(Inviamo nuovamente il testo di Marina Cataldo, in una forma meglio
leggibile. Il testo si puo' anche scaricare come documento Word alla
URL:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/files/Meline.doc
Ci scusiamo per il doppio invio. CNJ)


Le meline del Sangiaccato

appunti di viaggio della delegazione di Most za Beograd -
luglio 2002

Mariella Cataldo

Arrivare a Cattaro all?alba del 19 luglio 2002 è come aprire
uno scrigno e perdere gli occhi dietro un?acquamarina purissima:
è l?azzurro mediterraneo di Byron e dei fratelli Schlegel. Poi,
pian piano, ti accorgi delle montagne traforate, veri gioielli di
oro bianco anneriti dal tempo, in cui la macchia mediterranea è
incastonata come verde smeraldo, e le case, vera madreperla
ricoperta da corallo. I doganieri montenegrini, gentili e dalle
spalle quadrate, ci frugano i bagagli, ma, appena sentono che
siamo diretti a Kragujevac, ci fanno passare senza costringerci a
smontare la macchina stracarica all?inverosimile. Forse, sono
degli jugoslavisti e conservano la memoria storica della
solidarietà di una Jugoslavia che non esiste più. E così, passano
senza problemi le nostre casse di digitalina e di altri medicinali
per il presidio sanitario della Zastava e i valigioni di vestiti
regalati da un negozio di Bari e dalla mamma di Alice per i
profughi serbi che l?UCK ha cacciato dal Kosovo, i numerosi
regali e letterine che i donatori di Bari mandano ai loro bambini
della Zastava. Con noi abbiamo anche il denaro delle adozioni a
distanza, che consegneremo personalmente ai 221 bambini
adottati. Ci augurano con un sorriso il buon viaggio.

È un vero e proprio tuffo nelle acacie, lentischi, malva rosa,
accompagnato da un?orchestra di cicale che suonano il charango.
Abbiamo ancora nelle orecchie le canzoni di Theodorakis e di
Zambetas della nave greca con equipaggio ucraino.
All?improvviso, tra le montagne, appare una bellissima
insenatura marina: è Budva. Pierfrancesco, promettente dottore
in scienze forestali, che da queste parti ci viene spesso ed è
sempre alla ricerca della sua faggeta, dice che qui non vale tanto
lo spazio, quanto il tempo che ci vuole per colmare una certa
distanza. E Lisa, giovane psicologa, affascinata, fa le prime
riprese.

La Land Rover procede a passo d?uomo e in mezza giornata
arriviamo a Kolasin, dove conosceremo Vera e Danjel Vincek,
che custodiscono nel loro orto botanico la cachris ferulacea o
silfio cirenaico, pianta medicinale di cui parla anche Plinio e ora
ritrovata in Montenegro, la dioscorea balcanica (per curare
l?Aids e l?Evola) la dafnae e il pino peucets (pino a cinque
aghetti o ?pino carezzevole?, come dirà amorevolmente Danjel).
Tutto sarà ?interessante?, per dirla con Bato, che a Kolasin ci fa
gli onori di casa. Al nostro rientro in Italia sapremo la triste
notizia della morte per un banale incidente di montagna di Vera,
straordinaria donna jugoslavista e fiera oppositrice della ?guerra
umanitaria? della NATO.

Tra fichi e melograni fioriti e lecci, spuntano i cartelloni
pubblicitari di Biagiotti e Pistolato, che qui sono di casa.
Incontriamo macchine di jugoslavisti con il loro bollino ?YU? e
macchine di separatisti - col bollino bianco e una croce rossa - e
qualche eroica sbuffante vecchia seicento. Io ascolto, mentre
aspiro forte odore di ferro bruciato, il respiro della terra e i
suoni animali e annoto: è molto meglio che fare i verbali
scolastici!

I pini mughi e le ginestre fiorite ci avvertono che stiamo
salendo, e lo scatenato Bregovi? rompe la pace dei luoghi.
Violacciocche selvagge e sambuco adornano il lago di Scutari e
sembra di essere sul Carso. Tagliamo Podgorica (ex Titograd)
dove, lungo i viali di platani e cipressi, vendono angurie e
collane di fichi secchi. Zingarellini strepitanti ci assalgono ai
semafori come pulci nere e secche.

Pierfrancesco ci avverte che domani attraverseremo il
Sangiaccato di Novi Pazar (diviso a metà tra Serbia e
Montenegro), costruito come Stato cuscinetto dai Turchi per
separare due popolazioni. Lungo la strada, verdi e rosse, le
meline del Sangiaccato ci guidano al monastero di Mora?a e
agli affreschi su San Nicola. È un?oasi nel verde: il giardino con
arnie, un cimiterino, cespugli di ortensie, gatti addormentati,
cicale e un ruscellino freschissimo, in cui i monaci si lavano le
mani. Fumo una sigaretta sotto un?acacia e mi sembra un
sacrilegio. Qui, il fiume Tara, con la Piva, forma la Drina e poi
la Sava e, a Belgrado, confluisce nel Danubio e poi va a morire
nel Mar Nero.

A Kolasin respiriamo tiglio fiorito e mangiamo i feferoni
(peperoncini arrostiti piccantissimi) da cui non riusciremo più a
separarci, nonostante le nostre lingue fumino come quelle del
drago di San Giorgio.



Sabato 20 entriamo a Vjelo Polje (paese musulmano) e nel
Sangiaccato. In un cielo di meli, ci salutano in lontananza un
minareto e ancora zingari sul bordo della strada e donne coi
tipici pantaloni turcomanni. Esso è un avamposto che, attraverso
una lunga gola selvaggia, ci porterà in Serbia. Tra villaggi sparsi
arriviamo al confine con la Serbia, ma il doganiere non si
accorge neppure che stiamo passando. Visitiamo il monastero di
Mileseva a Prijepolje, dove sventola una bandiera serba con
quattro C (solo la solidarietà salverà i serbi) e un pope esuberante
porta a spasso un canone con una lunga catena. Lungo il viaggio,
la verzura e il fogliame diventano cupi e incontriamo cimiterini
in pietra nera tra le case, in pieno villaggio. Qui la vita e la
morte sono sorelle siamesi. I telefonini mi fanno impazzire! E
Rajka è già sulle nostre tracce.



Arriviamo a Kragujevac, alla sede del sindacato Samostalni
dove ci accoglie un manifesto regalato da una delegazione
italiana sulla manifestazione di marzo e lo sciopero generale di
aprile e questo mi riempie d?orgoglio. Qualcosa di buono noi
italiani siamo stati capaci di farla.

A Rajka Andrea chiede a bruciapelo: ?La Zastava muore??.
Rajka risponde: ?La Zastava è come un gigante, non può morire
tutta in una volta, ma agonizzerà per molto. Il nostro paese fa i
debiti con l?estero, debiti che i nostri figli dovranno restituire?.
Raccogliamo le prime notizie sulla situazione economica in
Serbia dal segretario del sindacato, Rade Deli?, che esordisce
dicendoci che una fabbrica tessile del valore di due milioni di
marchi sarà venduta per 400.000 a un acquirente belga. Il
processo di privatizzazione delle imprese - un tempo autogestite
- che il governo serbo ha avviato su pressioni del Fondo
monetario internazionale, stenta ancora a decollare per scarso
interesse dei nuovi acquirenti. L?orientamento del governo è
quello di procedere comunque, ad ogni costo, mettendo in
vendita le imprese da privatizzare ad un prezzo notevolmente
inferiore rispetto al loro valore. Il risultato sarà una colossale
svendita di un patrimonio che i lavoratori jugoslavi avevano
contribuito con il loro lavoro e la loro fatica a mettere insieme.
Una dozzina di grandi imprese (cemento, olio, fabbricati
turistici, ma sinora nessuna grande impresa metalmeccanica)
sono state privatizzate e svendute. Formalmente, il 35% del
valore delle imprese autogestite appartiene ancora ai lavoratori
e, al momento della vendita, ognuno di essi dovrebbe ricevere la
quota spettante, ma i lavoratori di fatto hanno ricevuto solo un
pugno di carte.



Contro la politica governativa di privatizzazioni e
licenziamenti, il sindacato prevede di indire in autunno lo
sciopero generale. I prezzi aumentano di giorno in giorno e la
politica del governo ?in?i? vi contribuisce a piene mani. Il
prezzo della corrente elettrica - annuncia la signora ministro
dell?energia - aumenterà del 50%. In una trasmissione televisiva
uno ha chiesto come fare a pagare gli arretrati e lei ha risposto:
?Fate come mia madre, che ha venduto un appartamento di 120
mq in cambio di uno di 30 per pagare i debiti di oggi e di
domani?. E lo spettatore, che non aveva appartamenti né di 120
né di 30 mq, se n?è andato ancora più arrabbiato.



Oggi c?è stato un incendio alla centrale elettrica di Obeli? in
Kosovo. Sono morti un esperto croato e trenta operai. La gente è
arrabbiata. Fanno imbrogli sugli arretrati. Il direttore albanese
della centrale termica ha detto che la situazione è sotto controllo,
hanno evacuato la KFOR e i cittadini di tutti i paesi vicini. Nel
Kosovo da ieri non c?è corrente. In Kosovo, etnicamente pulito
dalla NATO, i serbi sono una rarità e vivono come gli indiani
d?America nelle riserve.

In Kosovo, a Bondsteel, c?è la più grande base americana
costruita all'estero dai tempi del Vietnam. È localizzata
vicino ad oleodotti e corridoi energetici di vitale importanza, al
momento ancora in costruzione, come ad esempio l'oleodotto
trans-balcanico, sponsorizzato dagli Stati Uniti. Nel giugno del
1999, all'indomani della fine dei bombardamenti NATO sulla
Jugoslavia, forze americane si impossessarono di 1000 acri di
terra coltivabile nel sud-est del Kosovo, in località Urosevac,
vicino al confine con la Macedonia, e incominciarono la
costruzione di una base. Camp Bondsteel è noto come "la
grande signora" di una rete di basi americane attive su
entrambi i lati del confine tra Kosovo e Macedonia. In meno
di tre anni è stato trasformato da un accampamento di tende in
una base iper-tecnologica, autosufficiente, che ospita quasi 7.000
soldati, tre quarti del totale delle truppe americane presenti in
Kosovo. Vi sono più di 25 Km di strade e più di 300 edifici,
circondati da oltre 14 Km di barriere in cemento e terra, 84 km
di filo spinato e 11 torrette d'avvistamento. È così grande che ha
un centro e anche quartieri periferici, negozi, palestre aperte 24
ore su 24, una cappella, una biblioteca e l'ospedale meglio
attrezzato d'Europa. Al momento vi sono 55 elicotteri Black
Hawk e Apache, e sebbene non vi sia una pista d'atterraggio, il
luogo è stato scelto proprio per le possibilità d'espansione. Vi
sono indizi infatti che suggeriscono che Bondsteel possa
sostituire in un futuro la base dell'aviazione di Aviano in Italia.
Potrebbe già essere operativa per l?aggressione all?Iraq.



Alla Zastava, chi mantiene il posto di lavoro percepisce 100
euro al mese, che se ne vanno quasi tutti in spese di trasporto.
Chi è iscritto all?ufficio di collocamento prende 50 euro. Rajka
ci riferisce di un caso di cui hanno parlato i giornali: un operaio
handicappato si è recato con suo figlio al sindacato. Rischiava di
essere buttato fuori di casa, voleva accamparsi sotto gli uffici del
comune. Non poteva neppure essere aiutato dallo Stato perché
non ha mai fatto la carta di invalidità. Si è impiegato alla
Zastava e quando è stato licenziato è andato a chiedere il
sussidio, ma non gliel?hanno dato perché non risultava
ufficialmente handicappato. Poi è arrivato il compagno Vlaic da
Trieste, dell?associazione ?Zastava?, che, come noi, organizza le
adozioni a distanza, e gli ha dato un sussidio di 600 marchi. Ne
hanno parlato anche i giornali. In questa situazione di sfacelo
?in?i? continua a svendere la dignità nazionale: ultimamente ha
fatto un accordo con la Croazia, i croati possono venire in Serbia
senza visto, i serbi per andare in Croazia devono avere il visto.



La domenica è giorno di distribuzione degli aiuti di Bari ai
bambini della Zastava. Molti bambini li trovo cresciuti, e
questo mi rende felice perché immagino quanti litri di latte
abbiamo potuto regalare loro per aiutarli a crescere. C?è anche la
televisione che ci riserverà cinque minuti al telegiornale della
sera. Ai bambini mi rivolgo così:

Cari bambini, vi porto una carezza e un bacio affettuoso di tutti i
donatori italiani. I nuovi barbari del XXI secolo hanno ora
rivolto le loro pesanti attenzioni ad altri popoli del mondo -
afghano, palestinese, irakeno, cubano, coreano - questi sono
nelle lista nera di chi non perdona i popoli che mantengono un
briciolo di dignità e orgoglio nazionale. Nel nostro paese e in
tutto il mondo spira un vento di destra, il nostro governo di
destra chiude le frontiere a chi vuole venire in Italia e prende le
impronte digitali degli stranieri. Se i nostri governi vogliono
alzare barriere per dividere i popoli, noi le abbatteremo
costruendo ponti di solidarietà. Ogni giorno dobbiamo costruire
argini alla diga della memoria, perché le sue acque non vadano
disperse e possano nutrire le future generazioni. L?oblio non
deve vincere sulla memoria e se anche è doloroso ricordare,
dobbiamo farlo, perché gli errori del passato non si ripetano.
Ma, come diceva Antonio Gramsci, il grande compagno italiano
condannato a morire in carcere dai fascisti: ?pessimismo della
conoscenza, ottimismo della volontà?. Così costruiremo sulle
macerie del mondo prodotte dai nuovi barbari del XXI secolo. Se
ci tenderemo la mano e ci stringeremo in un grande abbraccio
internazionalista, ricostruiremo i ponti distrutti e abbatteremo le
mura delle prigioni del mondo. Varcheremo le colonne d?Ercole
del mondo senza paura di cadere nel vuoto, conosceremo il fondo
della disperazione e risaliremo alla luce cancellando le impronte
digitali della barbarie e costruiremo sulle macerie della inciviltà
i templi di una umanità futura.

Andrea dice:

In questo momento non è facile portare avanti
progetti di solidarietà. I nostri mass media
non parlano più, per nulla, della Jugoslavia.
L?ultima volta che ne hanno parlato con un
certo rilievo è stato quando a febbraio è
iniziato all?Aja il processo contro Slobodan
Milosevi?. È stato annunciato come il ?processo
del secolo?, in cui dimostrare le colpe di
Milosevi? e del popolo jugoslavo per assolvere
la NATO e le sue infamie, ma poiché il processo
non va come vorrebbero gli uomini della NATO,
sul processo è calato il silenzio e di
Jugoslavia, contro cui è stata fatta una guerra
criminale che non si deve dimenticare, non si
parla più. Quello che è stato fatto contro di
voi, viene fatto contro i popoli del mondo che
vogliono vivere onestamente col lavoro. Il
nostro aiuto oggi è quasi simbolico: tre anni
fa con 25 euro si copriva il fabbisogno di una
famiglia per due settimane, oggi non bastano
che per qualche giorno. Ma questo aiuto è
ancora utile perché lega i popoli che rifiutano
la guerra e l?ingiustizia e soprattutto i
lavoratori che stanno combattendo per i loro
diritti. È l?embrione di una resistenza comune
contro il nuovo ordine mondiale che porta
guerra e miseria.Noi vorremmo realizzare un
piccolo, ma per noi importante, libro con le
lettere inviate da molti di voi in Italia. Con
il gruppo teatrale Grammelot di Molfetta
abbiamo organizzato una rappresentazione da
queste lettere che hanno fatto conoscere
Kragujevac più degli articoli dei giornali.
Sono lettere che parlano di speranze, di
condizioni di vita, della guerra, che fanno
conoscere il vostro popolo. Questo libro potrà
aiutare il nostro progetto di solidarietà,
perché sarà una testimonianza delle vostre
reali condizioni, e perché, col ricavato delle
vendite, potrà contribuire ad aiutare altri
bambini, altre famiglie in difficoltà, come è
già stato col libro di poesie Gli assassini
della tenerezza, che ci ha consentito di
consegnare circa 17 milioni di lire. Ci sono
ultimamente notevoli difficoltà nella raccolta
del denaro per le adozioni, molti donatori non
hanno rinnovato il sostegno annuale, ritenendo,
a torto, che - passata la guerra - la
situazione in Serbia sia migliorata. Qui noi
vediamo che le condizioni di vita sono
sensibilmente peggiori. Noi abbiamo cercato di
non abbandonare nessuno, ognuno avrà il suo
piccolo ?stipendio? e spero che siate tutti
d?accordo su questa divisione solidale.

Il segretario del sindacato si dichiara pubblicamente
impressionato dal nostro progetto barese e invita le famiglie a
scriverci e a rivolgersi a Rajka per le traduzioni. Rajka ribattezza
Most za Beograd in Most za Kragujevac.

Rajka, mentre i bambini prendono le buste coi soldi dalle mani
di Lisa e Pierfrancesco, pone sul tavolo un foglio su cui i
bambini annoteranno i pensieri per la piccola Maja, ora in
ospedale a Belgrado. La piccola Marija del PRC di
Grottammare, e così molti altri, doneranno i fiori del loro
giardino a me e a Lisa.

I fiori dei giardini di Kragujevac si ammasseranno sempre
più numerosi sul tavolo e saranno i fiori della riconoscenza,
dell?amicizia, della gentilezza di questo popolo. Molti genitori
mandano saluti ai loro donatori italiani e molti bambini sono al
villaggio, in vacanza dai nonni. Fanno impressione Nemanja, il
ragazzo portatore di handicap adottato a distanza dai lavoratori
dell?aeroporto di Firenze e Irena, la ragazza non vedente adottata
da Pax Christi di Bari, che prendono la busta al braccio del
genitore. Momirka mi regala un sorriso per Salvatore Marci del
Grammelot e la mamma di Veliko mi chiede premurosamente
come sta la signora Piancaldini. Piange la mamma di Bojan,
adottato da Piera e Dario di Roma. La mamma di Miroslav,
adottato da Isabella di Giovinazzo, e la mamma di Nenad,
sostenuto da Salvatore di Bari, e le mamme di tanti altri inviano
saluti ai donatori. Si lamenta la mamma di Danjela, perché la sua
donatrice non ha mai risposto alle lettere, ma io la consolo
dicendo che lei è una donatrice puntuale e generosa e forse c?è
qualche problema con le poste. Darko, adottato da Franco
Selleri, è diventato proprio un bel giovanotto e al mio fianco si
fa fotografare.

Su 216 famiglie, solo 13 non si sono presentate all?assemblea.
Ma verranno nei giorni successivi. Rajka e Milja, nella settimana
precedente il nostro arrivo, hanno telefonato al padrone di casa o
ai vicini di questi operai che non hanno telefono, senza
specificare il motivo della telefonata. Con l?aumento
generalizzato dei prezzi, anche gli affitti sono cresciuti a
dismisura, e molte famiglie sono in arretrato: se i padroni di casa
sanno che arrivano gli aiuti dall?Italia si attaccano subito alle
?paghette? dei bambini per farsi pagare gli affitti arretrati.

In serata, il TiGi locale ci riserverà 5 minuti parlando delle
lettere dei bambini e della nostra associazione. Felicemente
sorpresi, seguiamo la breve intervista alla bambina della nostra
cara amica Marina: la piccola Marija, meno di dieci anni, dice
che la sua giovane donatrice ha avuto una bambina. Alla
domanda ?cosa farà dei soldi??, risponde che comprerà materiale
per la scuola, un?altra bambina comprerà l?occorrente per il
fratellino che sta per nascere.

Oggi un operaio della Zastava ha ammazzato la moglie e poi si
è suicidato: storia di ordinaria follia in un paese normalizzato
dalla Nato e poi da ?in?i?. Più tardi Rajka ci tradurrà qualche
messaggio che i bambini hanno scritto alla piccola Maja. Tra gli
altri, Marja Pani?, la bambina adottata da Livia, dice: ?Quando
guardi il sole, tutte le ombre saranno dietro di te?. Nevena le
augura di guardare la vita in tutti i suoi colori e ?bella mia,
guarisci presto?, le augura un anonimo ammiratore. Questi fiori
della solidarietà, gli assassini della tenerezza non hanno
potuto bruciarli e ?la vittoria è nostra?, come disse Fulvio.



Lunedì, sciopero al reparto armi da caccia, dove lavora la
mamma di Mirjana, che orgogliosamente ci viene incontro da
sotto un tiglio nel giardino della fabbrica e ci spiega che per il
momento si tratta di uno sciopero breve di 20 minuti per
aumenti salariali e la retribuzione delle ferie. Adesso capiamo
perché - a differenza che in altre occasioni - i guardiani avevano
fatto storie all?ingresso della fabbrica, cercando di impedirci di
entrare: avevano avuto ordine dalla direzione, che evidentemente
non gradisce che degli stranieri assistano allo sciopero.



Siamo diretti al museo della fabbrica, che è sotto la
direzione della fabbrica di armi. Al museo, una guida, contenta
di trovarsi con degli storici, ci spiega che questa è la fonderia dei
cannoni, Topolivnica, fondata nel 1851.

Allora il regno serbo era autonomo solo parzialmente, il
governo turco era a Belgrado, all?interno del regno c?erano delle
enclaves autonome. Si era nel romanticismo e il tema della
identità nazionale e dell?irredentismo era favorito dalla Francia
e dalla Russia, che soffiava sul panslavismo. Fino al 1841,
Kragujevac è stata la ?capitale? della Serbia (la capitale ufficiale
era a Belgrado, coi turchi). Fino al 1878 (congresso di Berlino),
le sedute strategiche si tenevano qui. L?educazione e la
formazione professionale erano ancora sotto controllo turco, ma
qui, a Kragujevac, il direttore della fabbrica, il francese Charles
Lubry, ha fondato la prima scuola professionale, nel 1854. I
primi cannoni furono fatti con tecnologia francese.

Siamo attratti da un manoscritto in lingua italiana. È un
rapporto del 1862 del console italiano Scovazza, di Torino
naturalmente, che riferisce che all?epoca c?erano 620 operai.
Scovazza veniva a caccia di lupi e trovava qui selvaggina in
abbondanza. Sui lavoratori serbi esprimeva giudizi lusinghieri.

Col congresso di Berlino, i turchi abbandonarono la Serbia
e il governo non ebbe più interesse per la produzione militare,
rimase solo la scuola professionale di buon livello. Cominciò
allora la produzione civile (campane, cazzuole, carrozze per la
posta). Rajka ci ricorda che tutto l?accessorio per la chiesa del
parco belgradese di Kalemegdan è stato prodotto qui: dai cannoni
fusi fecero campane, al contrario di Pietro il Grande, che dalle
campane del Cremlino fece i cannoni.

Rajka ci fa notare un ritratto di Svetozar Markovi?, il
?Gramsci di Kragujevac?. A Kragujevac viene fondato il primo
giornale socialista, Glas Javnosti, ?foglio per la scienza e la
politica?. I lavoratori di Kragujevac si mostrarono sin
dall?inizio combattivi. Nel 1853 cominciano i primi scioperi
operai contro il lavoro a cottimo. Nel 1875 le elezioni locali
furono vinte dai socialisti, poi annullate, ripetute e rivinte dai
socialisti nel 1876. Esse si lasceranno dietro una scia di scontri a
sangue per le strade della città. Su un muro ci saluta un dipinto
sull?autogestione del pittore Mika Forevi?.

All?inizio del 900 i Mauser tedeschi stavano per fallire e il
governo serbo darà loro più che una mano, con una commessa di
centomila fucili. Ma poi è la guerra, l?ultimatum austriaco alla
Serbia - inaccettabile quanto il famigerato accordo di
Rambouillet - gli imperi centrali aggrediscono il piccolo
giovane paese. Rajka ci mostra orgogliosamente la foto del
primo aereo austro-ungarico colpito nel 1915 - quel giorno è
ancora data di festa per l?esercito. E la mente va al ben più
temibile ?aereo invisibile? americano, che la difesa jugoslava
riuscì ad abbattere nella primavera del 1999. La fabbrica e le
maestranze nella prima guerra mondiale vengono trasferite in
Francia. Corre voce che alla fine della guerra il ministro della
difesa francese si rifiutasse di far rientrare gli operai in Serbia -
erano troppo bravi - e si dichiarasse disposto a scambiare sei
operai francesi per uno serbo. Nel 1928 comincia la produzione
serba dei fucili e nella prima esposizione mondiale francese i
serbi prenderanno 6 medaglie. Spunta il ritratto del dottor
Mihajilo Ili? - medico e parlamentare che difende i diritti dei
lavoratori - il centro ospedaliero della Zastava porta il suo
nome.

Alle soglie della seconda guerra mondiale la fabbrica era
diventata un gigante (12.000 lavoratori). Il 10 aprile 1941
comincia l?occupazione nazista. La fabbrica viene costretta a
produrre per i tedeschi. Gli operai rifiutano. 7.000 abitanti di
Kragujevac, tra cui molti operai della fabbrica e 300 liceali
vengono trucidati. La prima brigata partigiana era composta da
molti operai della fabbrica e su un muro tristemente leggiamo un
messaggio partigiano: ?Ricordatevi di me perché non ci sarò più.
Il vostro infelice Lazar?.

Dopo la guerra, tra il 1948 e il 1953 la produzione militare
viene trasferita in Bosnia, a Sarajevo. Nel 1952 comincia
l?autogestione. Gli operai prendono tutte le decisioni
strategiche sulla produzione. La prima decisione importante è
quella del 1953: un referendum tra i lavoratori chiede se si è
disposti a rinunciare a un mese di salario all?anno per avviare la
produzione automobilistica. Tito non era favorevole all?avvio di
una produzione automobilistica su larga scala, diceva che un
lavoratore non aveva bisogno di automobili. Ma il direttore
Radovi? voleva fortemente l?autogestione e desiderava
collaborare con l?Italia. Così, dal 1953, finisce la produzione di
armi e comincia la collaborazione con la FIAT per la produzione
di automobili. Questo è importante - dice Rajka - perché la
NATO non aveva ragione di bombardare una fabbrica civile.
Con la costituzione della Jugoslavia socialista lo stabilimento si
chiama Zrvena Zastava, ?Bandiera rossa?.



Nel pomeriggio Rajka insiste perché visitiamo una famiglia
profuga del Kosovo che lavorava alla Zastava di Pe?.

Slavica ci racconta, concitata, che la sua famiglia è fuggita in
se­guito alle rappresaglie albanesi: un ultimatum dell?UCK
intimò loro di abbandonare la casa entro 12 ore. Il marito, ora
morto, ebbe un ictus. Slavica ora, vedova, non ha più la­voro,
non ha più una casa, non ha niente. Ora la sua famiglia - due
figlie, di cui una ammalata di dia­bete da stress e un figlio - non
può avere neppure un pasto al giorno dalla cucina popolare
istituita da Milosevi?, perché è stata smantel­lata dal nuovo
governo. Il mese scorso, l?ufficio di collocamento le ha dato
3.500 dinari (poco più di 50 euro). Ora essi vivono in affitto in
una casa ammobiliata. La loro casa a Pe?, costruita coi risparmi
di una vita, ora è occupata da un al­banese, giunto in Kosovo
dall?Albania dopo la guerra della NATO, che le ha chiesto
12.000 marchi per rilasciare la casa. Così Slavica non può
ritornare in Ko­sovo e non può neppure vendere la casa. La
KFOR sa tutto e non fa niente. Lei prende tranquillanti per non
morire di crepacuore. L?affitto le costa 100 marchi al mese e
vor­rebbe vendere almeno il terreno su cui è la sua casa, ormai
rovinata, con i mobili rubati. Tutta Pe? è sotto controllo italiano
e lei non vuol morire senza rivedere la sua città, da cui è fuggita
il 12 luglio 1999, quando è entrata la KFOR. Gli albanesi
dell?UCK avevano fis­sato la data entro cui dovevano sloggiare,
altrimenti sarebbero ve­nuti ad accoltellarli. La KFOR non
garantisce alcuna sicurezza per i serbi dopo che l?esercito
jugoslavo ha abbandonato il Kosovo. E drammatico ritorna il
ricordo della fuga: un vicino di casa ha preso con sé il figlio
diciottenne, Slavica con le ragazze sale su un pullman militare;
due giorni per arrivare a Kraljevo, e poi a Kragujevac. In questi
terribili lunghissimi giorni non sapeva se il figlio fosse vivo o
morto. È vivo per fortuna, e lavora al mercato sotto padrone.



Perché si è fermata a Kragujevac?, chie­diamo. Perché qui aveva
parenti, e poi, lavorando alla Zastava di Pe?, sperava di trovare
lavoro alla Za­stava di Kragujevac. Scappando ha portato con sé
solo la foto della sua casa - ce la mostra e le si spezza il cuore. I
600 marchi che le ha por­tato Lino Anelli, del coordinamento
RSU e promotore dell?associazione ?Non bombe, ma solo
caramelle?, li hanno salvati. Intanto le ragazze si misurano gli
abiti che abbiamo portato in dono e per un momento sorridono
felici. Ci sono molte famiglie come la sua, non censite. Ci
offrono, scu­sandosi, frutta di non bell?aspetto e succhi di frutti
di bosco fatti arti­gianalmente. Chiedo a Rajka come fa a
sopravvivere vedendo questa situazione tutti i giorni. La risposta
è: sarà un?esplosione. La ragazza è ammalata di diabete e
prenderà in­sulina due volte al giorno per tutta la vita. Ora
Slavica non può nep­pure andare al centro collettivo dove sono
alloggiati i profughi perché questi centri non sono più appoggiati
da nessuno, come nes­suno appoggia le mense popolari. Per un
anno hanno vissuto in una stanza col marito malato e la chiesa
non li ha aiutati. Da quando il ma­rito è morto, tutte le porte si
sono chiuse, le figlie hanno finito la scuola e vorrebbero
lavorare, ma il lavoro non c?è. Qui sono come in prigione.
Slavica lavorava alla Za­stava di Pe? dove si producevano telai
esportati a Brescia e dove c?era una pressa di 300 tonnellate, la
più grande dei Balcani. Un tempo era una persona felice, le
nascevano i figli, non si preoccu­pava del futuro, prima con gli
albanesi lavorava insieme senza problemi.

Mentre annoto tutti i particolari del racconto, mi rendo conto
che per oggi ho fatto i pieno di miseria umana e mi chiedo che
male avrò mai fatto io a passare le vacanze in questa maniera e
cerco di uscire da questa tela di ragno della disperazione
pensando vigliaccamente ai verdi peperoncini piccanti che ci
attendono a casa del vicesegretario dove prepareremo la sera le
penne all?arrabbiata per sottrarci ad una ennesima cena
pantagruelica delle nonne di Kragujevac.



Martedì 23: visita al museo della memoria nel parco
Sumarice. Davanti ai nostri occhi, come grani di rosario, sfilano
foto di persecuzioni ustascia contro donne, bambini, serbi,
zingari, ebrei. Vediamo il campo di Jasenovac, dove nel giugno
1942 ci fu un?esecuzione di 8000 donne e bambini e il campo
Mlaka di Kozara, con 7000 vittime, nel villaggio di Slavostina,
dove furono uccisi 1165 prigionieri di Kozara. Nel campo di
tortura di Stara Gradiska furono asfissiati 19000 bambini col
with potassium cianide. Queste foto di bambini sono
agghiaccianti, tanto sono magri e scheletriti e mi rendo conto che
gli ebrei non hanno il monopolio del martirio. Il ministero del
governo croato risolse la questione zigana massacrando tutti gli
zingari. Sono visibili anche i bambini ustascia con divisa
giannizzera, i futuri persecutori, ed ecco l?aguzzino ustascia
Gustav Majer, di 36 anni, fotografato in mezzo al massacro di
serbi a Dubica nell?estate 1942.

Finito di visitare questo museo degli orrori dove ci raggiunge
Mira con le sue sorelle, ci rechiamo al Parco della memoria, al
monumento delle Ali Spezzate per ricordare il massacro nazista
di 7000 abitanti di Kragujevac, di cui 300 liceali e il professore
che disse: ?sparate pure, io continuo la mia lezione?. Poco
distante, è il monumento chiamato ?Fiore?, dedicato agli
zingarelli che furono trucidati dai nazisti per essersi rifiutati di
pulire i loro stivali insanguinati dopo l?eccidio dei 7000. Su una
pietra sono incise le parole del poeta Karel Jonker:

Tutto quello che sento dall?erba si illumina,
non lo può dire la mia voce umana, tutti i
bambini uccisi sembrano cicale con voci di
bambini.

Noi allora abbiamo teso l?orecchio per sentirle queste voci,
abbiamo scrutato l?erba, le cicale però erano mute, ma io ne
avvertivo la presenza, le sentivo palpitare e ci osservavano
dall?erba e stavano per scoppiare a furia di trattenere il respiro.
La piccola Nevena ci fa da guida e conosce la storia della
resistenza che studia a scuola, chissà per quanto tempo ancora in
quest?epoca di revisionismi.

In macchina ascoltiamo canzoni dalla voce sensuale della
moglie di Arkan. A casa di Rajka ascoltiamo canzoni jugoslave e
una grande emozione ci prende quando ascoltiamo Kosovo leti
che ha fatto da sigla al bellissimo film di Grimaldi, ?Un popolo
invisibile?, girato sotto le bombe della NATO. La canzone
significa ?voliamo in Kosovo? e ricorda la battaglia di Kosovo
Polje del 1389, in cui i serbi furono sconfitti dai turchi. Muti,
ammaliati, ascoltiamo questa canzone dal ritmo incalzante e tutti
ricordano Fulvio per quello che fa per far conoscere al mondo la
verità su quella sporca guerra contro il popolo serbo. E così
immagino Fulvio, che, in silenzio, entra in salotto e prende dalle
mani di Rajka il gelato e la slivovica e c?è anche Sandra, con la
sua macchina da presa, e il bassotto Nando, che dorme acquattato
ai nostri piedi e gusta con particolare soddisfazione il gelato
fatto in casa.



A Belgrado, andremo a visitare la piccola Maja in ospedale.
L?ospedale è grande, ma all?interno ha un?aria familiare. Alle
pareti ci sono disegni di piccoli pazienti che hanno soggiornato
qui in passato. Nello stesso reparto ci sono adulti e bambini, ma i
bambini hanno delle camere a parte. Maja sta ascoltando la
radiolina che le avevamo regalato nel nostro precedente viaggio
e ci accoglie col suo sorriso disarmante e radioso. Ci aiutano
nella conversazione Gordana, dell?associazione Decia Istina (la
verità dei bambini), con cui abbiamo avviato progetti di
solidarietà, e Ana, coetanea di Maja, che parla altrettanto bene il
serbo che un italiano venetizzante: vive a Mestre da qualche anno
e torna in Serbia per le vacanze.

La collina di Avala, simbolo di Belgrado, ci saluta tristemente
con la torre TV distrutta dalla NATO il 25 aprile del 1999. La
sera, di ritorno a Kragujevac, alla sede del sindacato ci
riempiono di regali per i donatori, ce n?è uno anche per Gemma
e Carlo, che sono finiti sul giornale per la loro intenzione di
donare ai bambini della Zastava il ricavato dei regali delle loro
nozze.



Giovedì all?alba, sotto una pioggia malinconica e discreta,
lasciamo Kragujevac e ci scrolliamo di dosso il verde fogliame
di parco Sumarice. All?orizzonte sorridono già le meline di
Novi Pazar e ci salutano come i bambini di Kragujevac con le
loro manine. Ormai siamo sulla strada di casa e il nostro salto a
Sofia è sfumato, perché Rajka, Milja e tutto lo staff del sindacato
hanno sequestrato e trattenuto più del dovuto a Kragujevac dei
prigionieri consenzienti. Mentre il nostro viaggio procede muto
e fangoso, ticchettano sui vetri le goccioline di pioggia e
canticchiano in coro: in un giorno di primavera del 1957, sono
andata da Varna a Sofia, insieme con il mio compagno Nazim
Hikmet. Si spandeva ?nell?aria un profumo di rose che prende la
gola? e, mentre incontravamo lungo la strada tanti noci e tigli e
?noi eravamo le noci?, mi sussurrò dolcemente nell?orecchio
questa poesia che ha il sapore di una nenia senza tempo:

Impossibile dormire la notte

qui a Varna

impossibile dormire

per via di queste stelle

che son troppe

troppo lucide e troppo vicine

per via del mormorio

sul greto dell?onde morte

il loro sussurro

le loro perle

i loro ciottoli

le alghe salate

per via del rumore

di un motore sul mare

come un cuore che batte

per via dei fantasmi

venuti da Istanbul

sorti dal Bosforo

che invadono la stanza

gli occhi verdi dell?uno

le manette ai polsi dell?altro

un fazzoletto nelle mani dell?altro

un fazzoletto che sa di lavanda

impossibile dormire la notte

qui a Varna

mio amore

qui a Varna, all?albergo Bor.

Nazim, il compagno di una vita, esperto di separazioni e
ammalato di nostalgia, morto a Mosca in esilio nel 1963. Lui sì
che se ne intendeva di veri tiranni (mica come Milosevi? o
Saddam Hussein o Fidel Castro!!). Il tiranno che lo condannò a
morte per 7 volte era Kemal Ataturk, il ?padre della repubblica
turca?, che in segreto, però, si faceva leggere le poesie del suo
odiato-amato nemico Nazim Hikmet ed esclamava ad alta voce
che era il poeta più grande della Turchia, concludendo ?peccato
però che sia comunista?. Jean Paul Sartre e la solidarietà
internazionalista lo tirarono fuori dalla prigione e dalla forca
dove ?la mano pelosa di uno zingaro? gli avrebbe stretto un
cappio intorno al collo. Mentre le sue dolci parole mi riportano
indietro nel tempo ed ho ancora nelle narici ?odor d?alcanna e di
verde?, il volo di una tortora da un cespuglio mi fa ritornare alla
realtà: ma io ? sono nata nel 1950 e non sono mai stata a Sofia e
a Varna con Nazim. Ma sì, che importa, questo viaggio l?ho
fatto con lui in un?altra vita, immersa nel suo libro che, come la
bussola della mia vita, è il primo oggetto che ripongo nel mio
zaino quando viaggio per ritrovarmi.

Separarmi da questa terra mi è quasi impossibile! Nelle
albe del ramadan un filo di lana segna il limite tra la notte e il
giorno: così, appena percepibile è il confine tra me e questa terra
e dolce e tenera tracima la separazione, come il miele dalle arnie
di Mora?a. Aprire e chiudere una parentesi con questa terra è
come rivisitare un fiore appassito in un vocabolario di tutte le
lingue, nella speranza di trovare la traduzione aggiornata della
parola ?perché??: perché questa terra è stata uranizzata,
barbarizzata, come un fiore reciso per puro divertimento e poi,
calpestato dagli scarponi incivili dei cow boy della NATO,
abbandonata agonizzante in un prato nella primavera del 1999?
Sarà l?ennesimo enigma balcanico? L?Aja è lontana e di
Milosevi? meglio non parlare, non si sa mai, i nostri governanti
di quella disgraziata primavera ?99 potrebbero degnamente
prenderne il posto e forse, se esiste il padreterno, anche i soldati
americani e l?alleanza del nord, dopo l?11 settembre in
Afghanistan. Dal 1973 ogni anno l?11 settembre sboccia nella
mente e nel cuore il ricordo di Salvador Allende che muore alla
Moneda bombardata da cielo e da terra da Pinochet e dai suoi
padroni americani!



Mentre la pioggia si fa insistente e gelida sui vetri della Land
Rover e superiamo una lunga fila di mezzi militari; insonnoliti
soldatini sgranocchiano le meline del Sangiaccato e il fumo del
tabacco balcanico, confuso con quello di uno sbuffoso samovar?
disegna arabeschi che danzano sul soffitto dei teloni cerati.
Distrattamente i soldatini lanciano un?occhiata ad una
misteriosa cassa che trasportano in località segreta e da cui m è
sembrato di avvertire un ticchettio a me familiare. Sarà forse il
mio cuore che mi fu sequestrato nell?autunno 2001 da un gelido
doganiere balcanico? E dove lo portano? E per quanto tempo
sarà ancora prigioniero di questa terra? E perché non mi è stato
ancora restituito? Forse me lo riconsegneranno alla frontiera!
Ormai, se sogno o son desta non importa ? e la calda focaccia di
nonna Rada va a riscaldare i miei pensieri che come infreddoliti
passeri, lancio verso il sole...