IL PREZZO DELLA GRAZIA

Si sono fatte sempre più forti, nelle ultime settimane, le voci che
hanno dato per certa la grazia ad Adriano Sofri subito dopo che la
Legge Cirami fosse passata in Parlamento.
Detto-fatto: appena passata la Legge Cirami, e' sceso in campo
nientepopodimeno che il Presidente del Consiglio, quell'onest'uomo di
Silvio Berlusconi, promettendo che il bravo intellettuale italiota
otterra' la grazia.
La otterra' "anche alla luce dei suoi scritti": e per capire meglio a
quali scritti si riferisca Berlusconi invitiamo a leggere piu' avanti
l'"Elogio dello sceriffo globale". A cotanto intellettuale il Palazzo
dovra' certo assegnare il dicastero della "Pubblica Disinformazione"
per meriti acquisiti.

(a cura di Luca, Claudio e Andrea)

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Roma, 11:07
Sofri, Berlusconi: matura decisione favorevole a grazia

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ritiene che "sia matura
una decisione favorevole alla grazia" per Adriano Sofri, condannato a
22 anni di carcere per l'omicidio del commissario Calabresi. Una
posizione nata dalla convinzione che proprio per il comportamento
tenuto in questi anni dall'ex leader di Lotta Continua ("entrato in
carcere per due volte con le sue gambe, pur considerando oltraggiosa
l'accusa formulata contro di lui e dichiarandosi non colpevole") e
anche alla luce dei "suoi scritti", "la societ non pu attendersi dalla
sua detenzione un qualunque beneficio in termini di rieducazione" e
"la pena rischia di risultare soltanto afflittiva".
Il premier ha affidato il suo pensiero ad una lettera pubblicata oggi
da il Foglio. (red)

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Ecco cosa Sofri scriveva su "Panorama" in edicola a fine ottobre:

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ELOGIO DELLO SCERIFFO GLOBALE

Con il dilagare dei crimini contro l'umanità, è urgente che alla
nozione e all'azione di guerra subentri quella di polizia
internazionale. Per tutelare, almeno, l¹incolumità di chi non c'entra.

di ADRIANO SOFRI


La discussione sul pacifismo e le condizioni del ricorso alla forza è
resa ogni giorno più attuale dalla triste inflazione di violenza che
attrversa la Terra. È un peccato che la discussione sembri
ricominciare ogni volta daccapo, tenersi a opposte e universali
dichiarazioni di principio (trasformate presto in slogan), e
specialmente a una contrapposizione fra pace e guerra per un verso
sacra e ovvia, fino al tabù, per l'altro inadeguata al problema reale.
Il problema reale è quello di un mondo così ravvicinato che persone,
merci, informazioni, culture e violenze lo percorrono in lungo e in
largo senza lasciarsi arrestare dalle frontiere degli stati sovrani.

Doppia è la ragione che ha spinto al diritto sovrannazionale di
ingerenza negli affari interni dei diversi paesi. La prima è nella
definizione di crimini contro l'umanità che eccedono l'ambito
esclusivo delle legislazioni nazionali. Molto spesso sono gli stati a
commettere quei crimini contro i loro stessi cittadini. Un'altra
ragione, sempre più urgente, sta nella sfida mossa alla sicurezza e
alla libertà civile da bande internazionali, diffuse in paesi e
continenti diversi e impegnate a colpire in paesi e continenti
diversi. Nei confronti dei crirnini contro l'umanità (fino al
genocidio, contro il quale la legge internazionale prevede un obbligo
di intervento, eluso di fatto dalla viltà o dall'ipocrisia delle
potenze, anche nei casi più tragicamente limpidi, come in Ruanda) come
nella lotta contro il terrorismo internazionale, la legislazione
intemazionale arranca, e l'intervento pratico anche. Quando, sempre in
extremis, dopo aver ignorato la prevenzione di malattie divenute così
incurabili, la comunità internazionale si risolve a intervenire con la
propria forza, non riesce a immaginare altro modo di farlo se non
nella forma (e col nome) della guerra.
La "guerra" del Kosovo, per esempio.

Di fatto, benché il ricorso alla forza militare sia quello tipico
della guerra, si tratta in genere di una sua contraffazione, per la
(benedetta) schiacciante sproporzione delle forze. È stato così nel
Golfo, poi nella Serbia, poi nello stesso Afghanistan. Benché a volte
ricorra all'espressione di "polizia internazionale", la comunità
internazionale e i suoi padroni (primi gli Stati Uniti, per distacco)
non sanno pensare il soccorso e la tutela della legalità
internazionale se non col titolo e con la pratica della guerra. E
dunque la contrapposizione dei suoi cittadini fra fautori della pace e
della guerra. Col risultato, oltretutto, di far passare i fautori
della pace per rassegnati all'omissione di soccorso e all'impunità
dei tiranni. E, reciprocamente, i fautori di un intervento
internazionale in soccorso di vittime inermi e a tutela del diritto,
per guerrafondai.
C'è una criminalità "comune", ammesso che si possa ancora chiamarla
così, che ha anch'essa, anzi spesso in anticipo sugli altri, fatto
tesoro del villaggio globale per infrangere le frontiere ed estendere
la sua presa attraverso i continenti fino a confiscare interi stati e
govemi. Il traffico di armi, di droga, di corpi umani, assecondato
dall'ottusità di proibizionismi gridati e impotenti, ingrassa le
multinazionali criminali. A esse si oppongono polizie internazionali,
incomparabilmente deboli di fronte alla potenza di mezzi e uomini e
brutalità della grande crirninalità. Benché sempre più spesso adotti
strumenti e modalità militari e guerresche, in Colombia per esempio,
questa azione intemazionale conserva, in omaggio alla sua origine
dalla lotta alla criminalità "comune", il nome di polizia; mentre
l'altra, indirizzata contro i crin?ini degli stati o delle
organizzazioni terroristiche, non sa liberarsi del nome di guerra.
Ora, non è solo l'intreccio sempre più stretto fra le due (pensate
alla questione dell'oppio in Afghanistan) a consigliare una
riflessione radicale sulla questione della polizia internazionale.
Solo un'abitudine tenace e pigra alla sovranità statale come limite
insuperabile della legge e della sua fonte impedisce di vedere
l'affinità crescente (non dico l'identità) fra la necessità di una
polizia locale, nazionale, federale, dove ci sia un'unità
sovrannazionale (per esempio nell'Europa dopo Schengen), e la
necessità di una polizia (e una legge, un codice, un tribunale)
internazionale. La prima è un'ovvietà per chiunque, anche per un bravo
anarchico. La seconda è ancora uno scandalo o una bizzarria per i più.
Nessuno esiterebbe a chiamare la polizia di fronte all'aggressione a
un inerme a un angolo di strada. Molti esitano, e parecchi anzi si
oppongono, all'appello a una polizia che faccia finire il massacro
di Sarajevo, impedisca e punisca lo sterminio di Srebrenica,
interrompa il genocidio ruandese.
È difficile liberarsi delle proprie convinzioni consolidate, e
diventate pregiudizi. La diffidenza nei confronti delle violazioni
aggressive all'indipendenza nazionale è così recente che non ci si
vuol staccare da quella trincea. Purtroppo questa resistenza facilita
la confusione fra guerra e azione di polizia internazionale: sicché
quando un'azione di forza internazionale diventa inevitabile, né la
sua legalità, né il suo esercizio proporzionato diventano l'impegno di
chi ama la pace secondo giustizia. A quel punto, semplicemente, la
mano passa dai governanti ai generali. Le polizie locali e nazionali,
sebbene debbano sempre guardarsi dalla tentazione all'abuso
connaturata ai corpi separati e armati (e troppo spesso a quella
tentazione cedano) hanno un obbligo statutario e un costume più o
meno consolidato, più in Gran Bretagna meno in California, a
commisurare l'impiego della forza al compito da realizzare, e alla
tutela dell'incolumità delle persone estranee che potrebbero esserne
coinvolte. Una analoga proporzione, una analoga cura per l'incolumità
dei terzi, è oggi assente dagli impieghi della forza in quelle che
dovrebbero essere azioni di polizia internazionale, e continuano a
essere guerre.