incendiate, chiese saccheggiate. I
soldati commisero tali e tanti atti di ferocia che tuttora
nei villaggi della Zupa, per significare una strage, si usa
dire «il Ventinove maggio». All'alba dell'8 settembre,
dunque, gli italiani erano tornati, attaccando col
battaglione «Intra»: ad eccezione di poche case, tutto fu
distrutto dalle fiamme. L'azione avrebbe dovuto
continuare nelle giornate successive e concludersi con la
«totale distruzione dei partigiani», allo scopo erano state
già rese note ai comandanti di reparti le disposizioni
per l'indomani. In serata, invece, arrivò la notizia
dell'armistizio. Così non ci furono altri rastrellamenti:
chi avrebbe dovuto continuare a rastrellare i
partigiani e a bruciare i villaggi dei «comunisti» venne a
trovarsi da quel giorno di fronte ai tedeschi.
«Sei il mio terzo figlio»
Quanto al capitano
Zavattaro Ardizzi, lo ritroveremo nel maggio 1944 al
comando di un reparto partigiano della divisione
«Garibaldi» nel villaggio di Crna Gora, quello stesso
da lui attaccato e fatto bruciare all'inizio di settembre
1943. Lui e i suoi soldati non più alleati dei tedeschi e
dei cetnici, ma partigiani di Tito, braccati dai
tedeschi e dai cetnici, cercavano di uscire dalla morsa
nemica insieme ai partigiani jugoslavi. Leggiamo una
rievocazione dello stesso Zavattaro Ardizzi
scritta nel maggio 1977, esattamente un mese prima di
morire (col grado di generale d'armata).
«Con il tenente Simonetta
raggiungo all'imbrunire del 14 maggio il piccolo villaggio
di Crna Gora sulla mulattiera che da Trsa porta a Zabljak
attraverso il passo di Stolac. Siamo sfiniti e
cerchiamo ricovero nelle case. Gli abitanti non vogliono
ospitarci perché comprendono che siamo convalescenti di
tifo petecchiale ed hanno terrore del contagio.
Leghiamo i cavalli allo steccato che circonda lo spiazza
della chiesetta ortodossa e, dopo aver tolto agli animali
le coperte che ci servivano da sella, ci stendiamo
sul sagrato della chiesa coprendoci con quelle. Intorno il
terreno è coperto da chiazze di neve, il sole è ormai
scomparso e comincia a far freddo. Crna Gora è sui
1500 metri di altitudine. Dopo poco che sono disteso, mi
«sento» fissare: alzo gli occhi e mi trovo circondato da
una decina di uomini. Dico loro che quella notte
probabilmente moriremo per il gelo in quanto «loro» non ci
hanno accolti, sebbene fossimo combattenti per la libertà
della loro Patria. Uno degli uomini si china su di me
e mi solleva, dicendomi di seguirlo in casa sua. Quando ci
troviamo nella piccola casetta, seduti intorno al fuoco,
circondati dagli anziani del villaggio che vogliono
dagli stranieri notizie, i padroni di casa ci offrono
latte caldo. Ad un tratto la moglie del nostro ospite
parla sottovoce al marito e questi mi guarda
intensamente. Improvvisamente mi apostrofa: Sei tu il
capitano che nella scorsa estate comandava gli alpini che
hanno attaccato questo villaggio? Era vero, quel
capitano ero io, allora in guerra contro i partigiani che
appunto erano della zona (...). Replico: Sì, ero io,
allora combattevo contro di voi, oggi lotto con voi per
la libertà della vostra terra perché così agevolo la
libertà della mia. L'uomo tacque pensieroso, poi fra il
silenzio di tutti, dice: Quel giorno, capitano, i tuoi
uomini hanno ucciso i miei due figli. Io e questa
donna siamo rimasti soli. Tu ora combatti per la libertà
del mio paese, se il nostro terzo figlio: questa è casa
tua» .
La ferita sempre aperta di una memoria cancellata
Tommaso Di Francesco
«Furono oltre quarantamila
gli italiani che, sopravvissuti ai massacri e non cedendo
alle intimidazioni di resa da parte dei tedeschi dopo l'8
settembre, si unirono ai partigiani jugoslavi,
combattendo in Montenegro e in tutte le altre regioni dando
prova di valore e conquistandosi la fiducia, l'affetto dei
compagni d'arme e delle popolazioni locali. Ventimila
di essi caddero, riscattando con il sangue - non è retorica
il dirlo - le infamie dell'aggressione e della repressione
fascista». È la promessa, assolutamente mantenuta, dei
temi del libro di Giacomo scotti «Bono taliano» (Odradek,
pagg. 253, 20 euro) che, sulla base di documentazioni di
prima mano dagli archivi sia italiani che jugoslavi,
arriva a dimostrare fatti finora inediti alla pubblicistica
ufficiale. E cioè che già prima dell'8 settembre 1943 più di
mille italiani avevano disertato dalle fila
dell'esrcito di occupazione in Jugoslavia e volontariamente
erano passati in quelle della Resistenza jugoslava dei
partigiani di Tito, oppure disobbedendo agli ordini di
rappresaglia e repressione nazifascista. Insomma furono
loro, in ordine di tempo, ricorda Giacomo Scotti, i primi
partigiani italiani. E insieme a queste scoperte, lo
scavo ancora una volta e come non mai necessario, sulla
tragedia rappresentata dalle truppe d'occupazione in
Jugoslavia. Quella che «Il giorno del ricordo»
volutamente «non ricorda». Parliamo delle perdute umane
subite dalla Jugoslavia in seguito all'occupazione di
tedeschi, italiani, ungheresi e bulgari: furono un
milione e e 706 mila morti, pari al 10,8% della popolazione
presente nel 1941, dei quali oltre 400.000 nei territori
occupati o annessi dagli italiani. In questi territori
si ebbe la distruzione del 25% delle abitazioni. nel volume
«Il crollo del regno di Jugoslavia» lo storico Velimir
Terzic calcolò che le persone uccise, vittime
dell'occupazione italiana, furono 437.395. Una cifra che si
avvicinava a quella ufficiale presentata dal governo di
Belgrado alla conferenza di pace. Ma nessuno dei
generali criminali di guerra, Mario Roatta, Mario Robottii,
Gastone Gambara, Taddeo Orlando, il governatore del
Montenegro Pirzio Biroli e altri 700 responsabili, pagò
mai per le fucilazioni di partigiani e i massacri di civili,
per gli stupri di massa sulle donne. Anzi no, ricorda
Scotti: il tenente delle Camicie nere Luigi Serrentino
venne fucilato nel 1947. Ma in occasione della Giornata del
Ricordo del 2007, il presidente Napolitano gli assegnò la
Medaglia alla memoria come «vittima delle foibe».
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Vendetta fascista: testa per
dente
recensione di Corrado
Stajano al libro di Giacomo Scotti «Bono Taliano»
apparsa sul Corriere della
Sera del 17 luglio 2012