ROSSO XXI°
Periodico del Movimento per la Confederazione dei Comunisti
http://www.confederazionecomunisti.it/ROSSOXXI.htm
N° 12 - SETTEMBRE 2002
IL "PROCESSO MILOSEVIC" E L'IMPERIALISMO
di Aldo Bernardini
(terza parte)
(La prima e la seconda parte sono state da noi ricavate dall'unico lungo
articolo apparso sul n° 11 di Rosso XXI - che si trova alla URL:
http://www.confederazionecomunisti.it/Il%20processo%20
Milosevic%20e%20l%27imperialismo.htm
La quarta ed ultima parte segue invece nel prossimo messaggio. CNJ)
5. Si sarebbe solo dovuta attendere la prossima crisi, già
programmata, perché ordita da tempo nei quartieri generali
occidentali, nell?intento pervicace di combattere la
(restante) Jugoslavia, uno Stato indipendente e sovrano,
sottraendo ad essa foglia a foglia parti del territorio, e
con l?ulteriore obiettivo parimenti illecito di provocare
mutamenti nella sua dirigenza, refrattaria - con pieno
diritto - a rendersi subalterna agli Stati dominanti, a
differenza da quelle delle Repubbliche secessioniste
(fallirono allora in definitiva i tentativi di porre anche
alla testa della Jugoslavia governanti Quisling del tipo di
Milan Panic, all?epoca neppure cittadino jugoslavo, che la
pressione occidentale era riuscita a far nominare primo
ministro federale il 14 luglio 1992, ma che nelle elezioni
presidenziali serbe del 20 dicembre dello stesso anno, come
visto, aveva perduto di larga misura nei confronti di
Milosevic e dové abbandonare la scena jugoslava).
Come da copione ormai sperimentato nella graduale distruzione
della Jugoslavia, gli Stati occidentali si sono inseriti
nella crisi del Kosovo, fomentando al solito e sostenendo in
tutti i modi le spinte secessionistiche di una parte della
componente albanese, sempre in nome di un distorto concetto
di autodeterminazione. Qui va spesa una parola per
rettificare un?altra delle tante vulgate occidentali:
l?autonomia del Kosovo, provincia autonoma della Repubblica
serba, a sua volta membro federato della Jugoslavia, non era
stata annullata nel 1989, bensì solo riportata alla misura
pre-Costituzione federale del 1974, che - lo abbiamo già
visto - l?aveva ampliata in modo non compatibile con lo
status di entità autonoma di secondo grado (provincia, non
Repubblica federata): una situazione, della quale parte della
componente albanese, stimolata anche dall?esterno, aveva
profittato per pretese secessionistiche pure condite con
episodi di terrorismo. Va qui menzionato che uno squilibrio
demografico tra serbi e albanesi, a favore di questi ultimi,
in Kosovo, una ?regione? storicamente legata alla Serbia pur
fra travagliate vicissitudini, era stato accentuato durante
l?occupazione fascista nella seconda guerra mondiale e non
riparato, anche per esigenze di politica internazionale, da
Tito nel dopoguerra. Appunto nel regime della Costituzione
del 1974 di autonomia quasi repubblicana i kosovaro-albanesi
sviluppano una politica, anche con episodi di violenza (nel
1981, poco dopo la morte di Tito, i primi gravi moti vengono
repressi con il concorso delle stesse autorità
kosovaro-albanesi), che squilibra ulteriormente il rapporto
(dal 27,5% del 1948 i serbi cadono nel 1981 al 13,2%). In
situazioni del genere, e purché vi sia un regime di
autonomia, la maggioranza di una ?regione? non acquisisce
peraltro sul piano internazionale un ?diritto di
autodeterminazione?, nel senso della secessione (si pensi
all?Alto Adige-Sud Tirolo).
Apparve inevitabile, nell?aggravarsi delle tensioni in Kosovo
e fra i già forti segnali di disgregazione nella Jugoslavia,
la modifica costituzionale del 1989: ma questa avvenne, sulla
base costituzionale jugoslava dell?epoca (fu in particolare
accettata, il 23 marzo, dall?assemblea provinciale kosovara -
pur se qualcuno ha rilevato forzature - e, il 28, da quella
repubblicana serba): non dunque, come si pretende, solo
decisione serba e addirittura del solo Milosevic; ed essa
riguardò poi anche, ovviamente, la Vojvodina (Costituzione
serba del 1990). Del resto, fu la presidenza federale a
decretare, il 12 maggio 1989, lo stato di emergenza nel
Kosovo. Che anche da parte dei serbi possano esservi stati
errori ed eccessi, non può negarsi: che una restrizione
dell?autonomia precedente quasi repubblicana sia stata
risentita sfavorevolmente da gran parte della componente
kosovaro-albanese, può essere comprensibile. E? un fatto però
che la sostanza dell?autonomia per questa componente restò in
vita e che soltanto (e di nuovo!) un eccesso di umori
nazionalistici - interni, ma ancora eccitati e favoriti
dall?esterno - spinse larga parte della componente
kosovaro-albanese a non avvalersi degli istituti di
quell?autonomia, bensì a rifugiarsi in istituzioni
?parallele? (si arrivò, dopo vari passi, alla proclamazione,
da parte della maggioranza dell?assemblea di Pristina, della
?separazione politica? dalla Serbia, con la conseguenza dello
scioglimento - 5 luglio - dell?assemblea stessa per decisione
delle autorità serbe, che assunsero i pieni poteri nella
provincia; l?assemblea però formalmente sciolta si riunì in
località segreta, e si arrivò a una ?Costituzione? del Kosovo
approvata dagli albanesi il 7 settembre e alla proclamazione
del Kosovo come repubblica sovrana il 12 settembre 1990 e
quindi, il 22 settembre 1991, alla dichiarazione
dell?indipendenza del Kosovo stesso confermata da un
referendum nella componente albanese tra il 26 e il 30
settembre, con successive elezioni di un parlamento e di un
presidente - Rugova, 22 maggio 1992 -, il tutto ovviamente
fuori dal quadro costituzionale jugoslavo). Si trattò di
operazioni anch?esse sostenute dall?esterno: tutto ciò
certamente non fonda sul piano giuridico un ?diritto di
autodeterminazione?. E? vero che neppure ne risultò favorita
la pacificazione: seguirono tensioni e incidenti e misure
jugoslave ?di ordine pubblico?, anche fortemente restrittive.
Ma ciò non avrebbe consentito agli occidentali di arrogarsi
di entrare in una questione interna di uno Stato sovrano -
tale certamente: così viene considerata per la Russia, ad
es., la questione cecena, per la quale gli occidentali hanno
rinunciato a velleitarie ingerenze, almeno sul piano
ufficiale, e si tratta di una questione che presenta
fortissima analogia con quella del Kosovo -, cercando di
ostacolare gli sforzi jugoslavi di comporre la crisi anche
con l?inevitabile impiego dell?esercito federale:
retrospettivamente, secondo quanto chi voleva vedere già
sapeva, ma che oggi si impone a tutti, dovendosi riconoscere
che perdite umane e danni sarebbero stati infinitamente
minori senza l?azione degli occidentali. Ma non era il minor
danno la finalità dell?ingerenza. Dobbiamo comunque ricordare
che il II Protocollo del 1977, aggiunto alle Convenzioni di
Ginevra del 1949 sul diritto di guerra, e mirante ad
estendere i trattamenti umanitari ai ?conflitti interni?,
vieta espressamente qualunque ingerenza e intervento esterno
pur motivato da asserite violazioni del Protocollo stesso.
Non possiamo ripercorrere le tappe di un?azione ancora una
volta criminalmente illecita. Basta segnalare il salto
qualitativo della trasformazione, proclamata a un certo punto
dagli Stati occidentali, dell?organizzazione paramilitare
secessionistica kosovaro-albanese, per lungo tempo
stigmatizzata come terroristica, e cioè l?Uck (Esercito per
la liberazione del Kosovo - o Kosova, secondo la dizione
albanese) - notoriamente da sempre finanziata da ambienti
occidentali -, in organismo di lotta per
l?autodeterminazione! Prime azioni terroristiche dell?Uck con
uccisione di serbi in Kosovo vengono segnalate già
nell?aprile 1996.
Non va dimenticato che, a partire da metà anni ?90, su spinta
del Partito socialista e di Milosevic, era stata arrestata,
almeno in Serbia, l?ondata liberistica in economia che, ai
primi del decennio, aveva investito anche la residua
Jugoslavia: venne sostituito l?ultraliberista banchiere
centrale Abramovic, lo Stato riprese il controllo
dell?industria farmaceutica, colpendo interessi in
particolare americani e così via.
E? in questo contesto che il Consiglio di sicurezza (C.d.s.)
riprende ad occuparsi della Jugoslavia: precisamente, della
questione interna del Kosovo, della c.d. guerra civile, in
realtà attività terroristica. E? noto che soprattutto dal
1998 la guerriglia dell?Uck albanese - che la Jugoslavia nel
1997 aveva quasi risolto - si intensificò, sotto precise
spinte occidentali (si ricordi la nota Védrine; e la
dichiarazione di Madeleine Albright del 9 marzo 1998, per cui
?la questione del Kosovo non è affare interno della
Jugoslavia?!). La reazione jugoslava fu in linea di principio
assolutamente legittima: è peraltro verosimile che in alcuni
casi, soprattutto da parte dei gruppi paramilitari, vi
possano essere stati degli eccessi anche gravi, del resto
controbilanciati da azioni di parte kosovaro-albanese. Nel
1998 furono prese talune risoluzioni del C.d.s. che, nel
complesso, condannavano contemporaneamente l??uso eccessivo
della forza? ad opera della polizia jugoslava e gli atti di
terrorismo di parte albanese e definivano i principi per una
soluzione della questione del Kosovo, un?operazione che, al
di là del merito, appare formalmente un?ingerenza nei fatti
interni jugoslavi (si trattava comunque della riaffermazione
dell?integrità territoriale della Jugoslavia e di un maggior
livello di autonomia per il Kosovo): fino alla ris. 1203 del
24 ottobre 1998 che ribadiva la condanna degli atti di
violenza da ogni parte e l?esigenza di impedire una
catastrofe umanitaria e prendeva poi atto di accordi firmati
il 16 ottobre 1998 da Jugoslavia e OSCE e il 15 ottobre 1998
da Jugoslavia e NATO, relativi alla verifica degli
adempimenti jugoslavi. Si sottolineava da ultimo l?urgenza
che Jugoslavia e dirigenti albanesi del Kosovo entrassero in
un dialogo effettivo senza precondizioni e con coinvolgimento
internazionale per una soluzione politica negoziata della
crisi. Quest?ultima clausola si riferisce a futuri negoziati,
che saranno poi quelli tragici e grotteschi di Rambouillet:
fu naturalmente allarmante l?imposizione del ?coinvolgimento
internazionale?, che preparò l?ingerenza dei ?soliti noti?
con le conseguenze estreme che si sono poi avute.
E? un fatto che la Jugoslavia iniziava ad adempiere le
esigenze prospettate, per quanto, ribadiamo, secondo noi, a
suo danno illecite: ma l?Uck profittò del ritiro delle forze
jugoslave per riprendere e rafforzare le sue posizioni. Fu
questo che costrinse la Jugoslavia ad un?azione di
contenimento e di controffensiva.
In un clima di tensione e di totale partigianeria dei
?dominanti?, anche della stessa missione OSCE (si scatena una
campagna per l?asserito eccidio di Racak del 5 gennaio 1999,
dove si svolse un combattimento, e si ebbero 45 morti
albanesi, a proposito del quale successivamente emergeranno
elementi di grave mistificazione ai danni degli jugoslavi),
riprende l?esorbitante pressione occidentale e si aprono le
c.d. trattative di Rambouillet fra i principali Stati NATO
(il Gruppo di contatto), la Jugoslavia, i dirigenti
secessionisti kosovaro-albanesi (da parte occidentale si
parla sempre di ?accordo? di Rambouillet, pur se nessuna
formale conclusione vi sia stata: sembra patetico dover
segnalare gli abusi sinanco linguistici provenienti da quella
parte). La Jugoslavia si dimostrò pronta ad accettare molte
delle clausole del regolamento progettato (si direbbe meglio,
comminato dai ?soliti noti?): questo sfociò in una bozza di
accordo del 23 febbraio 1999, nella quale furono inserite
all?ultimo momento condizioni assolutamente inaccettabili,
quali una, sia pur larvata nei termini, prefigurazione di un
distacco del Kosovo dalla Jugoslavia (nonostante una formale
dichiarazione di principio sul rispetto dell?integrità di
questa) e la completa libertà di ingresso e circolazione,
addirittura con totale esenzione giurisdizionale, delle forze
NATO - a quell?organizzazione veniva affidato il compito di
costituire e guidare una forza militare multinazionale per
assicurare l?adempimento dell?accordo - in tutto il
territorio della Federazione jugoslava: un?occupazione cioè
dell?intero Stato. Il rifiuto di firma da parte jugoslava,
veniva espressamente detto, sarebbe stato sanzionato con
bombardamenti. Dunque, un diktat che si commenta da solo.
La Jugoslavia non si piegò: un rifiuto inevitabile e, va
detto senza esitazioni, eroico.
I selvaggi bombardamenti aerei scatenati dal 24 marzo 1999
sulla Jugoslavia da parte di 10 Stati della NATO agenti nel
quadro dell?organizzazione atlantica, durati 78 giorni
(operazione Determinate Force, marzo-giugno 1999) provocarono
perdite umane civili jugoslave (anche kosovaro-albanesi!),
distruzioni, catastrofi ambientali, pure con l?uso di
proiettili all?uranio impoverito (e dunque clamorose ferite
anche dello jus in bello, concretanti crimini di guerra e
contro l?umanità da parte degli Stati NATO e dei loro
dirigenti, sono stati iniziati persino senza l?avallo formale
del C.d.s., che non venne neppure previamente convocato. I
piani NATO erano già stati elaborati dal giugno 1998; nel
gennaio 1999 il segretario generale Solana dichiarò che la
NATO avrebbe potuto colpire senza preavviso (quindi, anche ad
esclusione delle N.U.). Si deve sottolineare che le ultime
risoluzioni del C.d.s. sulla questione non avevano sancito in
alcun modo il ricorso alla forza e consideravano ugualmente
responsabili le due parti del conflitto civile. Una riunione
del 26 marzo 1999, due giorni dopo l?inizio dell?aggressione
aerea, vedeva i delegati statunitense e britannico
giustificare i bombardamenti al fine - come dichiaravano - di
prevenire ?un?enorme catastrofe umanitaria?, che ambedue
riconoscevano però non in atto, bensì ?imminente?. Era facile
per il delegato russo esprimersi in questi termini: ?i membri
della NATO non hanno titolo per decidere il destino di altri
Stati indipendenti e sovrani. Non devono dimenticare che non
sono soltanto membri della loro alleanza, ma anche membri
delle N.U. e che hanno l?obbligo di ottemperare alla Carta
delle N.U., in particolare all?art. 103, che chiaramente
stabilisce l?assoluta priorità, per i membri, degli obblighi
della Carta su ogni altro obbligo internazionale. I tentativi
di giustificare gli attacchi NATO con argomenti sulla
prevenzione di una catastrofe umanitaria sono del tutto
insostenibili. Essi non sono basati in alcun modo sulla Carta
o su altre norme generalmente riconosciute dal diritto
internazionale, mentre l?uso unilaterale della forza condurrà
precisamente a una situazione con conseguenze umanitarie
veramente devastanti??. Quanto al delegato indiano, rilevava
che ?ciò che è particolarmente irritante è che tanto il
diritto internazionale quanto l?autorità del C.d.s. vengono
irrisi da paesi che pretendono di essere campioni della norma
di diritto e che includono membri permanenti del C.d.s., il
cui interesse principale dovrebbe senza dubbio risiedere
nell?incrementare piuttosto che nel minare la preminenza del
C.d.s. nel mantenimento della pace e della sicurezza
internazionali?. Da queste dichiarazioni si intende la
ragione reale dello scatenamento unilaterale: la facile
previsione che l?enormità di quanto si intendeva compiere e
che Rambouillet aveva lampantemente svelato agli occhi del
mondo, facendo intendere a chi non si chiudesse gli occhi che
ben altre erano le finalità dell?azione di violenza rispetto
a quelle ?umanitarie? gabellate, non avrebbe con tutta
probabilità consentito al C.d.s. di decidere nel senso che da
parte occidentale si voleva imporre. Il pretesto sbandierato
era stato, come detto, un?asserita catastrofe umanitaria, che
sarebbe stata provocata dall?azione jugoslava: dimenticandosi
che questa era in principio assolutamente legittima (ne fa
fede il già ricordato II Protocollo del 1977), pur forse con
eccessi dolorosi inevitabili in un conflitto interno, per di
più attizzato da fuori, ma attribuibili ad ambo le parti, gli
aggressori si fondarono sul pretesto di una catastrofe che a
quanto oggi si sa altro non fu che fola artificialmente
propalata e che nella sua realtà venne piuttosto provocata
dai bombardamenti aerei: riferire la tragedia dei profughi a
diabolici piani jugoslavi piuttosto che ai barbarici
bombardamenti NATO e magari a contromisure jugoslave di
guerra o anche a reazioni sempre jugoslave in episodi singoli
in sé talora non giustificabili, ma difficilmente
controllabili nel caos suscitato dall?aggressione aerea,
appare di un cinismo smisurato.
Un?aggressione, dunque, mascherata da intervento
?umanitario?, una figura tipica dell?epoca coloniale e
respinta dal diritto internazionale e dalla stessa Carta
delle N.U., nonostante correnti capziose interpretazioni
contrarie.
E? probabile ci si illudesse su un collasso jugoslavo dopo
tre o quattro giorni di bombardamenti. Ma certo ha avuto peso
il ricatto della continuazione dei bombardamenti: se ne deve
ritenere inficiata la validità giuridica delle soluzioni
imposte alla Jugoslavia con accordi armistiziali conclusi
sulla base di principi generali risultanti da una riunione
del 6 maggio 1999 degli Stati appartenenti al gruppo dei G-8:
Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Gran Bretagna,
Stati Uniti e Russia: escono allo scoperto in questo modo, a
parte il Giappone, i decisivi Stati NATO (i ?soliti noti?),
con il coinvolgimento della Russia che aveva tentato
un?azione mediatrice. Ci si potrebbe domandare che cosa il
G-8 avesse a che fare con la questione. Si arrivò comunque
all?accordo militare e tecnico del 9 giugno 1999 fra
Jugoslavia e NATO, con cui la prima accettava di ritirare le
sue forze armate dal Kosovo e la NATO, bontà sua, di
interrompere i bombardamenti aerei.
Ancora una volta (!) la sostanza di tale sistemazione veniva
trasferita in una risoluzione del C.d.s.: la 1244 del 10
giugno 1999, presa con l?astensione della Cina (che fra
l?altro si era pronunciata contro ogni riferimento al
Tribunale penale internazionale dell?Aja). A termini di
questa, la provincia serba del Kosovo, entro la Federazione
jugoslava, viene ?provvisoriamente? staccata dallo Stato
legittimo: si autorizzano gli Stati membri e ?le rilevanti
organizzazioni internazionali? (!) a istituire in Kosovo una
?presenza di sicurezza internazionale?, e il segretario
generale, ?con l?assistenza delle rilevanti organizzazioni
internazionali? (!!), a stabilire nella provincia ?una
presenza civile internazionale? per assicurare
l?amministrazione provvisoria del territorio (UNMIK: United
Nations Mission in Kosovo). Quanto alla forza di sicurezza
(KFOR: Kosovo Force), essa fu costituita con una ?sostanziale
partecipazione della NATO? (formula che ha consentito la
partecipazione della Russia, estranea alla NATO), sottoposta
?ad un comando e controllo unificato? e con il compito di
?stabilire un ambiente sicuro per tutta la popolazione in
Kosovo e facilitare il ritorno sicuro a casa di tutti i
profughi e rifugiati? (compito ampiamente disatteso). Se da
una parte si riafferma ?l?impegno di tutti gli Stati membri
per la sovranità e integrità territoriale della Jugoslavia?,
dall?altra viene previsto ?il sostanziale autogoverno del
Kosovo, tenendo pieno conto degli accordi di Rambouillet?:
cioè di quello strumento, che poi accordo non è, il quale
avrebbe aperto la strada ad un distacco del Kosovo dalla
Jugoslavia.
E? sotto gli occhi di tutti quanto sta avvenendo in Kosovo:
la stessa ris. 1244, come puntualmente rileva un memorandum
del governo jugoslavo, viene costantemente violata dagli
occupanti e dall?amministrazione civile, che ha nei fatti
consentito una vasta operazione di ?pulizia etnica? ai danni
non solo dei serbi ma di tutte le componenti non albanesi in
Kosovo (e contro gli stessi albanesi leali nei confronti di
Belgrado). L?aver affidato a forze esterne la soluzione di
una questione interna non si dimostra, neppure praticamente,
soluzione efficace. Ma l?ingresso consentito agli Stati NATO
e alla stessa organizzazione atlantica è ovviamente del tutto
illecito (la NATO nulla ha a che fare con i Balcani). Gli
occidentali hanno parzialmente raggiunto una delle loro
finalità, il (provvisorio?) distacco del Kosovo dalla Serbia
e quindi dalla Jugoslavia: ma, sia pur con la menzionata
ambiguità, per ora sul piano giuridico è sancita
l?appartenenza della provincia alla Federazione. Non hanno
invece né potuto occupare l?intera Jugoslavia attuale né
provocare subito la agognata caduta del legittimo presidente
Milosevic: contro il quale ogni tipo di manovra e
provocazione è stato considerato lecito, dalla strumentale
?incriminazione? da parte dell?abusivo Tribunale penale
internazionale dell?Aja ai complotti omicidi e, quindi, alla
replica di un copione secessionistico con riguardo al
Montenegro (quest?ultima manovra incappò per allora in
qualche colpo di freno).
(3, segue. URL:
http://www.confederazionecomunisti.it/Il%20processo%20
Milosevic%20e%20l%27imperialismo2.htm )
Periodico del Movimento per la Confederazione dei Comunisti
http://www.confederazionecomunisti.it/ROSSOXXI.htm
N° 12 - SETTEMBRE 2002
IL "PROCESSO MILOSEVIC" E L'IMPERIALISMO
di Aldo Bernardini
(terza parte)
(La prima e la seconda parte sono state da noi ricavate dall'unico lungo
articolo apparso sul n° 11 di Rosso XXI - che si trova alla URL:
http://www.confederazionecomunisti.it/Il%20processo%20
Milosevic%20e%20l%27imperialismo.htm
La quarta ed ultima parte segue invece nel prossimo messaggio. CNJ)
5. Si sarebbe solo dovuta attendere la prossima crisi, già
programmata, perché ordita da tempo nei quartieri generali
occidentali, nell?intento pervicace di combattere la
(restante) Jugoslavia, uno Stato indipendente e sovrano,
sottraendo ad essa foglia a foglia parti del territorio, e
con l?ulteriore obiettivo parimenti illecito di provocare
mutamenti nella sua dirigenza, refrattaria - con pieno
diritto - a rendersi subalterna agli Stati dominanti, a
differenza da quelle delle Repubbliche secessioniste
(fallirono allora in definitiva i tentativi di porre anche
alla testa della Jugoslavia governanti Quisling del tipo di
Milan Panic, all?epoca neppure cittadino jugoslavo, che la
pressione occidentale era riuscita a far nominare primo
ministro federale il 14 luglio 1992, ma che nelle elezioni
presidenziali serbe del 20 dicembre dello stesso anno, come
visto, aveva perduto di larga misura nei confronti di
Milosevic e dové abbandonare la scena jugoslava).
Come da copione ormai sperimentato nella graduale distruzione
della Jugoslavia, gli Stati occidentali si sono inseriti
nella crisi del Kosovo, fomentando al solito e sostenendo in
tutti i modi le spinte secessionistiche di una parte della
componente albanese, sempre in nome di un distorto concetto
di autodeterminazione. Qui va spesa una parola per
rettificare un?altra delle tante vulgate occidentali:
l?autonomia del Kosovo, provincia autonoma della Repubblica
serba, a sua volta membro federato della Jugoslavia, non era
stata annullata nel 1989, bensì solo riportata alla misura
pre-Costituzione federale del 1974, che - lo abbiamo già
visto - l?aveva ampliata in modo non compatibile con lo
status di entità autonoma di secondo grado (provincia, non
Repubblica federata): una situazione, della quale parte della
componente albanese, stimolata anche dall?esterno, aveva
profittato per pretese secessionistiche pure condite con
episodi di terrorismo. Va qui menzionato che uno squilibrio
demografico tra serbi e albanesi, a favore di questi ultimi,
in Kosovo, una ?regione? storicamente legata alla Serbia pur
fra travagliate vicissitudini, era stato accentuato durante
l?occupazione fascista nella seconda guerra mondiale e non
riparato, anche per esigenze di politica internazionale, da
Tito nel dopoguerra. Appunto nel regime della Costituzione
del 1974 di autonomia quasi repubblicana i kosovaro-albanesi
sviluppano una politica, anche con episodi di violenza (nel
1981, poco dopo la morte di Tito, i primi gravi moti vengono
repressi con il concorso delle stesse autorità
kosovaro-albanesi), che squilibra ulteriormente il rapporto
(dal 27,5% del 1948 i serbi cadono nel 1981 al 13,2%). In
situazioni del genere, e purché vi sia un regime di
autonomia, la maggioranza di una ?regione? non acquisisce
peraltro sul piano internazionale un ?diritto di
autodeterminazione?, nel senso della secessione (si pensi
all?Alto Adige-Sud Tirolo).
Apparve inevitabile, nell?aggravarsi delle tensioni in Kosovo
e fra i già forti segnali di disgregazione nella Jugoslavia,
la modifica costituzionale del 1989: ma questa avvenne, sulla
base costituzionale jugoslava dell?epoca (fu in particolare
accettata, il 23 marzo, dall?assemblea provinciale kosovara -
pur se qualcuno ha rilevato forzature - e, il 28, da quella
repubblicana serba): non dunque, come si pretende, solo
decisione serba e addirittura del solo Milosevic; ed essa
riguardò poi anche, ovviamente, la Vojvodina (Costituzione
serba del 1990). Del resto, fu la presidenza federale a
decretare, il 12 maggio 1989, lo stato di emergenza nel
Kosovo. Che anche da parte dei serbi possano esservi stati
errori ed eccessi, non può negarsi: che una restrizione
dell?autonomia precedente quasi repubblicana sia stata
risentita sfavorevolmente da gran parte della componente
kosovaro-albanese, può essere comprensibile. E? un fatto però
che la sostanza dell?autonomia per questa componente restò in
vita e che soltanto (e di nuovo!) un eccesso di umori
nazionalistici - interni, ma ancora eccitati e favoriti
dall?esterno - spinse larga parte della componente
kosovaro-albanese a non avvalersi degli istituti di
quell?autonomia, bensì a rifugiarsi in istituzioni
?parallele? (si arrivò, dopo vari passi, alla proclamazione,
da parte della maggioranza dell?assemblea di Pristina, della
?separazione politica? dalla Serbia, con la conseguenza dello
scioglimento - 5 luglio - dell?assemblea stessa per decisione
delle autorità serbe, che assunsero i pieni poteri nella
provincia; l?assemblea però formalmente sciolta si riunì in
località segreta, e si arrivò a una ?Costituzione? del Kosovo
approvata dagli albanesi il 7 settembre e alla proclamazione
del Kosovo come repubblica sovrana il 12 settembre 1990 e
quindi, il 22 settembre 1991, alla dichiarazione
dell?indipendenza del Kosovo stesso confermata da un
referendum nella componente albanese tra il 26 e il 30
settembre, con successive elezioni di un parlamento e di un
presidente - Rugova, 22 maggio 1992 -, il tutto ovviamente
fuori dal quadro costituzionale jugoslavo). Si trattò di
operazioni anch?esse sostenute dall?esterno: tutto ciò
certamente non fonda sul piano giuridico un ?diritto di
autodeterminazione?. E? vero che neppure ne risultò favorita
la pacificazione: seguirono tensioni e incidenti e misure
jugoslave ?di ordine pubblico?, anche fortemente restrittive.
Ma ciò non avrebbe consentito agli occidentali di arrogarsi
di entrare in una questione interna di uno Stato sovrano -
tale certamente: così viene considerata per la Russia, ad
es., la questione cecena, per la quale gli occidentali hanno
rinunciato a velleitarie ingerenze, almeno sul piano
ufficiale, e si tratta di una questione che presenta
fortissima analogia con quella del Kosovo -, cercando di
ostacolare gli sforzi jugoslavi di comporre la crisi anche
con l?inevitabile impiego dell?esercito federale:
retrospettivamente, secondo quanto chi voleva vedere già
sapeva, ma che oggi si impone a tutti, dovendosi riconoscere
che perdite umane e danni sarebbero stati infinitamente
minori senza l?azione degli occidentali. Ma non era il minor
danno la finalità dell?ingerenza. Dobbiamo comunque ricordare
che il II Protocollo del 1977, aggiunto alle Convenzioni di
Ginevra del 1949 sul diritto di guerra, e mirante ad
estendere i trattamenti umanitari ai ?conflitti interni?,
vieta espressamente qualunque ingerenza e intervento esterno
pur motivato da asserite violazioni del Protocollo stesso.
Non possiamo ripercorrere le tappe di un?azione ancora una
volta criminalmente illecita. Basta segnalare il salto
qualitativo della trasformazione, proclamata a un certo punto
dagli Stati occidentali, dell?organizzazione paramilitare
secessionistica kosovaro-albanese, per lungo tempo
stigmatizzata come terroristica, e cioè l?Uck (Esercito per
la liberazione del Kosovo - o Kosova, secondo la dizione
albanese) - notoriamente da sempre finanziata da ambienti
occidentali -, in organismo di lotta per
l?autodeterminazione! Prime azioni terroristiche dell?Uck con
uccisione di serbi in Kosovo vengono segnalate già
nell?aprile 1996.
Non va dimenticato che, a partire da metà anni ?90, su spinta
del Partito socialista e di Milosevic, era stata arrestata,
almeno in Serbia, l?ondata liberistica in economia che, ai
primi del decennio, aveva investito anche la residua
Jugoslavia: venne sostituito l?ultraliberista banchiere
centrale Abramovic, lo Stato riprese il controllo
dell?industria farmaceutica, colpendo interessi in
particolare americani e così via.
E? in questo contesto che il Consiglio di sicurezza (C.d.s.)
riprende ad occuparsi della Jugoslavia: precisamente, della
questione interna del Kosovo, della c.d. guerra civile, in
realtà attività terroristica. E? noto che soprattutto dal
1998 la guerriglia dell?Uck albanese - che la Jugoslavia nel
1997 aveva quasi risolto - si intensificò, sotto precise
spinte occidentali (si ricordi la nota Védrine; e la
dichiarazione di Madeleine Albright del 9 marzo 1998, per cui
?la questione del Kosovo non è affare interno della
Jugoslavia?!). La reazione jugoslava fu in linea di principio
assolutamente legittima: è peraltro verosimile che in alcuni
casi, soprattutto da parte dei gruppi paramilitari, vi
possano essere stati degli eccessi anche gravi, del resto
controbilanciati da azioni di parte kosovaro-albanese. Nel
1998 furono prese talune risoluzioni del C.d.s. che, nel
complesso, condannavano contemporaneamente l??uso eccessivo
della forza? ad opera della polizia jugoslava e gli atti di
terrorismo di parte albanese e definivano i principi per una
soluzione della questione del Kosovo, un?operazione che, al
di là del merito, appare formalmente un?ingerenza nei fatti
interni jugoslavi (si trattava comunque della riaffermazione
dell?integrità territoriale della Jugoslavia e di un maggior
livello di autonomia per il Kosovo): fino alla ris. 1203 del
24 ottobre 1998 che ribadiva la condanna degli atti di
violenza da ogni parte e l?esigenza di impedire una
catastrofe umanitaria e prendeva poi atto di accordi firmati
il 16 ottobre 1998 da Jugoslavia e OSCE e il 15 ottobre 1998
da Jugoslavia e NATO, relativi alla verifica degli
adempimenti jugoslavi. Si sottolineava da ultimo l?urgenza
che Jugoslavia e dirigenti albanesi del Kosovo entrassero in
un dialogo effettivo senza precondizioni e con coinvolgimento
internazionale per una soluzione politica negoziata della
crisi. Quest?ultima clausola si riferisce a futuri negoziati,
che saranno poi quelli tragici e grotteschi di Rambouillet:
fu naturalmente allarmante l?imposizione del ?coinvolgimento
internazionale?, che preparò l?ingerenza dei ?soliti noti?
con le conseguenze estreme che si sono poi avute.
E? un fatto che la Jugoslavia iniziava ad adempiere le
esigenze prospettate, per quanto, ribadiamo, secondo noi, a
suo danno illecite: ma l?Uck profittò del ritiro delle forze
jugoslave per riprendere e rafforzare le sue posizioni. Fu
questo che costrinse la Jugoslavia ad un?azione di
contenimento e di controffensiva.
In un clima di tensione e di totale partigianeria dei
?dominanti?, anche della stessa missione OSCE (si scatena una
campagna per l?asserito eccidio di Racak del 5 gennaio 1999,
dove si svolse un combattimento, e si ebbero 45 morti
albanesi, a proposito del quale successivamente emergeranno
elementi di grave mistificazione ai danni degli jugoslavi),
riprende l?esorbitante pressione occidentale e si aprono le
c.d. trattative di Rambouillet fra i principali Stati NATO
(il Gruppo di contatto), la Jugoslavia, i dirigenti
secessionisti kosovaro-albanesi (da parte occidentale si
parla sempre di ?accordo? di Rambouillet, pur se nessuna
formale conclusione vi sia stata: sembra patetico dover
segnalare gli abusi sinanco linguistici provenienti da quella
parte). La Jugoslavia si dimostrò pronta ad accettare molte
delle clausole del regolamento progettato (si direbbe meglio,
comminato dai ?soliti noti?): questo sfociò in una bozza di
accordo del 23 febbraio 1999, nella quale furono inserite
all?ultimo momento condizioni assolutamente inaccettabili,
quali una, sia pur larvata nei termini, prefigurazione di un
distacco del Kosovo dalla Jugoslavia (nonostante una formale
dichiarazione di principio sul rispetto dell?integrità di
questa) e la completa libertà di ingresso e circolazione,
addirittura con totale esenzione giurisdizionale, delle forze
NATO - a quell?organizzazione veniva affidato il compito di
costituire e guidare una forza militare multinazionale per
assicurare l?adempimento dell?accordo - in tutto il
territorio della Federazione jugoslava: un?occupazione cioè
dell?intero Stato. Il rifiuto di firma da parte jugoslava,
veniva espressamente detto, sarebbe stato sanzionato con
bombardamenti. Dunque, un diktat che si commenta da solo.
La Jugoslavia non si piegò: un rifiuto inevitabile e, va
detto senza esitazioni, eroico.
I selvaggi bombardamenti aerei scatenati dal 24 marzo 1999
sulla Jugoslavia da parte di 10 Stati della NATO agenti nel
quadro dell?organizzazione atlantica, durati 78 giorni
(operazione Determinate Force, marzo-giugno 1999) provocarono
perdite umane civili jugoslave (anche kosovaro-albanesi!),
distruzioni, catastrofi ambientali, pure con l?uso di
proiettili all?uranio impoverito (e dunque clamorose ferite
anche dello jus in bello, concretanti crimini di guerra e
contro l?umanità da parte degli Stati NATO e dei loro
dirigenti, sono stati iniziati persino senza l?avallo formale
del C.d.s., che non venne neppure previamente convocato. I
piani NATO erano già stati elaborati dal giugno 1998; nel
gennaio 1999 il segretario generale Solana dichiarò che la
NATO avrebbe potuto colpire senza preavviso (quindi, anche ad
esclusione delle N.U.). Si deve sottolineare che le ultime
risoluzioni del C.d.s. sulla questione non avevano sancito in
alcun modo il ricorso alla forza e consideravano ugualmente
responsabili le due parti del conflitto civile. Una riunione
del 26 marzo 1999, due giorni dopo l?inizio dell?aggressione
aerea, vedeva i delegati statunitense e britannico
giustificare i bombardamenti al fine - come dichiaravano - di
prevenire ?un?enorme catastrofe umanitaria?, che ambedue
riconoscevano però non in atto, bensì ?imminente?. Era facile
per il delegato russo esprimersi in questi termini: ?i membri
della NATO non hanno titolo per decidere il destino di altri
Stati indipendenti e sovrani. Non devono dimenticare che non
sono soltanto membri della loro alleanza, ma anche membri
delle N.U. e che hanno l?obbligo di ottemperare alla Carta
delle N.U., in particolare all?art. 103, che chiaramente
stabilisce l?assoluta priorità, per i membri, degli obblighi
della Carta su ogni altro obbligo internazionale. I tentativi
di giustificare gli attacchi NATO con argomenti sulla
prevenzione di una catastrofe umanitaria sono del tutto
insostenibili. Essi non sono basati in alcun modo sulla Carta
o su altre norme generalmente riconosciute dal diritto
internazionale, mentre l?uso unilaterale della forza condurrà
precisamente a una situazione con conseguenze umanitarie
veramente devastanti??. Quanto al delegato indiano, rilevava
che ?ciò che è particolarmente irritante è che tanto il
diritto internazionale quanto l?autorità del C.d.s. vengono
irrisi da paesi che pretendono di essere campioni della norma
di diritto e che includono membri permanenti del C.d.s., il
cui interesse principale dovrebbe senza dubbio risiedere
nell?incrementare piuttosto che nel minare la preminenza del
C.d.s. nel mantenimento della pace e della sicurezza
internazionali?. Da queste dichiarazioni si intende la
ragione reale dello scatenamento unilaterale: la facile
previsione che l?enormità di quanto si intendeva compiere e
che Rambouillet aveva lampantemente svelato agli occhi del
mondo, facendo intendere a chi non si chiudesse gli occhi che
ben altre erano le finalità dell?azione di violenza rispetto
a quelle ?umanitarie? gabellate, non avrebbe con tutta
probabilità consentito al C.d.s. di decidere nel senso che da
parte occidentale si voleva imporre. Il pretesto sbandierato
era stato, come detto, un?asserita catastrofe umanitaria, che
sarebbe stata provocata dall?azione jugoslava: dimenticandosi
che questa era in principio assolutamente legittima (ne fa
fede il già ricordato II Protocollo del 1977), pur forse con
eccessi dolorosi inevitabili in un conflitto interno, per di
più attizzato da fuori, ma attribuibili ad ambo le parti, gli
aggressori si fondarono sul pretesto di una catastrofe che a
quanto oggi si sa altro non fu che fola artificialmente
propalata e che nella sua realtà venne piuttosto provocata
dai bombardamenti aerei: riferire la tragedia dei profughi a
diabolici piani jugoslavi piuttosto che ai barbarici
bombardamenti NATO e magari a contromisure jugoslave di
guerra o anche a reazioni sempre jugoslave in episodi singoli
in sé talora non giustificabili, ma difficilmente
controllabili nel caos suscitato dall?aggressione aerea,
appare di un cinismo smisurato.
Un?aggressione, dunque, mascherata da intervento
?umanitario?, una figura tipica dell?epoca coloniale e
respinta dal diritto internazionale e dalla stessa Carta
delle N.U., nonostante correnti capziose interpretazioni
contrarie.
E? probabile ci si illudesse su un collasso jugoslavo dopo
tre o quattro giorni di bombardamenti. Ma certo ha avuto peso
il ricatto della continuazione dei bombardamenti: se ne deve
ritenere inficiata la validità giuridica delle soluzioni
imposte alla Jugoslavia con accordi armistiziali conclusi
sulla base di principi generali risultanti da una riunione
del 6 maggio 1999 degli Stati appartenenti al gruppo dei G-8:
Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Gran Bretagna,
Stati Uniti e Russia: escono allo scoperto in questo modo, a
parte il Giappone, i decisivi Stati NATO (i ?soliti noti?),
con il coinvolgimento della Russia che aveva tentato
un?azione mediatrice. Ci si potrebbe domandare che cosa il
G-8 avesse a che fare con la questione. Si arrivò comunque
all?accordo militare e tecnico del 9 giugno 1999 fra
Jugoslavia e NATO, con cui la prima accettava di ritirare le
sue forze armate dal Kosovo e la NATO, bontà sua, di
interrompere i bombardamenti aerei.
Ancora una volta (!) la sostanza di tale sistemazione veniva
trasferita in una risoluzione del C.d.s.: la 1244 del 10
giugno 1999, presa con l?astensione della Cina (che fra
l?altro si era pronunciata contro ogni riferimento al
Tribunale penale internazionale dell?Aja). A termini di
questa, la provincia serba del Kosovo, entro la Federazione
jugoslava, viene ?provvisoriamente? staccata dallo Stato
legittimo: si autorizzano gli Stati membri e ?le rilevanti
organizzazioni internazionali? (!) a istituire in Kosovo una
?presenza di sicurezza internazionale?, e il segretario
generale, ?con l?assistenza delle rilevanti organizzazioni
internazionali? (!!), a stabilire nella provincia ?una
presenza civile internazionale? per assicurare
l?amministrazione provvisoria del territorio (UNMIK: United
Nations Mission in Kosovo). Quanto alla forza di sicurezza
(KFOR: Kosovo Force), essa fu costituita con una ?sostanziale
partecipazione della NATO? (formula che ha consentito la
partecipazione della Russia, estranea alla NATO), sottoposta
?ad un comando e controllo unificato? e con il compito di
?stabilire un ambiente sicuro per tutta la popolazione in
Kosovo e facilitare il ritorno sicuro a casa di tutti i
profughi e rifugiati? (compito ampiamente disatteso). Se da
una parte si riafferma ?l?impegno di tutti gli Stati membri
per la sovranità e integrità territoriale della Jugoslavia?,
dall?altra viene previsto ?il sostanziale autogoverno del
Kosovo, tenendo pieno conto degli accordi di Rambouillet?:
cioè di quello strumento, che poi accordo non è, il quale
avrebbe aperto la strada ad un distacco del Kosovo dalla
Jugoslavia.
E? sotto gli occhi di tutti quanto sta avvenendo in Kosovo:
la stessa ris. 1244, come puntualmente rileva un memorandum
del governo jugoslavo, viene costantemente violata dagli
occupanti e dall?amministrazione civile, che ha nei fatti
consentito una vasta operazione di ?pulizia etnica? ai danni
non solo dei serbi ma di tutte le componenti non albanesi in
Kosovo (e contro gli stessi albanesi leali nei confronti di
Belgrado). L?aver affidato a forze esterne la soluzione di
una questione interna non si dimostra, neppure praticamente,
soluzione efficace. Ma l?ingresso consentito agli Stati NATO
e alla stessa organizzazione atlantica è ovviamente del tutto
illecito (la NATO nulla ha a che fare con i Balcani). Gli
occidentali hanno parzialmente raggiunto una delle loro
finalità, il (provvisorio?) distacco del Kosovo dalla Serbia
e quindi dalla Jugoslavia: ma, sia pur con la menzionata
ambiguità, per ora sul piano giuridico è sancita
l?appartenenza della provincia alla Federazione. Non hanno
invece né potuto occupare l?intera Jugoslavia attuale né
provocare subito la agognata caduta del legittimo presidente
Milosevic: contro il quale ogni tipo di manovra e
provocazione è stato considerato lecito, dalla strumentale
?incriminazione? da parte dell?abusivo Tribunale penale
internazionale dell?Aja ai complotti omicidi e, quindi, alla
replica di un copione secessionistico con riguardo al
Montenegro (quest?ultima manovra incappò per allora in
qualche colpo di freno).
(3, segue. URL:
http://www.confederazionecomunisti.it/Il%20processo%20
Milosevic%20e%20l%27imperialismo2.htm )