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Grumello al Piano (Bergamo):
il campo di concentramento
in località Lallio,
anche "Grumellina"
P.G. N.62
P.M. 3200
Le fotografie sono saltate fuori da un vecchio
cassetto, sono saltate fuori da una borsetta di
donna quando nessuno ci sperava più. Del
campo di prigionia della Grumellina negli ultimi
anni erano state scoperte tante cose, prima di
tutto si era di nuovo «scoperta» la
sua esistenza, caduta nell'oblio, un po' per via
degli anni, un po' per via dell'imbarazzo.
Era come la polvere buttata sotto il tappeto. A
Bergamo il tappeto l'hanno sollevato Alberto
Scanzi e Giorgio Marcandelli che nel 2005
avviarono le ricerche. Lanciarono il sasso e
presentarono una prima bozza di indagine al
circolo Arci di Grumello del Piano. Racconta
Alberto Scanzi: «Anche a Bergamo avevamo
avuto una "rimozione collettiva del dolore", una
dimenticanza radicale del campo di prigionia che
pure aveva contenuto migliaia di uomini».
«Ma quando facemmo la riunione all'Arci,
inaspettatamente, trovammo la sala piena. C'era
chi ricordava, dopo sessant'anni ricordava! E
quel giorno si presentò Francesco
Sonzogni con l'archivio personale ereditato
dallo zio Mario Sonzogni, archivio che era
appartenuto a un prigioniero slavo, Oton Polak:
c'erano soprattutto disegni, ritratti e alcuni
libri, alcuni vocabolari».
Francesco Sonzogni entrò nel gruppo di
ricerca che venne poi sostenuto dal Museo
storico della città e in particolare dal
direttore, Mauro Gelfi. Dice Marcandelli:
«Mauro è stato prezioso per noi, ci
ha aiutato, ci ha incoraggiato. Lui aveva
riscoperto l'esistenza del campo durante delle
sue ricerche nel 2006 a Londra, al National
Archives: si interessava al ruolo che i servizi
segreti inglesi avevano avuto anche in
Bergamasca durante la guerra».
«Trovò dei documenti che parlavano
di Bergamo, del campo della Grumellina; si
rivolse all'archivio dei servizi segreti inglesi
e poi a quello del Comune di Bergamo. La morte
prematura di Mauro Gelfi nel giugno del 2010
è stata per noi un dolore e una perdita.
Ma anche uno sprone ad andare avanti con la
ricerca, anche come omaggio a lui, alla sua
passione per la storia, per la
verità».
Ed ecco un altro tassello della storia del campo
che si compone, ecco le prime fotografie. Il
campo è riconoscibile, in particolare si
nota la ciminiera che ancora resiste oggi. I
soldati prigionieri al lavatoio che sfregano i
panni, i capannoni e il filo spinato, ma anche
le casermette e un edificio aperto, forse dei
bagni.
I prigionieri in posa con i soldati italiani con
il fucile in spalla, altri con l'uniforme,
seduti sulla panca che sorridono al fotografo,
un altro gruppo con i gelsi delle coltivazioni
sullo sfondo... Ma che cosa avevano da sorridere
questi prigionieri? Erano così buone le
condizioni di vita nel campo?
Dice Alberto Scanzi: «No, non risulta che
le condizioni fossero buone. Certo, non dobbiamo
pensare ai lager nazisti, ad Auschwitz. A
Bergamo c'erano prigionieri militari e c'erano
internati che provenivano dalla Jugoslavia e
dalla Grecia. In particolare per gli slavi le
condizioni di vita erano assai dure».
Nel 2008 i ricercatori pubblicarono il libro
«The tower of silence, Storie di un campo
di prigionia. Bergamo 1941-1945», firmato
da Mauro Gelfi, Giorgio Marcandelli, Alberto
Scanzi e Francesco Sonzogni. Da allora hanno
fatto diversi incontri in giro per la provincia.
Racconta Scanzi: «Era il 26 ottobre
scorso, avevo appena terminato la mia relazione
su "Don Seghezzi e l'aiuto ai prigionieri
fuggiti dal campo della Grumellina" quando una
signora del pubblico mi si è avvicinata,
mi ha abbracciato e mi ha detto: "Guardi che
cosa ho portato"».
La signora si chiama Teresina Togni, figlia del
partigiano Luigi Togni. Ha aperto una busta,
nella busta le fotografie, vecchie di settanta
anni. Continuano i tre ricercatori: «Le
foto la signora le aveva perché la sua
famiglia aveva tenuto nascosto nella propria
abitazione alle Ghiaie di Bonate quattro
prigionieri fuggiti il 9 settembre del 1943 dal
campo. Si chiamavano Milet, Drago Trifunic,
dottor Iso e Peder. Peder era greco, gli altri
tre jugoslavi. Restarono dai Togni fino al
dicembre del 1943, poi dovettero fuggire di
nuovo per via di una soffiata: i carabinieri li
stavano cercando».
La struttura si chiamava «Campo di
concentramento prigionieri di guerra di Grumello
al Piano». Si ha notizia che al dicembre
1941 il campo accoglieva un ufficiale, 371
sottufficiali, 1.751 soldati di
nazionalità greca e un numero imprecisato
di truppa jugoslava. E quest'ultima voce
è la più preoccupante:
perché non c'è il numero di
prigionieri jugoslavi?
Paolo Aresi
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senza scopo di lucro - Disclaimer
GALLERIA
Rarissima immagine di un momento della vita
dei prigionieri nel campo. In primo piano il
lavatoio per la pulizia degli indumenti. Sullo
sfondo si nota la ciminiera tuttora esistente
(Foto by TIPOGRAFIA)
Una vista del campo con i capannoni, alcuni
dei quali sono visibili ancora oggi (Foto by
TIPOGRAFIA)
La famiglia Togni con quattro prigionieri: il
primo seduto a sinistra e i tre sulla destra,
due in piedi, uno seduto (Foto by TIPOGRAFIA)
Soldati e prigionieri (Foto by TIPOGRAFIA)
Altre
fotografie ricevute direttamente dal Dott.
Alberto Scanzi, che ringraziamo:
«Adesso vogliamo capire soprattutto che
fine fecero gli jugoslavi, i prigionieri peggio
trattati nel nostro lager, come in tutti i campi
di prigionia italiani. Esisteva l'idea razzista
che gli slavi fossero una razza inferiore e
quindi che potessero venire deportati dalle loro
terre e sfruttati. Anche loro fuggirono dopo l'8
settembre 1943, sappiamo che molti arrivarono a
Milano, che ebbero documenti falsi dai nostri
partigiani e che si unirono ai gruppi della
Resistenza, che addirittura c'erano delle
formazioni partigiane costituite da jugoslavi in
Italia, ma dobbiamo approfondire». I tre
ricercatori Giorgio Marcandelli, Alberto Scanzi
e Francesco Sonzogni non si fermano, aiutati dal
Museo storico della città
e in particolare da Silvana Agazzi procedono
nella ricostruzione della realtà di
quegli anni.
Il pittore
Fra le storie significative che sono emerse nel
corso della ricerca ci sono quelle del
disegnatore e pittore Oton Polak, del soldato
sudafricano Danny Hyams, del comandante del
campo, Francesco Turco. Oton Polak fu uno degli
jugoslavi che fuggi dal campo e lasciò
alla famiglia Sonzogni alcuni libri e suoi
disegni. Spiegava il ricercatore Francesco
Sonzogni, nato al numero 62 di via Grumello
sette anni dopo che la guerra era finita:
«Da bambino sentivo parlare del campo, ma
senza notizie particolari, tuttavia mi rimase
nella mente. Tanti anni dopo, nel 2002, un mio
zio che abitava a Curnasco morì e io
andai a vivere con la mia famiglia nella sua
casa. Mio zio si chiamava Mario, faceva il
maestro e aveva un'abitudine: non buttava via
mai niente. Così nella casa trovai una
cartelletta: dentro c'erano disegni e ritratti a
matita, erano di un certo Oton Polak. Trovai
anche documenti e libri, vocabolari, tutta roba
che arrivava dal campo di concentramento. Fu una
rivelazione». Si sono fatte ricerche nella
ex Jugoslavia per entrare in contatto con Oton
Polak, ma senza esito.
Danny Hyams ha superato i novanta anni ed
è ancora in forma: nei giorni scorsi si
trovava a Bergamo. Sudafricano dell'esercito
inglese, venne catturato dagli italiani a
Tobruk, fu internato in diversi campi della
Penisola, fino al suo arrivo a Bergamo.
Annotò sul suo diario: «Oltre
l'infestazione di pidocchi e appelli
interminabili, oggi abbiamo trovato cimici nei
letti e subiamo ogni sera l'umiliazione della
consegna dei nostri pantaloni e stivali per
essere poi recuperati il mattino
successivo». Hyams fuggi dopo l'8
settembre, venne nascosto in casa della famiglia
Rota all'Albenza.
Conobbe la giovane Domitilla Rota, finita la
guerra la sposò e se la portò in
Sudafrica. A proposito della grande fuga diverse
sono le testimonianze raccolte, molti di loro
furono ospitati in famiglie di contadini. Ci
furono bergamaschi che andarono al campo per
trafugare armi e provviste.
Il colonnello
E poi la vicenda del colonnello Francesco Turco,
comandante del campo, processato per crimini di
guerra nel 1946. Turco venne condannato a morte
in un primo tempo, la pena venne commutata in
quattordici anni di carcere. Tra le accuse
quella dell'omicidio di due soldati maghrebini e
l'omicidio commesso il 16 luglio 1943 di un
soldato inglese cipriota, a Orio al Serio. 1
ciprioti si erano rifiutati di lavorare a
installazioni di tipo
militare appellandosi alla convenzione di
Ginevra. Il colonnello Turco per convincerli
ordinò a un soldato italiano della scorta
di sparare a un prigioniero. Il soldato si
rifiutò di eseguire l'ordine, il
colonnello prese la pistola, fece fuoco:
colpì a una gamba e allo stomaco il
prigioniero Lambris Tofi che morì
all'ospedale della Clementina.
Dopo l'8 settembre, il campo di prigionia
passò nella mani dei tedeschi. Vennero
rinchiusi nel campo anche tanti prigionieri
italiani. Ecco il racconto di Ferdinando Ubiali,
per soli dieci giorni prigioniero del campo:
«I maltrattamenti che si subivano erano
più i fascisti che i tedeschi che li
facevano. Dormivamo tutti per terra e tutti
insieme, italiani e no, c'era un caos. Ci davano
un pezzo di pane per colazione e poi si girava
il campo o ci si sdraiava per terra e si stava
lì. Tanti sono scappati perché
c'erano buchi nel filo spinato».
P. A.
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M.
Gelfi, G. Marcandelli, A. Scanzi, F.
Sonzogni
The Tower of
Silence. Storie di un campo di prigionia
– Bergamo 1941/45
(Bergamo: Sestante
edizioni, 2010) e la Mostra
collegata
Il Campo
del Silenzio
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