Talvolta - ma e' raro - viene infranta la censura sul dibattimento
nell'aula dell'Aia, dove Slobodan Milosevic e' "imputato" in un
processo-farsa eminentemente politico. In queste occasioni i
giornalisti espongono una unica preoccupazione: quella che il
processo sia diventato "controproducente" per l'accusa.

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il manifesto - 25 Agosto 2002 - pag. 5
http://www.ilmanifesto.it/oggi/art32.html

RIPRENDE IL PROCESSO
Aja, la fragile corsa degli accusatori di Milosevic
TOMMASO DI FRANCESCO


Domani dovrebbe riprendere all'Aja, dopo la pausa estiva
e i silenzi dei media dovuti alle brutte figure dell'accusa, il
processo del Tribunale internazionale sull'ex Jugoslavia contro
l'ex presidente Slobodan Milosevic. Il condizionale è d'obbligo,
visto che a fine luglio è emerso sia il problema delle gravi
condizioni di salute dell'imputato eccellente, sia il rifiuto del
Dipartimento di Stato Usa di far testimoniare Richard Holbrooke,
architetto - con Milosevic - della pace di Dayton sulla
Bosnia. Sì, a minare la credibilità del processo non è più "solo"
la fragilità, a tutti evidente, dell'impianto accusatorio del
procuratore Carla Del Ponte o l'inattendibilità dei testimoni
dell'accusa. No, c'è l'attacco degli Stati uniti alla nuova Corte
penale internazionale che arriva a contraddire - farsa nella
farsa - anche la legittimità di questo processo che pure gli Usa
hanno voluto, con la preoccupazione che i testimoni americani
potrebbero essere costretti all'Aja a «rivelare informazioni
sensibili». Milosevic ha citato Clinton, Carter, il generale Wesley
Clark, Holbrooke: se non verranno sarà evidente che non ha
potuto difendersi.
E c'è la questione dell'imputato «in pericolo di vita». A fine giugno
il presidente del Tribunale dell'Aja Richard May aveva autorizzato
una visita medica di controllo, sollecitato dalla Del Ponte,
per reagire ad alcune assenze per malattia
dell'imputato - la moglie Mira Markovic ha più volte
accusato i giudici di averlo stressato con sedute
snervanti e limitazioni. Risultato: non si trattava
di una finzione, anzi, secondo i medici del
Tribunale dell'Aja la continuazione del processo
potrebbe mettere in pericolo la vita stessa
dell'imputato che corre «seri rischi cardio-vascolari» e
che ha «assoluto bisogno di riposo».

Come si ricorderà Milosevic non riconosce il
Tribunale, rifiuta gli avvocati a difesa, si difende da
solo. Potrebbe non farcela, tanto da influenzare i
tempi del processo. Potrebbe perfino
soccombere lì, alla sbarra, mentre controaccusa e
mentre la giustizia dei vincitori della Nato non
riesce a dimostrare la sua colpevolezza davanti
agli occhi del mondo e, quel che più conta, del
sempre più incredulo popolo jugoslavo. Il rischio
che tutto si risolva in una scontata condanna e
insieme in una consacrazione ad eroe di Milosevic,
è più che una supposizione.

E invece il procuratore Carla Del Ponte, dopo
essersi vista negare dalla presidenza del Tribunale
dell'Aja il tempo da lei richiesto di due anni di
istruttoria, deve freneticamente concludere entro il
13 settembre l'illustrazione delle prove d'accusa
per il Kosovo, per poi affrettarsi entro il 16
maggio 2003 a presentare quelle su Bosnia e
Croazia. Senza dimenticare la responsabilità politica
della Del Ponte per non avere messo sotto accusa
la Nato per i crimini commessi con i
bombardamenti contro i civili jugoslavi, si
dimostra ancora una volta di più quanto sia stata
controproducente la sua scelta di avere unificato
periodi e conflitti assolutamente diversi
(Kosovo, Bosnia e Croazia) in un solo
maxi-processo contro Milosevic quale unico colpevole di
quasi dieci anni di guerre.

Un fatto evidente anche nel fallimento dei
testimoni dell'accusa. Uno dietro l'altro. Così l'agente
albanese dei Servizi serbi che doveva fare
rivelazioni «fondamentali» ha fatto scoprire il 1 giugno
un tentativo dell'Uck di uccidere il leader
kosovaro Ibrahim Rugova; l'ex ministro degli interni
serbo Rade Markovic che doveva «smascherare»
Milosevic ha insistito sull'inesistenza di un
piano di pulizia etnica per cacciare tutti gli
albanesi; l'ex presidente jugoslavo Zoran Lilic,
«risolutore» a detta della Del Ponte, si è
rifiutato il 22 luglio di rispondere per «segreto di stato»;
e quello che veniva protetto con il nome di "K12"
e presentato come testimone decisivo per il
massacro di Racak si è scontrato con il presidente
May che, non convinto della deposizione, lo
ha incriminato per oltraggio alla corte.

Né buona impressione ha fatto l'ambasciatore Usa
William Walker, l'ex capo della missione Osce
che nel febbraio del 1999 verificò, ma sotto
controllo delle milizie armate dell'Uck - come ha
dimostrato un video della Bbc presentato in aula
con tanto di deposizione della patologa
finlandese Ranta convinta, invece, della
messinscena - la colpevolezza degli agenti jugoslavi per il
massacro di Racak. Attribuzione che decise il 24
marzo, dopo la farsa di Rambouillet, la campagna
di 78 giorni di bombardamenti "umanitari" della Nato.